25 novembre.
Anna si siede sul bordo del divano, lo sguardo fisso sulla sedia rotta al centro della stanza. Il legno spezzato, le schegge sparse sul pavimento. Il silenzio è assordante. Non una parola di qualcuno, lo squillo di un cellulare, il rumore dei vicini che lo interrompa. Niente. Nessuna scusa per muovere quel corpo paralizzato.
Luca, il suo compagno, è in cucina. Ha il respiro ancora pesante dopo l’urlo di prima.
Anna ha passato tutta la mattina a prepararsi per il colloquio e finalmente ha trovato il coraggio di dirglielo.
Anna: “Oggi ho avuto un colloquio di lavoro.”
Luca smette di guardare lo schermo del telefonino e alza lo sguardo: “Quale colloquio?”
Anna: “Pensavo che sarebbe utile per noi… per avere un’entrata in più, con tutto quello che c’è da pagare.”
Luca: “Ah, quindi ora vuoi fare l’indipendente, eh?! E chi si occuperà della casa? Di Giulia? Non mi sembra che tu abbia tutto questo tempo libero.”
Anna cerca di restare calma, aggrappandosi alle prime parole che le vengono in mente. “Posso gestire tutto. Non tolgo niente, voglio solo aiutare”.
Luca si alza di scatto, sbattendo le mani sul tavolo. “Aiutare? Mi stai facendo passare per quello che non sa provvedere alla famiglia”. Poi incalza: “non ti serve lavorare, ci sono io per questo”.
Anna prova a rispondere qualcosa balbettando ma Luca ha già perso il controllo. Sembra un altro e la sua rabbia esplode.
Alza la mano. Stavolta però non per colpire lei. Si sfoga sulla sedia. Una violenza indiretta, ma abbastanza forte da farla tremare.
Questa sera è andata bene. Ma le prossime?
Questa sera è il frammento di una routine di controllo, parole taglienti e rabbia.
Sul pavimento un oggetto rotto è la metafora di una vita che non funziona, di una normalità apparente che nasconde una falla profonda. Anna sa che Luca non cambierà. Sa anche che quella sera, o un’altra sera, potrebbe esserci lei al posto di quella sedia.
Lei o una donna qualsiasi. Una situazione come tante. Uno schema che si ripete.
La violenza può travestirsi da ricatto o farsi urla, essere terrorismo psicologico o diventare botte, stupro, femminicidio. Chi la commette più spesso è un partner o un marito, ma può essere anche un padre, un collega, un capo, un amico o uno sconosciuto. Una persona normale, di cui magari ci fidiamo.
La reazione della donna va dalla giustificazione all’accettazione, dal silenzio all’ubbidienza, nei casi migliori dalla fuga alla denuncia alla lotta. Un grido troppo a lungo taciuto esce, vibra nell’aria, cerca altre voci.
Sì, perché se una voce sola può fare molta paura tante voci insieme possono fare il cambiamento.
Il disegno di Chiara Abastanotti, fumettista e illustratrice bresciana che ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, rappresenta un urlo di protesta, una chiamata collettiva alla ribellione. Utilizza il rosso, colore diventato simbolo della giornata contro la violenza sulle donne, da quando l’artista messicana Elina Chauvet lo ha utilizzato per un’installazione che ha fatto il giro del mondo. Nel 2009 ha posizionato 33 paia di scarpe femminili dipinte di rosso in una piazza di Ciudad Juárez, una città con un numero di femminicidi elevatissimo, per ricordare la morte delle donne vittime di violenza. Tra queste c’era anche sua sorella di soli vent’anni.
Oggi, 25 novembre, è la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne. È stata ufficializzata dalle Nazioni Unite nel 1999, neanche trent’anni fa. Oggi non è un giorno per ricordare ma per agire. La violenza sulle donne non è un fatto privato, ma una ferita collettiva. Ogni urlo inascoltato è una responsabilità di tutti. Perchè non basta dipingere di rosso una giornata per cambiare il mondo.
La violenza è un sistema che va smantellato con ogni parola, ogni gesto, ogni scelta che facciamo. Ogni giorno. Non possiamo tornare a essere silenzio. Oggi, 25 novembre, è solo l’inizio.
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