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“Le relazioni profonde sanno superare i tre metri di distanza”. Abbiamo intervistato Carlotta Viti dell’associazione “A piedi Nudi”

21-01-2021

Di Luca Vanelli

“E sempre come un amuleto tengo i tuoi occhi nella tasca interna del giubbotto
E tu tornerai dall’estero, forse tornerai dall’estero
Adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole che fanno piovere”
(Quando tornerai dall’estero – Le Luci della Centrale Elettrica)

Abbiamo passato un anno intero ad abituarci a custodire gli sguardi delle persone nelle tasche interne dei giubbotti, perché non possiamo fare altro se non tenerci stretti gli occhi che ci guardano a un metro e mezzo di distanza.

Non sappiamo più come sono fatte quelle nuvole create dai nostri respiri quando siamo vicini alle persone che ci vogliono bene in una giornata d’inverno. Non sappiamo quasi più che senso ha quel calore sulla nostra faccia.

Ci siamo dovuti allontanare per sopravvivere dagli altri. E da qui la domanda è sorta spontanea: cosa siamo senza gli altri? Chi siamo senza quelle nuvole e solo quegli sguardi nel taschino interno?

Per parlare di tutto questo ho deciso di sentire chi, da ben prima di questa situazione pandemica, si era accorto di un problema già tangibile: l’incapacità delle persone di stare assieme. Non solo assieme agli altri, ma anche assieme all’ambiente circostante, assieme al proprio corpo, assieme ai propri pensieri.

Ho così intervistato Carlotta Viti, dott.ssa in Fisioterapia, Masterizzata PNEI e masterizzanda in Neuroscienze e docente presso il Master di Terapia Manuale e Riabilitazione Muscolo-scheletrica dell’Università di Padova, una delle fondatrici dell’ASD A Piedi Nudi. L’associazione lavora da tempo nel tessuto sociale di Bologna e ha un obiettivo tutt’altro che semplice: tentare di far sì che l’uomo torni a essere considerato e visto come un tutt’uno inscindibile tra mente, corpo, relazioni sociali e ambiente.

Abbiamo parlato di come si possa fare tutto questo non solo con lo sport, ma anche con la divulgazione scientifica. Come sempre ci siamo dilungati a parlare di molto altro, ma quando ci si approccia in maniera così sistemica alla realtà, ci si accorge come tutto sia intrinsecamente collegato e che occorre parlare di molte cose per comprendere a fondo il mondo in cui viviamo.

Partiamo da una domanda centrale, Carlotta: chi siamo senza gli altri?

“Le evidenze scientifiche ci dicono che noi esseri umani siamo degli esseri sociali, abbiamo quindi un grande bisogno di specchiarci nella collettività e di trovare il nostro significato all’interno di questa collettività.

Esistono studi che ci confermano che negli stati di degenerazione cognitiva, laddove non c’è una rete sociale forte, il decadimento è più veloce. Nelle situazioni di depressione la mancanza di una rete sociale qualitativamente forte aumenta la sensazione di solitudine percepita. Abbiamo bisogno, quindi, di una rete sociale che ci garantisca dei rapporti qualitativamente buoni al di là del contatto fisico.

Tuttavia, la domanda da porsi è un’altra: abbiamo gli strumenti culturali per godere di relazioni intense e di spessore indipendentemente dal contatto fisico? O la nostra cultura si era già impoverita così tanto che non siamo in grado di andare a rintracciare queste altre forme di scambio?”.

 

Forse stavamo già disimparando a stare con gli altri?

“A mio avviso, a livello qualitativo, sì. La pandemia ha solo amplificato e reso più percepibile questo processo.

Siamo tutti consapevoli delle difficoltà di questa situazione e nessuno è esente dal senso di fatica del dover trovare nuove forme di socializzazione. È un processo molto impegnativo soprattutto per le nostre vite che corrono sempre velocemente“.

 

A cosa può portare una così prolungata distanza dagli altri e dagli sconosciuti?

“Domanda molto difficile perché tutto è strettamente legato alle risorse personali che possediamo. Ognuno di noi vivrà a proprio modo questo trauma collettivo, ma c’è una differenza di fondo importante. C’è chi avrà gli strumenti cognitivi e le forze per trovare nuove strategie di connessione per costruire nuovi significati e relazioni di qualità nonostante il distanziamento fisico. C’è chi invece non avrà queste forze e questi strumenti e andrà aiutato per recuperare i significati dello stare nella collettività.

Nel momento in cui ho la capacità di godermi uno sguardo anche a distanza di tre metri, soffrirò meno la riduzione di contatto fisico”.

 

Come si colloca la vostra associazione in questo contesto e come stava già intervenendo?

“L’associazione è nata proprio con l’intento di ricostruire una cultura non solo della ‘Mens Sana in Corpore Sano’, ma di pensare l’essere umano come un soggetto equilibrato psicologicamente in un corpo sano, in un contesto sociale arricchente e in armonia con la natura. Una complessità che abbiamo spezzettato nel tempo a causa di mille motivi legati al bisogno di semplificazione”.

 

Qual è quindi l’obiettivo?

“Perseguiamo tanti macro-obiettivi nella maniera più sistemica possibile, anche grazie a un team molto vario. L’idea principale è stata quella di mettere in piedi uno spazio dove convivono sia gli aspetti della cura, forniti da fisioterapisti, nutrizionisti, psicologi e sia gli aspetti della comunicazione e della divulgazione scientifica.

Partiamo da una convinzione: se si vuole coinvolgere una persona in un percorso di apprendimento dove impara a conoscere il proprio corpo e a prevenire delle problematiche, dovrò assisterla con attività piacevoli e comprensibili, basandosi sempre su una visione biopsicosociale“.

 

Okay, un passo per volta! Dimmi di più su questa visione biopsicosociale.

“Sono tanti anni che si continua a parlare di questa visione nella teoria, ci siamo chiesti, però, se siamo davvero in grado di applicarla anche alla realtà.

Il problema di fondo sta nell’eredità di Cartesio e del dualismo, ossia della divisione fra corpo e mente, sul quale da sempre si sono basati gli approcci didattici di comprensione del corpo umano. Questa divisione, però, nella realtà non esiste.

La concezione dualistica può essere utile da un punto di vista didattico, ma risulta dannosa da un punto di vista clinico perché lascia spazio a tanti errori e a una presa in carico parziale della persona.

Per questo si è iniziato a parlare di visione biopsicosociale, ossia del prendere in considerazione la persona nella sua integrità e complessità. Di biopsicosociale si è parlato molto negli ultimi vent’anni, ma nonostante ciò, tradurlo nei fatti è sempre difficile”.

 

Come si torna quindi a unire corpo e mente?

“Questo dualismo, oltre che in campo medico, è presente anche nella divisione tra scienze e arte, tra mondo scientifico e mondo umanistico. È proprio con l’integrazione dei saperi e l’interdisciplinarietà, invece, che possiamo superare questa dicotomia, collaborando sinergicamente tra diversi professionisti e proponendo attività multiesperienziali capaci di palesare e sviscerare la complessità della realtà in cui viviamo”.

Andando nel concreto, come agisce l’associazione nel quotidiano?

“L’associazione si configura come un’associazione sportiva dilettantistica e culturale e questo permette di offrire un’esperienza molto variegata: percorsi gratuiti di conoscenza del sé, del corpo, delle scienze, servizi di prevenzione o post-cura accessibili a tutti. Esperienze legate alla riconnessione fra corpo e mente, senza la necessità di mirare alla performance. Poi seguiamo anche runner professionisti, ma in tutt’altro modo”.

 

Questo elemento della performance mi stupisce. Siamo in una società che ci chiede continuamente di essere performanti. Come ci si svincola da questo pensiero?

“L’obiettivo deve essere quello di considerare lo sport non come performance, ma come tassello fondamentale di conoscenza di sé attraverso l’esperienza del corpo.

Qualsiasi sia l’attività, dallo yoga, al salto in alto o alla barca a vela, la finalità è riappropriarsi del proprio corpo, recuperare la capacità di sentirsi nell’ambiente, sentirsi presenti. Tutto questo all’interno di un contesto di gruppo in cui si impara anche a curare le relazioni interpersonali e sociali.

Se tu fai sport e miri solo alla performance è probabile che i risultati arrivino in tempi molto lunghi. Se invece lavori sul tuo corpo facendo un’ attività che non mira alla performance ma piuttosto alla qualità, a volte anche al dettaglio, ti ritroverai ad avere una performance migliore.

Quindi anche quando seguiamo gli sportivi, siano essi amatoriali o professionisti, partiamo da questi presupposti neurofisiologici, per poi costruire il gesto atletico e arrivare alla qualità della performance in gara. Per noi è fondamentale creare le basi per ridurre al minimo le lesioni e questo si ottiene con un lavoro profondo sulla conoscenza e l’ascolto del corpo. È su questo che si basano anche i nostri progetti di ricerca che condividiamo anche con l’Università di Bologna e di Ferrara di cui seguiamo i tesisti a fine percorso di Fisioterapia”.

Hai parlato di contesto di gruppo, quanto è importante il contesto in cui si svolgono queste attività?

“Le neuroscienze ci mostrano da tempo che, a seconda del contesto in cui viviamo, vengono attivati differenti circuiti neuronali e prodotte sostanze biochimiche con effetti differenti.

Se per esempio viviamo in un ambiente aggressivo rilasciamo ormoni dello stress come il cortisolo, che a lungo andare può predisporre ad alcune patologie. Se invece viviamo in un contesto equilibrato, il nostro corpo produce dopamina che aumenta il senso di gratificazione che ci aiuta a essere rilassati e presenti nel qui e ora”.

 

Abbiamo detto però che scienze e discipline artistiche si uniscono. Come?

“Con il tempo abbiamo sviluppato percorsi in cui l’arte viene intesa come esperienza tecnica, emozionale, ma anche motoria, cosa di cui spesso ci dimentichiamo. Corsi che non mirano a insegnare la tecnica pura, ma insegnano a mettersi in gioco con il colore e con il segno, stando dentro all’esperienza.

Nel momento in cui disegno si attiva un aspetto di pianificazione neurologico: non posso disegnare se non ho deciso cosa disegnare. Inoltre, devo pianificare il gesto, che deve coincidere con quello che ho immaginato, seguendo il feedback costante di quello che è apparso sul foglio“.

 

Mentre sull’aspetto di divulgazione come vi siete mossi fino ad ora?

“Col tempo è nata la volontà di raccontare tutto quello che facciamo, senza perdere le fondamenta scientifiche che sono alla base delle nostre attività.

Da questa idea nascevano le serate informative, pre-Covid, in cui affrontavamo vari temi quali: stress, ambiente, patologia, iter terapeutico, alimentazione, corpo, sempre basandoci sulle evidenze scientifiche.

Con la distanza ci siamo dovuti inventare una nuova forma e abbiamo puntato a una rivista. L’obiettivo non è raccontare quanto siamo belli e bravi ma riuscire a trasmettere le evidenze della letteratura scientifica, come facevamo dal vivo. Esce un numero tematico ogni due mesi sia con i nostri contributi scientifici, sia con i contributi di altri giornalisti esterni”.

Ho letto che in uno degli ultimi numeri avete parlato anche di piacere femminile. Sfrutto questo assist per chiederti una cosa: non ti sembra che ci sia ancora un forte tabù sul racconto del piacere femminile?

“Sono d’accordo, il problema però non è solo culturale, ma anche scientifico. Viviamo in un modello di organizzazione sociale che è stato tarato tutto al maschile, nel quale una delle grosse problematiche di fondo è che anche la ricerca scientifica è tarata sul maschio bianco caucasico.

Tutta la nostra medicina si basa su evidenze scientifiche studiate sul maschio. Fino a pochi anni fa non esisteva la medicina di genere e nemmeno la medicina pediatrica: il bambino era un piccolo adulto e la donna un uomo con genitali diversi”.

 

Questo che problemi ha comportato in ambito medico?

“Questa cosa ha creato delle problematiche enormi ad esempio negli studi sui farmaci. Ragionando in questo modo si è arrivati a pensare che sia sufficiente dare metà tachipirina ai bambini perché tutto funzioni, mentre sarebbe necessario chiedersi se nella fisiopatologia del bambino quel dosaggio è adeguato. Tuttavia non esiste alcuno studio che analizzi questo aspetto.

Stessa cosa nella donna. È eclatante il caso di uno studio su uno psicofarmaco in cui si è dimostrato come nella donna adulta, per questioni ormonali, si dovesse somministrare un dosaggio dimezzato rispetto a un uomo. Invece, dagli anni cinquanta abbiamo sempre dato lo stesso dosaggio alle donne, con effetti e risposte sempre diversi.

Ci siamo raccontati che le donne non rispondevano in modo uguale perché sono strane, isteriche, lunatiche. Mille spiegazioni, fino a dire che sono psichiatriche. Però tutti gli studi erano stati fatti sull’uomo, dando lo stesso dosaggio alla donna supponendo che a parità di età la risposta dovesse essere la stessa”.

 

Abbiamo quindi un problema di genere anche negli studi scientifici a quanto pare, e anche molto grave… Come si bilanciano gli equilibri?

“Se io disegno la società, dal lavoro, alla scuola, fino alla ricerca medica e scientifica, attraverso gli occhi maschili non posso che disegnare qualcosa che ha il limite di quella lente. Lente che esclude le visioni di alcune minoranze e a un certo punto, il sistema intero, non calzando con soggetti neri, femminili, omosessuali, risponde solo al modello maschile e porta a errori esponenziali.

Abbiamo compreso di aver fatto un errore, ora con nuove consapevolezze e capacità dovremmo rivedere quelle lenti con cui abbiamo costruito la società. Serve un nuovo disegno, e per farlo bisogna accettare la partecipazione di tutte le minoranze, altrimenti il disegno si riempirà di nuovi bias”.

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