Chissà chi sarò. Ce lo siamo chiesti tutti, almeno una volta nella vita. Se lo chiede anche Yakub che, per caso o per destino, si è ritrovato Bologna come città adottiva. Yakub non ama raccontare del suo passato, di quel lungo viaggio di un anno e mezzo dalla Nigeria per raggiungere il nostro paese, ma forse questo non è poi così rilevante. La sua storia appartiene solo a lui. Quello che davvero importa ora è il presente e, in questo momento, Yakub desidera semplicemente ciò che desidera qualsiasi altro giovane di vent’anni che esplora le strade della propria città alla ricerca di se stesso scoprendo, registrando e camminando. Perché questa non è la sua destinazione finale.
Diretto da Anna de Manincor e prodotto dal collettivo bolognese ZimmerFrei, Yakub racconta tre anni di vita di un giovane migrante nigeriano a Bologna, dal 2017 al 2020. Sullo sfondo della città vista con gli occhi di un giovane che deve costruire tutto il suo mondo, il documentario propone un romanzo di formazione attuale e una riflessione concreta sull’atto della convivenza.
Yakub è tra i titoli in concorso alla 17°edizione del Terra di Tutti Film Festival, la rassegna di cinema sociale che vuole raccontare, con occhio critico e senza retorica, il mondo reale al di là del grande schermo. In occasione della proiezione del documentario venerdì 6 ottobre al Cinema Lumière, abbiamo raggiunto la regista Anna de Manincor per parlare della produzione di Yakub, dell’importanza della convivenza e del rapporto con la città di Bologna.
Questa è la prima volta che il documentario viene proiettato a Bologna, dov’è stato girato. Vi aspettate qualcosa in particolare dal pubblico in sala?
«Ci aspettiamo prima di tutto di vedere il documentario con le persone che hanno incrociato il film in qualche maniera, non solo quelli che ci sono dentro. Yakub ha avuto varie tappe di produzione e ci sono stati molti intrecci. Abbiamo incontrato per la prima volta Yakub nel 2018 e ora vediamo la città anche con un piccolo cannocchiale dal futuro. Questo ci permette di metterla un po’ in prospettiva, perché pensiamo sempre che il nostro presente sia irrimediabile e che sia peggio del passato. Perciò mi aspetto che faccia un po’ da effetto specchio alla città, perché Bologna è tuttora una città dove è possibile farsi adottare ed è possibile farla diventare la propria città».
Come avete conosciuto Yakub e perché avete deciso di raccontare la sua storia?
«Il primo incontro con Yakub è avvenuto quasi per caso durante il primo laboratorio per il cortometraggio Saga. Cercavamo degli adolescenti dai 16 ai 19 anni che avessero delle aspettative sulla città di Bologna molto diverse, e anche dei bisogni e un raggio d’azione diverso. Un’operatrice del CAS Mattei che lavora con i minori ha visto un annuncio dell’ERT riguardo a un laboratorio gratuito sul suono nella città e lo ha consigliato a Yakub, che è venuto a scoprire di cosa si trattava.
Per il progetto abbiamo dato a tutti i partecipanti degli strumenti per registrare e lui andava in giro ascoltando il suono della città, portando il registratore con lui al Mattei e tornando il giorno dopo con delle registrazioni senza commento della vita sonora dei posti che frequentava, ed era molto interessante immaginare delle situazioni sentendo solo i suoni. Noi proponevamo proprio un laboratorio sul suono, non sulla musica, e questo a lui dev’essere interessato».
Come è sviluppata la narrazione tra la città di Bologna e Yakub?
«All’inizio il percorso voleva mostrare un ritratto della città di Bologna vista con gli occhi di un giovanissimo che deve costruire tutto della sua vita. Nel corso delle lavorazione, però, il film ha attraversato varie fasi e ha cambiato registro. Inizia come un classico documentario di osservazione, nel periodo in cui abbiamo incontrato Yakub lui si trovava al Centro CAS Mattei e in quella fase vagabondava prevalentemente dalla periferia verso il centro, perché era l’unica cosa che poteva fare e che era libero di fare. Noi lo seguivamo, osservandolo con la videocamera. Poi è entrato nel Progetto Vesta, un programma di ospitalità famiglia promosso dal Comune di Bologna e ora chiuso per mancanza di fondi. Lì il registro del film è cambiato ed è passato allo stage documentary, dove le persone coinvolte partecipano alla realizzazione del cortometraggio in maniera attiva. Perciò Yakub ha cominciato a renderci a parte delle sue attività, come lo studio per la patente o le gite al mercato insieme ai suoi amici. Nel corso delle riprese ha partecipato anche al documentario Saga, una raccolta di quattro cortometraggi di cui uno è dedicato proprio a lui, e a un progetto di installazione video di ZimmerFrei chiamato LUMI, nel quale è diventato un attore vero e proprio. Ha reinterpretato delle cose che ha raccontato e parti di altre storie che lui non ha potuto vivere. Perciò il suo “personaggio” cambia di statuto, ed è così che finisce il documentario Yakub, con questo ragazzo che riflette sulla propria figura e si osserva dal di fuori, come se fosse diventato un romanzo di formazione per gli spettatori e anche per sé stesso».
Lo scopo del documentario non è parlare del viaggio di arrivo, ma del rapporto successivo con la città. Posso chiedere il perché di questa scelta?
«Quando abbiamo incontrato Yakub per la prima volta fuori dal nostro studio gli abbiamo chiesto come si chiamasse e quanti anni avesse, e lui ci ha fatto immediatamente capire che era stanco di raccontare sempre la stessa storia, l’unica cosa a cui le persone sembrano davvero interessate. Allora noi gli abbiamo proposto se fosse invece interessato a fare domande. In quel momento gli abbiamo promesso che non gli avremmo mai fatto quella domanda, “Come sei arrivato qui?”, e io non gliel’ho tutt’ora mai fatta. Ad altri lo ha raccontato, però io sono una delle persone con cui ha costruito solo da quel presente in avanti e non mi trovo nella condizione di provare quell’empatia che si può avere o anche possibilità di comprendere delle situazioni che noi non abbiamo vissuto. C’è una distanza umana, tutto questo non lo conosciamo. C’è però un punto nel documentario in cui Yakub inizia a raccontare la sua partenza dalla Nigeria ed è un momento molto intenso. Aveva cominciato spontaneamente a raccontare la sua vita, ma purtroppo è stato fermato da una telefonata improvvisa. Però a me piace molto questo mistero».
Puoi condividere alcune delle sfide affrontate durante la produzione?
«Per questo documentario abbiamo deciso di rimanere molto liberi come linguaggio, perché si tratta di una piccola produzione partita inizialmente con il progetto di ERT-Emilia Romagna Teatro Saga, poi proseguita con Bo Film e la la Film Commission Emilia Romagna. Non è un film tarato su un certo tipo pubblico o che ha un’intenzione pregressa sulla migrazione o su Bologna. Abbiamo seguito totalmente le ispirazioni di quelle stagioni. Quando si inizia a sviluppare un film ovviamente non si sa quanto ci vorrà per concluderlo, noi di sicuro non avremmo voluto metterci quattro anni. Il film va via via reinvestito e rifinanziato, e anche la relazione con la persona va rifatta di stagione in stagione. Alla fine di questo percorso Yakub si è scoperto attore, e il fatto che ci fosse sempre il film in corso durante quegli anni in qualche maniera gli dava una una una continuità in tutti i passaggi che lui ha fatto – il lavoro, lo studio, la convivenza – testimoniati nel film, per i quali non potevamo ne volevamo assolutamente influire».
C’è qualcosa in particolare che vorrebbe emergesse dalla visione di questo documentario, tenendo conto anche del contesto sociale e politico attuale in Italia?
«Quando abbiamo incontrato Yakub non avevamo un manifesto con cui comunicare qualcosa in particolare. Per noi era interessante vedere come si convive. Credo che negli anni di formazione sia molto più interessante vivere con dei coetanei che non trovarsi da soli nella classica camera singola. È un’esperienza che ritengo fondamentale per tutti i giovani. Andare in un altro posto, costruirsi una propria vita con gli altri – soprattutto con i coetanei – vista dall’esperienza di Yakub, più estrema perché parte da più lontano, mi sembrava qualcosa da dover raccontare. La sua esperienza è per me la cosa più sperabile che si possa immaginare per una persona che arriva da sola fuori dal suo nucleo familiare.
Per quanto riguarda la questione della migrazione dobbiamo guardarci da vicino. La cosa più efficace è vivere insieme, che sia nello stesso appartamento o nello stesso quartiere, ma non dobbiamo pensare che tutti abbiano le stesse esigenze, o che abbiano lo stesso peso per la società. Soprattutto in giovane età abbiamo tutti dei desideri molto simili, lo dice Yakub stesso nel film: “Io voglio viaggiare, non è che mi voglio fermare per forza qua”. Conoscere il mondo è una cosa che tutti noi abbiamo desiderato. “Chissà dove vivrò, magari andrò in America, o magari vado su Marte”. È il bello di avere vent’anni».
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