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“Da soli si sorride, ma è insieme che si ride”. San Donato Beach, un esperimento visivo sulla solitudine

18-01-2021

Di Claudia Palermo
Foto di San Donato Beach

Quando la città si svuota, la solitudine diventa ancora più tangibile.

Il regista Fabio Donatini e l’autore e sceneggiatore Antonello Grassi hanno portato sullo schermo la periferia di San Donato durante la calda estate bolognese. La nostra riflessione sul rapporto tra noi e gli altri continua con San Donato Beach, prodotto dalla Zarathustra Film.

Non è un documentario né un film, ma preferiscono definirlo un esperimento visivo sulla solitudine che ne racconta tante, di solitudini, apparentemente diverse, tenute insieme dalla cappa del caldo di Bologna, in un posto che, oltre a essere una periferia cittadina, sembra rappresentare i margini dell’anima delle persone. Tra loro c’è Stefania, una signora di 50 anni che cerca l’amore, Andrea affetto da ludopatia, ma anche Inna, barista ucraina che ha cercato di tenere aperto il suo bar e Emil che tutti chiamano “Zio”. E poi Patrizia, la protagonista, che cerca qualcuno con cui stare per trovare una famiglia.

Un progetto senza budget che, proprio per questo, ha permesso una libertà smisurata trovando un linguaggio molto vicino a un’idea pura e poetica di cinema non mediata dal denaro, combinando il malessere all’universo musicale del boom degli anni 60-70.

Dopo la partecipazione all’ultimo Torino Film Festival nella sezione italiana doc, Fabio e Antonello sperano di vedere San Donato Beach presto nelle piazze di Bologna.

Inizio dalla mia chiacchierata con Fabio Donatini, il regista.

Da cosa nasce l’esigenza di restituire la solitudine delle estati in San Donato?

“Io vivo a San Donato da vent’anni. Ho trascorso alcune estati qui evitando le forme di goliardia, come la vacanza, forse proprio per una necessità cognitiva di vedere cosa succede nella periferia, nei posti in cui la gente non finge di stare bene quando tutti fingono di stare bene e partono, vanno al mare, nelle discoteche all’aperto… Succede che chi resta qui compie la scelta coraggiosa di affrontare la solitudine in maniera impetuosa e piena di entusiasmo.

Per San Donato Beach ho preso in considerazione le persone che conosco meglio, che con me hanno condiviso queste estati e che erano disposte a raccontare cos’è la periferia quando si svuota, chi sono loro e cosa fanno”.

 

A proposito di solitudine, la situazione mondiale che stiamo vivendo sta portando un po’ tutti ad essere più soli. Secondo te, chi siamo senza gli altri?

“Io credo che noi abbiamo un grande potenziale senza gli altri, c’è solo un piccolo problema: il mondo, la percezione del reale, i social, giustamente credo, portano ad avere un leggero senso di colpa, si crea un conflitto non tanto per l’assenza della potenzialità umana di raggiungere un equilibrio in uno stato di malinconica solitudine, quanto per una necessità del mondo stesso, perché la gente insieme crea più serenità, più leggerezza, più goliardia. Si ride anche da soli, ma si ride meno.

In casa si sorride perché si guarda una serie simpatica, perché il gatto fa una cosa stupida, per una vecchia foto, ma tendenzialmente è un sorriso malinconico. Il sorriso in compagnia è un sorriso di leggerezza che diventa risata, e la risata da soli è molto più complicata. Quindi credo che fondamentalmente l’uomo da solo abbia la potenzialità di raggiungere il concetto di sorriso, in compagnia, invece, la potenzialità di raggiungere il concetto di risata. Sono due cose molto differenti, ma non c’è giudizio da parte mia, non dico che ridere è meglio di sorridere e sorridere meglio di ridere, decide ognuno quello che vuole fare”.

Secondo te è possibile che tutti questi mesi di solitudine ci abbiano potuto spingere a una sorta di alienazione, ad un rifiuto dell’altro?

“Covid o non covid, credo che l’essere umano, in senso esistenzialista, viva nella fierezza e nella serenità dello stare da solo con dei momenti di crisi prevedibili e dei momenti di gioia prevedibili, e nello stare in compagnia con dei momenti di crisi e di gioia prevedibili. Credo che lo stare da soli sia un’alienazione che può essere prevista, una cosa normalissima che andrebbe gestita e limitata nei momenti di ansia e di panico, e che può trasformarsi in un atteggiamento più discreto e più amabile quando ci si trova con gli altri, probabilmente ci può rendere anche più curiosi dell’altro“.

 

Chi ti ha accompagnato in questa esperienza?

Antonello Grassi, autore e sceneggiatore la cui esperienza è stata anche più viscerale della mia, mi ha aiutato in tutti i modi: mi ha aiutato come fonico, mi ha aiutato a non abbandonarmi nel letto nei giorni in cui non era facile uscire e avere la voglia di interagire con gli altri, mi ha aiutato dando un senso al caos che creo girando: perché io non scrivo, giro, e lui è una persona che capisce quando una struttura narrativa ha bisogno di qualche accorgimento. Il caos è comprensibile a pochi, mentre un caos disciplinato, che è quello che mi aiuta a realizzare Antonello, ha più senso. Non è bello che alcuni prodotti li vedano solo in pochi, è giusto che il linguaggio venga modulato e che ci sia un’accessibilità maggiore da parte dello spettatore.

A collaborare al progetto anche Shapoor Ebrahimi, un direttore della fotografia molto bravo con una macchina in grado di leggere la luce e capire quando è il momento giusto per girare. Non potendo vivere di finanziamenti, abbiamo fatto in modo che, non avendo la possibilità di ricostruire la luce, potessimo sfruttare le varie condizioni di luce e inquadratura, quindi importanti sono stati l’educazione e il rispetto nel chiedere la disponibilità ai baristi, ai vigili, ai negozianti e alle persone che hanno firmato le liberatorie per essere loro stesse”.

A proposito di Antonello Grassi, ci ha raccontato anche lui la sua esperienza e la sua riflessione sulla solitudine.

In base a cosa avete scelto i protagonisti di San Donato Beach?

“Fabio vive a San Donato da tantissimi anni, conosce tutti e io mi sono fidato ciecamente di lui. Queste persone costituiscono una specie di nucleo che sta intorno a uno dei due bar che abbiamo preso come punto di riferimento per girare. Questo gruppo di persone è raccontato come nella realtà: un gruppo che si raduna intorno al bar dove trovi, ad esempio, Stefania che fuma tantissime sigarette e non dice mai una parola, ma appena le fai una domanda parla in bolognese e non si ferma più; Patrizia che cerca qualcuno con cui stare per trovare una famiglia, e che dice di stare a San Donato per accudire il suo cane che non può più muoversi; Armando, un accumulatore compulsivo che dice che potrebbe andare ovunque ma non trova più le chiavi della macchina!”.

Faccio anche a te la domanda che ho fatto a Fabio: chi siamo senza gli altri?

“Io sono sempre partito da una riflessione banale, cioè la differenza tra la necessità di stare con gli altri e la possibilità di farlo. Io mi sono sempre considerato una persona da questo punto di vista felice ed equilibrata, perché mi sono ritenuto in grado di non avere bisogno della compagnia degli altri ma di cercarla soltanto quando ne avevo voglia.

Ultimamente, però, ho assistito a un enorme cambiamento del mio punto di vista: da quando siamo tutti costretti in casa, ho capito che in realtà la solitudine può essere un lusso enorme se siamo noi stessi a procurarcela ma, in questo caso, stare a lungo da soli abbruttisce. Io credo che noi abbiamo bisogno degli altri intorno che ci diano un argine, una forma, lasciati a noi stessi diventiamo una cosa informe”.

 

Secondo te il covid-19 ha peggiorato ulteriormente la situazione di isolamento di San Donato?

“Per quello che ho visto, la solitudine è peggiorata, anche se, secondo me, il lockdown è andato a intaccare un territorio che prima veniva preso solo marginalmente dalla solitudine, cioè quello degli strati un po’ più ‘alti’ della popolazione, c’è stata un’espansione verso l’alto della solitudine.

Le persone di San Donato sono abituate a stare sole, si ritrovano al bar, hanno costruito un ecosistema basato sulla solitudine, un ecosistema che funziona e riesce a dare loro conforto. Io credo che lì i cambiamenti siano stati minimi se non per le attività commerciali. Questa solitudine ha colpito altre persone: il gestore di un bar, per esempio, è una delle persone generalmente meno sole, specie in periferia dove ha il culto della chiacchiera, di tenere la gente al bar, la ritualità del giornale. Una volta c’erano i nuovi poveri, adesso ci sono i nuovi soli. E sono moltissimi“.

 


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