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“Disegno perché ho paura di dimenticare”. Andrea Corvino ci racconta la sua vita in giro per il mondo a realizzare graffiti

23-06-2023

Di Nadia Ruggiero

Mamma metà svizzera e metà spagnola, papà foggiano. Artista per vocazione e modello per divertimento, insieme produttore e prodotto nella società dei consumi. Un’infanzia in Sudafrica e una vita in giro per il mondo a realizzare graffiti. Base attuale: Bologna. La sintesi che tiene insieme tutte queste cose è lui: Andrea (Marco) Corvino, 29 anni. Nome d’arte LOL63. Lo incontro un pomeriggio ai Giardini del Baraccano e il suo esordio mi fa intimamente sorridere: «Sei tu?», mi chiede dirigendosi al mio tavolo. «Sì, sono io, piacere». E cominciamo l’intervista.

 

Come mai LOL63?

«Sono cresciuto con South Park, da qui LOL. I primi writer, quelli della old school neywyorkese, scrivevano il loro soprannome con accanto un numero, che molto spesso derivava dal distretto in cui vivevano. Nel mio caso, il 63 deriva solo parzialmente dal mio anno di nascita. Io sono nato nel ’93, ma il 9 non mi piaceva. Così ho cominciato a firmarmi 63, che ultimamente è diventato 23, senza un motivo preciso».

Lavoro realizzato durante la residenza d’artista da Spaghetti Digitali (ve ne abbiamo parlato qui)

Come ti definisci?

«Creativo. Lavoro nelle arti visive da sempre. Penso che sia la cosa che mi riesce meglio, il più grande contributo che possa dare».

 

Hai un’infanzia particolare: ti va di parlarmene?

«Da piccolo ho vissuto in Sudafrica. A ventinove giorni dalla mia nascita, mia madre è partita per Johannesburg, portandomi con sé. Dove vivevo c’era molto contatto con animali esotici, infatti volevo fare il ranger. Trascorrevo il tempo con i nonni, mentre i miei genitori lavoravano. Ho vissuto in Sudafrica fino all’età di cinque anni, prima di fare rientro a Bologna».

 

E dopo?

«Ho iniziato a frequentare le elementari in Italia. Alle superiori ho scelto grafica pubblicitaria, poi ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bologna e mi sono laureato in graphic design. Finita l’Accademia, ho capito che non volevo fare il graphic designer: non ero fatto per il lavoro d’ufficio. Volevo iscrivermi al biennio di Arti visive, ma sono stato respinto. Ci sono rimasto molto male, al punto che ho cominciato a frequentare come uditore. Da autodidatta, col tempo mi sono accorto che potevo essere apprezzato comunque».

Da cosa è influenzata la tua arte?

«Si basa essenzialmente sulla poetica del fanciullino pascoliana: vado alla ricerca dell’ingenuità e della genuinità con cui il bambino si approccia al mondo. Faccio molta ricerca sul mio passato, cerco di ricostruire la mia biografia. Le mie illustrazioni sono appunti di cose che altrimenti dimenticherei, una specie di diario. Ho molta paura di dimenticare. Mi segno tutto sul palmo della mano con la biro fin da quando ero piccolo».

 

La tua passione per la street art si coniuga con quella per i viaggi. Cosa puoi dirmi in proposito?

«Uno dei medium preferiti da chi fa graffiti sono i vagoni ferroviari e quelli della metro, in qualunque angolo del mondo. Io ho viaggiato molto: ho percorso la via della seta, sono stato in Cina, Kazakistan, Uzbekistan; sono stato anche in Europa, a Kiev, Berlino, Parigi, Barcellona, Vienna. Di recente ho visitato il Messico. Ho molta paura della globalizzazione, di andare dall’altra parte del mondo e scoprire che è tutto uguale. Ma nei miei viaggi ricerco anche un forte contatto con la natura: sono un amante della biodiversità. Mi piace abitare luoghi isolati standomene completamente nudo e farmi avvicinare da animali come le volpi».

Sei passato dai graffiti a lavori per committenti privati ed esposizioni pubbliche. Qualche esempio?

«A Milano, in Via Paolo Sarpi, il quartiere Chinatown della città, ho fatto un murale per Zalando. Ho buttato giù il progetto al computer, conoscendo le dimensioni del muro, e poi l’ho realizzato on site. Lavorare per un privato significa, naturalmente, andare incontro alle sue esigenze. Lavorare per una galleria è molto diverso. Instaurare un dialogo con un gallerista significa rivolgersi a un altro tipo di target, godere di grande libertà. A Faenza ho esposto alla mostra Turbo presso la Galleria d’Arte Contemporanea Ronchini. Lì mi sono preso una bella rivincita: ho portato il quadro di una Venere di Milo, lo stesso che era stato respinto per un progetto universitario al Salone del mobile: è stata l’unica opera venduta. La Venere di Milo ce l’ho anche tatuata sulla schiena. La mia ultima mostra personale è stata alla Galleriapiù, alle spalle del MaMbo, e si è ispirata a un libro scritto da mia nonna Anna Meda, docente di antropologia all’Università di Johannesburg, che raccoglie una serie di fiabe boscimane di un popolo che viveva in Sudafrica e tramandava tutto oralmente. Sono le storie che mi raccontava, con cui sono cresciuto».

 

Tra le cose che hai fatto, ce n’è una che ti piace particolarmente?

«Un’opera venduta a un collezionista: un tappeto con un vaso di fiori, realizzato con la tecnica del tufting. Ritraggo molto spesso i vasi: per me sono contenitori di qualcosa che nasce. Vasi e tappeti sono oggetti che appartengono a una cultura antica».

Nei tuoi murales ci sono numeri e immagini particolari: che significato hanno?

«I miei murales sono apparentemente evidenti, palesi e colorati, ma in realtà contengono molti elementi simbolici, che inserisco per motivi molto profondi. Non sono facilmente riconoscibili: si riferiscono a vicende importanti della mia storia personale, che forse un giorno potrò raccontare. Per il momento lascio un libro aperto, senza esplicite interpretazioni: preferisco che siano gli altri ad attribuire un senso a quello che vedono».

 

Il tuo profilo Instagram è @corroversoisoldi: da dove viene questo nome?

«Dalle parole di una canzone che è stata la colonna sonora di un viaggio in auto a Barcellona. Sto lavorando tanto: spero che col tempo i soldi inizieranno a correre verso me».

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