Davide è un ragazzone, il classico gigante buono, a cui le paure non mancano. E tra queste, quella verso il bianco. Mentre parliamo tira fuori dal taschino del giubbotto un foglio, enorme ma piegato tante volte. Quando lo dispiega emerge un’esplosione di schizzi e disegni: “Vedi, è così che supero la mia paura. Comincio da un quadratino, e mi sembra una missione realizzabile. Poi apro un piccolo lembo e continuo a disegnare. Così fino a riempire tutto il foglio, quando comincio a ricollegare e mescolare tutto”.
Se c’è una cosa di cui non ha timore, però, è la novità. Davide Bart Salvemini è tutto, tranne che un semplice illustratore.
Video musicali, performance audio-visive, animazione..
Il bello dell’illustrazione è che puoi veramente giocartela come preferisci e inserirti un po’ ovunque. È un mondo complicato, ma c’è bisogno di muoversi all’interno di diversi tipi di arte e delle sue diramazioni più particolari per sopravvivere. E fare qualcosa di originale. Ora ad esempio ho cominciato a fare video musicali con un nuovo tipo di animazione: penso ai personaggi disegnati come marionette, poi li muovo come voglio io. Questo mi permette di creare una narrazione migliore e di sentirmi come un regista, andando a creare una sorta di cortometraggio fatto a fumetti.
Sabato 10 marzo alle 22 sarai al Binario 69, in via Dè Carracci 69/7, insieme ai 220 per una serata particolare. Come ti è venuta l’idea della performance audio-visiva?
L’idea è unire l’improvvisazione musicale, come quella del jazz che suonano i 220, all’improvvisazione visiva, grazie anche ad un nuovo programma che mi da molte più libertà e mi permette di mischiare elementi eterogenei (spezzoni di film, colori, effetti e figure). Proverò ad aiutare il pubblico ad immedesimarsi nella musica attraverso l’impatto di questi elementi in movimento. Praticamente è un dj set, però con le immagini.
Parlami del tuo nuovo lavoro, “Animar”
Questa graphic novel è nata dalla mia volontà di riavvicinarmi alla fotografia. Mi è sempre piaciuta, ma ogni volta me ne allontanavo perché non ho mai trovato il feeling giusto con la macchina fotografica. Questo oggetto fra me e il mondo, nel bene o nel male, cambiava sempre quello che cercavo di ottenere.
In ‘Animar’ ho utilizzato delle foto che avevo fatto in Normandia e le ho unite con un fumetto “ciclico”: è un fumetto senza parole, dove le cose capitano in sequenza e ogni volta cambia il punto di vista. Non c’è nessun personaggio esatto: si vede il mondo da lontano e ogni volta ci si focalizza su scene diverse, ma collegate.
A vedere dai tuoi disegni sembra che tu viva in un mondo parallelo, immaginario. Ti capita di isolartici?
Spesso, molto spesso. Per me disegnare è come una meditazione. Mi permette di liberarmi, di buttare sul foglio tutto quello che mi passa per la testa. Dopo aver disegnato, sento di essere più tranquillo. Tutto questo ha una funzione terapeutica e mi rilassa. Molte volte inizio i disegni senza sapere dove sto andando, ma quando arrivo alla fine capisco perché l’ho fatto. Riesco davvero a capire cosa volevo esprimere o cosa frullava nel mio cervello.
Una curiosità. Come mai Bart?
Dal mio secondo nome: Bartolomeo. Negli anni, facendo la mia firma, occupavo mezzo foglio e così ho dovuto decimarlo.
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