Avevo concordato un appuntamento per le 15 meno qualche minuto.
“Arriverà in Feltrinelli alla 15 insieme all’editore”, mi scrive qualche giorno prima l’ufficio stampa
Arrivo di corsa, trafelata ma puntuale, e lui è già li. Microfono in mano, davanti a Michele Rech, in arte Zerocalcare, centinaia di ragazzi in fila per far firmare la propria copia, ma anche mamme e neonati nel marsupio. Sul tavolino un piatto di insalata. Una forchettata e un “disegnetto”, un’altra forchettata e una firma. Il programma prevede tre ore di firme e “disegnetti”, prima della presentazione del libro prevista alle 18, e poi ancora ad oltranza.
Al numero dieci fermano la fila e il fumettista di Rebibbia si avvicina alla stampa per qualche domanda. Sorridente e disponibile, nonostante il suo libro “Macerie prime. Sei mesi dopo”, edito dalla Bao Publishing, sia al primo posto nelle classifiche dei libri più venduti.
A novembre era uscito “Macerie prime”, duecento pagine con la prima metà di una storia che si interrompe, per continuare sei mesi dopo nel secondo volume. Per il lettore sono trascorsi sei mesi, esattamente come per i personaggi.
“E’ una storia di quattrocento pagine e un solo volume sarebbe stato difficile da maneggiare”, mi dice. Ma c’è di più dietro questa scelta. E non è solo questione di peso. “Si, dentro la storia i personaggi si perdono di vista e volevo che il lettore vivesse la storia nello stesso modo, non semplicemente voltando pagina”.
L’attesa quindi, che è anche quella di una generazione “sospesa”, quella degli ultratrentenni, che oscilla tra la precarietà e il proporzionale senso di inadeguatezza e di mancanza di un “centro”.
In prima fila ci sono i suoi amici, l’Armadillo l’ha abbandonato e al suo posto c’è un Panda “sticazzi”, che se ne frega di tutto.
Zerocalcare disegna il ritratto del tracollo di una generazione, che all’anagrafe è nel mondo degli “adulti”, ma non sempre si sente tale. Manca il lavoro o se c’è le condizioni sono quelle che sono, non parliamo della carriera che si sognava. L’impossibilità di mettere al mondo un figlio che si desidera, se si ha ci si sente inadeguati e in parte ancora figli.
Regna l’incertezza in ogni rapporto: lavorativo, tra amici, sentimentale perchè nella precarietà le relazioni fanno fatica a “tenere”. Ci si attacca, tra rancori e invidie, mentre ciascuno è impegnato a rincorrere i suoi guai, non si ha la testa per gli altri, per l’amore, per l’empatia. Gli accolli si moltiplicano e si fatica a dire le cose. C’è chi si chiude, chi rimane immobile tra le macerie, chi compie gesti estremi.
“Dall’empatia – mi dice.- Quello che manca di più, mentre stai cercando di risolvere i tuoi guai, è proprio l’empatia verso chi sta come te ed è nella tua stessa situazione, se non peggio.
“Una tendenza all’egoismo, quindi? Che aumenta man mano che si diventa adulti?“, continuo.
“Non lo chiamerei egoismo, è una parola cattiva, ma più una sorta di auto conservazione spontanea. In un certo senso si, ma dipende da come si cresce. E lo si può fare anche senza perdersi”.
La sua storia ci dice che la condivisione fa parte del suo modo di essere.
“Per quindici anni ho fatto fumetti per i centri sociali, quindi in modo inclusivo, per tutti, perchè tutti capissero. Un approccio che ho ancora oggi. Lavoro molto con le didascalie, non voglio nemmeno che si diano interpretazioni diverse alla roba mia”
Non ha niente di un’intervista classica, ma più di una chiacchierata tra ultratrentenni. Poi ci infiliamo nel discorso “senso di colpa”, già descritto in “Un polpo alla gola”.
“Come te lo vivi, Michele?”
Ride.
“Male. È in tutte le mie azioni. Nello specifico, sono cresciuto tra persone più colte, più preparate, intelligenti, più generose e volenterose. Io faccio interviste mentre loro si sono fatte il turno di notte al supermercato. Mi sento in colpa, si”.
Rido.
“Sei a casa”.
Lo lasciamo ai fan e torniamo più tardi per la presentazione.
Tra le varie domande l’editore gli chiede “come lavora”. E mi pare che il processo sia esattamente in linea con la generazione degli ultra trentenni, che non sa mai cosa sarà domani.
“Venti pagine e comincio a disegnarle, poi altre venti e ancora venti. Non so mai quante saranno fino all’ultimo blocco di venti”
Dal pubblico una domanda.
“Dove hai preso ispirazione per i nomi dei tuoi demoni?”
“A cazzo”, risponde lui ridendo. Poi aggiunge: “Solo uno è serio. Imrali è l’isola dove è detenuto il leader dei pkk”
La folla è timida, pochi si fanno avanti alzando la mano. Zerocalcare riprende il microfono e ridendo non la manda a dire.
“Non fate domande adesso, poi mi scrivete su Fb, di notte. E pensate: ‘oh, ma questo se la tira!'”
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