L’estetica sospesa e impeccabile delle sue fotografie si è fatta notare al punto che Ghali gli ha chiesto di realizzare l’artwork per la copertina del singolo Ninna Nanna.
Ma Giuseppe Palmisano, in arte iosonopipo, non è uno che puoi etichettare come fotografo di questa o quella cosa, e nemmeno solo come fotografo. Giuseppe è uno che mentre lavora per Wallpaper Magazine e realizza pubblicità per Miista, organizza performance corali coinvolgendo 300 donne che posano in location di prestigio, indossando calze bianche, per realizzare un’unica fotografia di grande formato, titolata Vuoto. Giuseppe è anche uno a cui piace che il confine fra l’arte e la vita resti quanto più sfocato possibile, ed è soprattutto per questo che ci ha concesso un’intervista, anche se ha dichiarato che non ne avrebbe fatte fino a nuovo ordine.
Noi abbiamo voluto saperne di più di quei gesti a cavallo fra l’evento e la performance, delle cene fra sconosciuti che organizza qui a Bologna e di 365pipo, un profilo Instagram su cui ogni giorno viene postato un ritratto di Giuseppe in città, realizzato da chiunque voglia prenotarsi sul suo calendario, come ho fatto io.
Il 14 febbraio si è tenuta, a L’Orsetto d’Abruzzo, la prima cena di San Valentino fra sconosciuti. Ci racconti come è nata l’idea?
“È partito tutto da un capodanno di due anni fa, quello del 2017. Il capodanno è quella serata che passi fra conoscenti che non rivedrai più, con cui devi fare la faccia sorridente di quello che si diverte e ti devi augurare le miglior cose. Poi il capodanno è sempre malinconico e quindi è diventato un capodanno tra sconosciuti malinconici.
Dal passaparola sui social (attraverso i quali ho chiesto aiuto praticamente per qualsiasi cosa nella mia vita), sono nati anche i pranzi della domenica, che a volte sono cene e a volte sono di mercoledì; io cucino e preparo sempre il menù del pranzo domenicale pugliese: orecchiette col ragù di carne e polpette di pane e uova fritte. Si è sparsa la voce e L’Orsetto d’Abruzzo mi ha invitato a fare la stessa cosa nella sua cucina per San Valentino: qui c’erano solo sconosciuti veri, e allora ti devi rilassare e ti devi lasciare andare. È bello perché quando nessuno si conosce si parte da un grado zero, non c’è giudizio e tendi ad essere più te stesso, se poi esiste un te stesso.
L’idea, comunque, è quella di performare anche la cosa più piccola, come una cena“.
Dici performare perché la consideri un’operazione artistica?
“Non ci vedo tanta differenza fra organizzare queste cene e chiamare 150 persone che si spogliano per fare una fotografia, solo che qui restano vestiti e mangiano.
‘Vuoto’ è successo dentro uno spazio preciso, connotato artisticamente, mentre il ristorante suggerisce l’idea di un evento più che di una performance. La differenza è anche che qui non c’è un prodotto finale che resta al di là dell’esperienza. Insomma la questione è: se non lo sa nessuno è ancora arte? Se non rimane una prova di quello che è successo, è arte? O l’arte è l’esperienza che fai venendo alla cena, anche se non ne rimane traccia?
Per esempio con ‘Vuoto#2’ alla Reggia di Caserta, ho avuto bisogno di vedere il video di una delle ragazze che hanno partecipato e che raccontava la performance dal suo punto di vista, per rendermi conto di quanto era stata reale quella stessa esperienza anche per me. Tu lo dici, lo ripeti ma quando lo dice qualcun altro è come se lo legittimasse, come se diventasse vero solo attraverso la condivisione”.
Dici che la fotografia è una scoria. Forse è necessario esserci e creare una relazione, per fruire davvero le tue opere?
“Ogni parte è fondamentale, chiunque entri in contatto, anche solo marginalmente, con l’opera spero abbia una reazione. Anche gli addetti alla sicurezza della Reggia di Caserta, per esempio. Il mio ruolo è cercare di usare un linguaggio universale, senza piacere a tutti, ma cercando di arrivare a tutti. Cerco di andare in questa direzione, a prescindere da che cosa creo, cerco una dimensione inclusiva che generi delle relazioni. Anche se poi durano il tempo del lavoro, o della cena: io li faccio incontrare, ma poi devono camminare da soli.
Con i miei soggetti si eliminano le formalità perché siamo già qualcosa anche se non ci siamo mai visti; le ragazze di Vuoto, per esempio, me le ricordavo tutte, una ad una, ancora prima di vederle. Per me è anche importante creare delle situazioni in cui, ad un certo punto, io posso essere anche spettatore, che è quello che succede quando fai le cose in tanti mesi e con tanta gente. Non puoi avere il controllo su tutto quello che succede anzi è probabile che quello che hai pensato verrà stravolto. Lasciando le cose aperte ci rientri che sono già cambiate.
Prima di scattare la fotografia di Vuoto, l’ho guardata da fuori e ho pensato Cristo Santo! Io sto lì in mezzo, prima di scattare preparo la foto, ma poi il click non lo faccio io. Io sto lì, da spettatore.
Sto lì da regista, da spettatore, da raccattapalle, da amico… E anche da artista. Artista forse è la parola che le racchiude tutte”.
E quindi il tuo ultimo progetto, 365pipo, è questo, passare dall’essere regista all’essere soggetto?
“Mi definisco regista, perché il regista coordina altre persone: senza una buona sceneggiatura, una buona fotografia, degli attori, il regista non è nessuno, ma senza il regista il film non si fa. Negli ultimi anni proliferano le immagini, le firme sulle foto, le pagine che attestano che qualcuno fa le foto. Quindi il tema dell’autorialità mi interessa molto: quanto contribuisce il soggetto, quanto contribuisce chi c’è nella foto. Siamo sicuri che è tutta farina del nostro sacco? Quando mi mostrano i miei ritratti è strano perché io mi percepisco in uno spazio, percepisco le luci, ma poi la foto è sempre diversa da come me l’aspetto”.
E il regista per dirigere deve sapere come ci si sente ad essere attori…
“Questo mi ricorda una puntata di Holli e Benji in cui fanno scambiare attaccanti e portieri per sapere cosa si prova. È proprio vero. 365pipo è una sfida, un altro modo di non avere controllo su tutto e accettarsi. Questa cosa dell’accettazione manca moltissimo nella fotografia oggi, il digitale poi è finzione totale; 365 è un po’ analogico intanto perché non si fanno troppe prove, già devo farlo tutti i giorni, figurati se dovessimo pure fare molti scatti”.
365 è nato anche perché non c’erano foto in cui ti piacevi o ti riconoscevi. Ora ce ne sono?
“Mi riconosco nel progetto. C’è un racconto che va avanti giorno per giorno e questo mi fa riconoscere. Poi ci sono io che voglio farmi fotografare e ogni giorno devo uscire di casa per farlo, e ci sono i posti che riconosco. Però non voglio abituarmi, vorrei che fino all’ultimo questo progetto mi sorprendesse”.
E poi c’è Bologna.
“Alcuni sono di Bologna, molti vivono qui da poco e quindi pochissimi mi hanno chiesto di andare in posti specifici. Altri sono venuti da fuori e quasi sempre abbiamo fatto una passeggiata partendo dal Rubik, che è dove ho passato gli ultimi mille anni della mia vita, loro vengono lì e da lì partiamo. Io lo faccio ogni giorno, quindi meglio se mi raggiungono loro che devono farlo una volta sola visto che sono pigro e che a Bologna si fa tutto a piedi. Le zone sono il ghetto, il centro, la Bolognina. Le mie zone”.
Pensi che 365pipo resterà su Instagram o diventerà qualcos’altro?
“In realtà non è partito su Instagram. Volevo fosse tutto offline, ma poi mi sono chiesto come coinvolgere le persone solo attraverso un calendario. Parlandone con un amico è stato come se lui desse per scontato che il progetto sarebbe stato tutto su Instagram, e allora ho pensato che ci stava. All’inizio volevo chiedere 1 euro a tutti quelli che mi hanno fotografato e fare un bellissimo libro con 365 foto e 365 euro. Avevo previsto che scattassero due foto, una per i social e una per il libro, ma alla fine quella per il libro era sempre più bella e sceglievo di postare quella.
Come sempre, ha prevalso la voglia di condivisione”.
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