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“Nel bagno delle donne” l’isolamento come riparo dai fallimenti. Il romanzo di Massimo Vitali diventa un film

11-01-2021

Di Noemi Adabbo

Roversi fa di tutto per tenere il mondo fuori dalla porta, ma è il mondo che va a bussare.

É il protagonista di Se son rose, secondo romanzo di Massimo Vitali pubblicato nel 2011 per Edizioni Fernandel, da cui è nato un film: Nel bagno delle donne, per la regia di Marco Castaldi.

Roversi, interpretato da Luca Vecchi dei The Pills nella sua trasposizione cinematografica, è un neodisoccupato di 110 chili che, oltre ad aver appena perso il lavoro, ha perso anche la moglie che lo ha malamente lasciato. Forte del consiglio del capo che lo intima a prendersi una pausa di riflessione, Roversi si chiude nel bagno delle donne, appunto, del cinema d’essai Corallo. La narrazione si svolge tutta qui e racconta dell’isolamento come protezione e riparo da fallimenti, minacce. E più in generale dagli altri.

Essere isolati dagli altri è anche, quindi, una forma di rassicurante protezione, un temporaneo rifugio dal mondo.

Ho parlato con Massimo affinché mi accompagnasse alla porta di Roversi. Abbiamo bussato anche noi.

Lo scrittore Massimo Vitali, il regista Marco Castaldi e il protagonista Luca Vecchi saranno i protagonisti della seconda serata di About Stories, la nostra rassegna di tre eventi a Porta PratelloGiovedì 23 alle ore 21 porteranno uno show ironico dove scopriremo com’è nato questo progetto: dall’idea, al libro, al film. Sempre giovedì, alle ore 19, per chi vuole, ci sarà la possibilità di vedere il film Nel bagno delle donne con una proiezione speciale al Cinema Europa. Qui il link all’acquisto dei biglietti.

Qui invece il link all’evento Facebook dell’intera serata.

Il titolo del tuo libro, Se son rose, differentemente da quanto si pensi, non termina nel conosciuto detto popolare. Parlami della sua scelta e di com’è nata la storia che hai deciso di raccontare.

«La scelta del titolo non è stata ricercata. È arrivato così, come vocazione musicale. All’epoca lavoravo da tanti anni in quest’azienda, all’ufficio reclami, di cui frequentavo lo stesso bagno da tempo. Bagno con una finestra meravigliosa da cui si vedeva il giardino interno, affacciato sugli alberi che osservavo al passare di ogni stagione.

Allora ho pensato e immaginato: “Come sarebbe la storia di uno che vive dentro un bagno?”. Si può avere un’idea che risulti anche buffa e surreale ma per renderla avvincente bisogna renderla credibile. Da lì, ho cercato i motivi per cui un uomo dovesse o potesse vivere in un bagno».

 

Pare non succedano grandi cose, in realtà, accade l’esatto contrario. Personaggi di ogni sorta,  giornalisti, colleghi, preti, maniaci, venditori porta a porta e perfino cani, vanno a trovare il protagonista nel suo temporaneo rifugio dal mondo. Durante il lockdown di marzo tutti noi, come Roversi, siamo rimasti chiusi dentro quattro mura, non di un bagno ma di casa nostra, non per scelta ma per necessità. Ciò che questo periodo ha messo in risalto è il nostro rapporto con gli altri, qui venuto per forza a mancare. Quanto è importante la relazione col mondo esterno e, in particolare, quella umana?

«È buffo ma tragico allo stesso tempo che il film sia uscito proprio adesso. È arrivato al momento giusto. Entrambe le relazioni, quella col mondo esterno e quella umana, sono fondamentali. Sia nel libro che nel film è molto chiaro che quando si cerca di isolarsi dal mondo, è il mondo che poi viene a cercarti.

Il film rispetto al libro, su questo argomento, è molto più improntato sulla realtà mentre il libro è volutamente surreale in quanto caratterizzato da numerosi personaggi buffi. È un libro che tiene conto del lettore grazie a un approccio gentile».

Sfuggire al mondo è impossibile e nel tentativo di farlo, falliremmo. Che ruolo assume, allora, il confronto con l’altro, che in questo periodo avviene principalmente attraverso i social?

«Durante il lockdown, così come nel film, la componente social è stata molto presente: lo era già prima ma con la quarantena lo è stata molto di più. La vita delle persone si è spostata sullo schermo del telefono su cui tutti hanno incominciato a raccontarla. Prima la situazione era grave, ora lo è di più. Adesso siamo tutti collegati, ognuno deve assolutamente informare l’altro su ciò che sta facendo.

Questo, a mio avviso, è eccessivo ma ben rappresentato nel film. Qui, Roversi, diventa una sorta di influencer, qualcuno di importante e conosciuto grazie a un video che diventa subito virale conferendogli la nomina di showman. Anni fa non sarebbe mai potuto accadere. Questo nel libro non c’è ma la sceneggiatura ha cercato di adattarlo il più possibile alla realtà. Ho sempre considerato i social come veicolo di lavoro, agevolandolo, ma durante la quarantena anche io ho assunto nei confronti di questi un approccio diverso».

 

Il protagonista cerca di isolarsi per affrontare in solitudine il proprio momento, i propri dilemmi, invano perché continuamente sollecitato dagli altri personaggi che lo cercano. A parità di situazione, noi tutti avremmo voluto che qualcuno fosse venuto a cercarci durante il lockdown, pur non potendo. Unico mezzo per farlo la tecnologia, appunto, e le uniche ad arrivare effettivamente erano le notifiche. Quindi, cosa siamo, noi, senza gli altri?

«Per la maggior parte della popolazione mondiale e degli artisti, o presunti tali, senza gli altri non siamo nessuno. In realtà, senza gli altri, nessuno sarebbe nessuno. Ci sono persone che, soprattutto di questi tempi, senza i social, in particolare Instagram, non sarebbero veramente nessuno. Questo perché la piattaforma social è diventato il mezzo di comunicazione principale e si riesce a comunicare solo attraverso di essa, senza quasi più avere rapporti sociali veri. Viene a mancare la socialità vera e propria.

Si è costantemente impegnati a informare i follower di quello che si sta facendo e le chiacchiere che facevi normalmente al bar con gli amici le fai con 3.000 di questi, che amici non sono. Apparentemente sembra di instaurare un rapporto di scambio che in realtà non avviene. Ci si scrive come se ci si conoscesse da tempo ma non è così. Nessuno può vivere da solo, è impossibile, ma ci sono persone che riescono a isolarsi davvero dal mondo perché sono in possesso di tutto ciò che serve loro, riscontrabile anche nelle cose più semplici. Sono una minoranza assoluta ma ci sono».

L’uomo è un animale sociale, non può prescindere dalla comunità. Per quanto portatori di possibile sofferenza, in parte, i rapporti umani sono ciò che ci tiene in vita. Cosa ne è, allora, della nostra dimensione sociale ora? È possibile, a tuo parere, un mondo a distanza in versione streaming? Il bagno da te descritto è un luogo chiuso ma aperto: una metafora delle nostre case. Ma è davvero la stessa cosa?

«Non è assolutamente la stessa cosa e non lo sarà mai. È già un miracolo, a mio parere, come la popolazione mondiale, anche quella più anziana, si sia adattata a questa nuova condizione in cui ci si sente e vede tramite i dispositivi elettronici. È un segnale positivo, sicuramente. A mio avviso, però, il campo più colpito è quello dell’istruzione. Non si può fare scuola online: tutti noi abbiamo i nostri ricordi della scuola, belli o brutti che siano, ma li abbiamo. Sono qualcosa che ci rimane dentro.

All’inizio la gente è curiosa nei riguardi di Roversi, su cosa faccia e chi sia. Viene perfino elevato a paladino di temi sociali. A un certo punto, quando il personaggio social viene meno per lasciare posto al personaggio vero e proprio, conseguentemente diminuisce la curiosità del suo pubblico che, inaspettatamente, va lì per sfogarsi, a raccontarsi. Si crea uno scambio. Lui non vorrebbe parlare di sé e, in effetti, lo fa poco».

 

Descrivi l’uomo per com’è: un essere elementare con i proprio fantasmi, paure e debolezze. A molti la distanza è servita per rendersi meglio conto di chi siamo e cosa vogliamo: una rivoluzione personale che sembra aver influenzato il nostro rapporto con gli altri, diversificando tra quelli che vale la pena tenere e quelli che è meglio lasciare andare. Pensi che un momento di raccoglimento una tantum sia necessario?

«Solo se si ha una certa sensibilità si riesce in questo, chi non l’ha, passa indenne anche questa condizione. Se non sei una persona munita di una certa sensibilità interna, una cosa del genere può toccarti ma sfiorandoti, senza entrarti dentro. Molti dicono di aver utilizzato il lockdown per fare il punto della situazione della propria vita o per allontanare o avvicinare chi era meglio o no per sé: non tutti l’hanno fatto perché non tutti ne sono capaci. Ne è stato toccato solo chi si è lasciato toccare, chi ne è davvero in grado».

Massimo Vitali sul set di Nel bagno delle donne

Il tuo romanzo è condito con una sana ma sottile ironia: quanto è importante quest’ultima nella gestione del proprio vissuto e nel raccontarlo?

«I miei romanzi sono tutti votati all’ironia. Se non fossimo ironici, moriremmo prima. Una cosa che non tollero è quando le persone si prendono troppo sul serio, sia sè stessi che la propria vita. C’è profondità nel quotidiano, la vita è inscindibilmente legata a esso. Ma le persone non se ne accorgono.

Sono abituate a vedere e fare le stesse cose e non ci fanno neanche caso. Così si perdono tanto. Io cerco di guardare la quotidianità con un altro occhio che non ha a che fare solo con l’ironia. L’ironia non deve fare ridere, non è questo il suo senso: è un’apertura mentale rispetto alle cose».

 

La copertina del tuo libro, ad opera di Lilia Migliorisi, riproduce diverse sedie, rosse come rose. Ognuna ha la sua comodità che non la rende per forza più comoda delle altre. Il tutto dipende da come questa ti calza, un po’ come i vestiti. Riusciamo, noi, a metterci nei panni degli altri? I personaggi del tuo romanzo si avvicinano a Roversi non solo per capirlo e per curiosità ma per vedere anche loro qualcosa di sè stessi. Magari anche loro avrebbero avuto bisogno di una pausa di riflessione. 

«Lilia Migliorisi ha disegnato anche la copertina del mio primo libro ‘L’amore non si dice’. Secondo me riusciamo poco nel tentativo di metterci nei panni degli altri perché prima di tutto pensiamo a noi e ai nostri problemi senza capire che se lo facessimo, magari, i nostri stessi problemi diminuirebbero».

 

L’empatia gioca un ruolo centrale nella nostra esistenza, senza di essa siamo veramente soli, nonostante il contatto con l’altro. Quindi, anche se distanti, gli altri sono sempre con noi?

«Dipende: se sei provvisto di empatia, sì, altrimenti no. Le persone la sentono e non penso sia una percezione falsa. Se ci si pone allo stesso livello degli altri, è possibile instaurare questo tipo di connessione. Ma non è sempre così, non sono tutti sono disposti o capaci di farlo».

 


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