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Maap: l’arte come strumento di dialogo e trasformazione urbana

29-08-2024

Di Laura Bessega
Foto di Balto Videomaker

«È possibile pensare una rigenerazione che guardi al sentimento di una città, in particolare al suo dolore?». A chiederlo è Stefania Dubla, fondatrice e presidente di Maap, Atelier di Arte Pubblica. La incontro per una breve intervista che tra racconti, scambi di idee e un bicchiere di vino si allunga a quasi un’ora. Fisico asciutto, sorriso coinvolgente e una cascata di riccioli castani, Stefania incarna l’energia e la passione che caratterizzano Maap, un progetto che usa l’arte come strumento per dare voce ai luoghi e alle persone che li abitano.

Negli ultimi decenni, l’arte si fa urbana e trova un nuovo pubblico fuori dalle mura delle gallerie, portando le sue provocazioni e riflessioni direttamente nelle strade. MAAP si inserisce in questa evoluzione come un catalizzatore di cambiamento, promuovendo progetti che interagiscono con lo spazio urbano e lo reinventano.

Come sei entrata al Musee d’Orsay?

È una storia incredibile. Era il lontano 2013/14.

Sono a Siena e mi sono appena laureata. Scopro che c’è questo convegno internazionale dal tema”Il museo, innovare senza tradire” con i direttori e le direttrici di tutti i dipartimenti dei più importanti musei.

Decido di partecipare. Sono tra il pubblico e, senza troppo rifletterci, faccio un intervento. E la direttrice del dipartimento del Quattrocento del Louvre, così d’emblée, mi propone uno stage con lei.

Avevo ventitré anni e tutto quello che ho fatto dopo, Maap incluso, è nato da questo intervento casuale e istintivo.

Cosa hai detto?

All’epoca c’erano i professoroni che avevano paura del digitale, di questo mezzo che stava invadendo i musei.

E tu l’ha reso un po’ più accessibile, diciamo…

Si. Poi lei mi ha fatto la sua proposta, io l’ho ringraziata ma le ho detto che mi sentivo un pò più contemporanea. A quel punto se n’è uscita con una frase inaspettata: «mio marito è l’ex direttore del Musée d’Orsay, se vuoi ti faccio andare lì».

Si era proprio innamorata di te! La senti ancora?

In realtà no.

Peccato. Vanno curate queste relazioni…

Hai ragione, ma ero giovane. A ventitré anni non ci ho proprio pensato. Devo ancora ringraziarla per quell’esperienza bellissima.

E poi cos’è successo?

Sono diventata assistente di una delle curatrici del museo. Stava preparando una mostra sul design del primo Novecento che poi è arrivata in Italia. C’erano tutti. De Chirico, i futuristi…meravigliosi.

Quando lavoravo al Musée d’Orsay avevo una scrivania in un piccolo ufficio che si affacciava su una piazza. Ogni giorno guardavo fuori e vedevo la torre Eiffel. Era bellissimo. Lì è nata la consapevolezza che non volevo chiudermi dietro una scrivania, anche se di un prestigioso museo. Volevo stare in piazza, lavorare tra le persone.

Volevi lavorare con l’arte ma volevi farlo all’aria aperta insomma. Come hai coniugato questi due aspetti?

Secondo me, ha contribuito tantissimo l’attacco allo Charlie Hebdo.

Quando è successo ero proprio a Parigi. Un giorno squilla il telefono e sono i miei amici. Hanno una voce molto concitata:

«Stefania corri! Devi uscire di casa, c’è stato un attacco. Adesso dobbiamo riempire le piazze».

«Scusate? Ma ci sono dei terroristi in giro per le strade!»

«Corri, non avere paura».

Siamo scesi nelle piazze. Tutti. Poi ci siamo radunati in Place de la République a manifestare per la libertà. Ricordo che c’era una foto per me iconica della statua della giustizia. Aveva una croce disegnata con la vernice spray sulle labbra. Era stata messa lì, proprio come se la giustizia fosse stata messa a tacere. Come se la libertà fosse stata messa a tacere. Poi ho visto tutta quella gente, senza paura, radunarsi e utilizzare la bomboletta spray. Un gesto simbolico di riappropriazione dello spazio pubblico, Un gesto generalmente associato al vandalismo che invece si legava all’arte. Mi ha fatto riflettere.

A questo punto possiamo introdurre MAAP che sta per Atelier di Arte Pubblica, ma la M cosa significa? Com’è nata la collaborazione tra te e le altre donne che ne fanno parte?

La M sta per Matera.

L’ho immaginato. Perché tutto parte da lì e bisogna ricordarselo.

Assolutamente! Quando andiamo a lavorare in giro evitiamo di dirlo. Rispondiamo che MAAP suona bene. Ma Matera è l’origine di questo progetto di cui fanno parte altre cinque splendide donne. Vengono tutte da fuori. Oltre a me che sono di Matera, due sono di Brindisi, una di Sora, un’altra è di Siena, e poi c’è anche mia sorella che vive a Bologna.

Quando sono arrivata qui, inizialmente ho vissuto il conflitto Matera-Bologna. Poi però mi sono riappacificata. Matera è casa, Bologna è famiglia.

Qui ho ri-trovato mia sorella. Ma la famiglia è non solo quella in cui nasci, è anche quella che ti scegli. Sono gli amici che ti porti tutta la vita.

Com’è nata Maap e come sono entrate le tue colleghe nel progetto?

A  Matera, in periferia, c’era una parete gigantesca. Era il simbolo di quella zona. Tutto attorno stava esplodendo Matera 2019 con i suoi  eventi e artisti. Ma quel quartiere piccolino, invece, sembrava avere un’ombra sopra. Ecco, io mi sono innamorata di quell’ombra.

Per caso mi è capitato sotto gli occhi un bando del Ministero della Cultura. Ricordo ancora il nome: Creative Living Lab. Mi sono detta: lo faccio da sola. È così che è nato Maap. Con la vittoria di questo bando e 35.000 euro in tasca. Ho fondato l’ associazione con tre persone: io, mia sorella, e un amico che ha fatto da prestanome per l’occasione.

In quel periodo Luis Gomez de Terán, l’artista che ha dipinto la parete gigantesca di quel piccolo quartiere, mi disse che non potevo fare tutto da sola e mi mise in contatto con una sua amica con cui in seguito si è creato il primo nucleo di Maap. Poi le altre pian piano si sono aggiunte.

Hai scritto che è la prima fiera in Europa di arte pubblica. Adesso è ancora così o ce ne sono altre?

Ottima domanda. Diciamo che di opere di street artist nelle città ce ne sono a bizzeffe. Noi volevamo rompere il concetto di mercato insinuando quello di arte pubblica. Ed essendo arte pubblica non ci sarà mai un biglietto di ingresso come per le fiere o i musei. C’è il valore sociale dell’arte. Abbiamo scelto un’area periferica e abbiamo creato un allestimento dentro i garage. Opere artistiche che valevano anche 10.000 euro se ne stavano accanto a oggetti del quotidiano come una bicicletta rotta. Come un filo sottile che riporta l’arte pubblica alla portata di tutti. Quindi per rispondere alla tua domanda, non so se sono nate altre manifestazioni simili alla nostra.

Trovo molto interessante quest’idea di arte pubblica ma anche compleicata dal punto di vista economico. La prima volta avete vinto un bando. Ma poi come siete riuscite a sostenervi? Quali sono le maggiori difficoltà che avete trovato nel portare avanti questo vostro progetto?

Il primo progetto purtroppo non siamo riuscite a replicarlo. Perché per poter funzionare a prescindere dai finanziamenti, come i bandi, dovrebbe basarsi su una schiera di collezionisti che acquistano le opere. Ci si potrebbe mettere d’accordo con l’artista e prendere una percentuale sulla vendita. Senza dover ricorrere a uno spazio chiuso con pagamento all’ingresso come alle mostre o alle fiere. Ma finché non hai un solido sistema di collezionisti alle spalle, il progetto non è sostenibile.

E voi state cercando di lavorare in questo senso?

Adesso assolutamente no. È difficilissimo lavorare con i collezionisti. E in Italia non ce ne sono tanti. Abbiamo cambiato target e i nostri clienti sono diventati i Comuni e le amministrazioni pubbliche. Abbiamo completamente ribaltato il concetto. È così che abbiamo incominciato a ragionare su come, attraverso l’arte, si può cambiare lo spazio pubblico in funzione di chi non ha potere su di esso. Come i migranti. E le donne.

Spiegami meglio.

MAAP nasce con la fiera di arte pubblica. E ha da subito un aspetto sociale molto marcato rivolto prevalentemente ai migranti. E alle periferie.

Queste persone nella maggior parte dei casi non si sentono abitanti legittimi del quartiere in cui vivono, del Paese in cui vivono. Si sentono ospiti. Anche quando sono di seconda o terza generazione.

Dopo l’evento di Matera abbiamo continuato a lavorare con loro.

E piano piano abbiamo creato un sistema in cui i migranti beneficiano dell’arte. L’arte diventa al servizio del loro vivere quotidiano nello spazio pubblico.

In sostanza cos’è cambiato?

E cambiata proprio la prospettiva. La fiera di arte pubblica ci ha dato il là e ci ha permesso di lavorare come poi avremmo lavorato in futuro. L’artista del murale dei piedi Gomez ha insinuato in noi un ragionamento. Spesso quando si parla di muralismo, i committenti chiedono un disegno con i fiorellini, qualcosa che, soprattutto per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche, sia decorativo e crei meno fastidio possibile. Gomez, al contrario, è rimasto un faro nel nostro processo di lavoro.

Ha portato il dolore nello spazio pubblico.

I grandi piedi scarni disegnati da Gomez sulla grande facciata di un edificio delle case popolari, quasi incolori, sofferenti e inchiodati tra loro, ricordano inequivocabilmente quelli di Cristo messo in croce.

Esatto. Ma in realtà, sono piedi femminili.

Quando ci ha detto: «Io entro in una periferia e a quella periferia, a quegli abitanti, non voglio mentire. Voglio parlare con verità ed empatia» intendeva proprio rendere pubblico il loro dolore perché quel dolore lo stava comprendendo. E inoltre ne stava rendendo partecipe la comunità.

Se avesse disegnato i fiorellini, avrebbe messo la polvere sotto il tappeto. Il mettere dei piedi trafitti da un chiodo è indubbiamente un chiaro richiamo alla crocifissione. Ma il fatto che non ci fosse un volto e che nessuno riconoscesse quei piedi come femminili o maschili, ha permesso di far sentire indistintamente tutti e tutte su quella croce. Questa è empatia verso il dolore. Ed è anche un gesto politico.

La street art è stata il pretesto, il mezzo e l’output finale di un processo che inizia con un’analisi viscerale dei dolori di una comunità. Quest’esperienza ci ha aiutato a riflettere sul fatto che la città viene solitamente trattata come un luogo performativo e non sentimentale. Se non scindi le due parti, lo spazio e chi lo abita, ma leghi comunità e architettura urbanistica, puoi guardare alla città come a un unico essere che vive anche sentimentalmente, che vive anche l’esperienza del dolore e  dell’empatia.

Come ci si prende cura di questi sentimenti? Prima di tutto, esponendoli.

Fermiamoci un attimo sulle persone con cui avete lavorato, i migranti. Chi sono oggi e perché è importante lavorare in sinergia con loro?

Perché possono decostruire l’idea di città che è stata costruita finora. Se partiamo dal presupposto che la città nei loro confronti è escludente, allora la prospettiva di qualcuno che non ha mai vissuto dentro il sistema culturale con cui è stata costruita quella città, può aiutarci a decostruirla.

È ambizioso pensare di abbattere tanti anni di storia. Mi viene  in mente un esempio molto vicino a noi, quello di Mimmo Lucano a Riace. E quindi mi chiedo: pensi che solo il confronto sui temi del dolore e del fallimento possano generare empatia? Non può succedere anche partendo da una sinergia positiva?

Assolutamente si. Il nostro secondo intervento in uno spazio pubblico è stato a San Chirico Raparo. Qui abbiamo realizzato, insieme ai minori stranieri non accompagnati, un piccolo palco in legno autocostruito per il giardino di una casa di riposo. Insieme a questi minori c’erano anche altri ragazzi del paese. Tra loro non comunicavano. Un’altro tasto dolente in cui ci imbattiamo spesso.

In questi piccoli paesi dove gli immigrati parlano una lingua straniera e gli anziani il dialetto, come riuscivano a interagire tra loro? La lingua non diventa una barriera?

Se a San Chirico Raparo avevamo lavorato con l’autocostruzione, con il fare, lo sporcarsi le mani dove non c’è bisogno della lingua, ma solo di sorrisi e manualità, l’esperienza di Pietragalla è stata molto più forte. Giovani madri straniere hanno interagito con Maria Antonietta Clotilde Palasciano, che oltre ad essere un’artista e far parte di Maap, sta portando avanti un lavoro di ricerca sul linguaggio asemantico.

Cosa intendi per linguaggio asemantico?

Un segno che non è traducibile dalla logica, dalla ragione, però è comunque un linguaggio. Non quello con cui normalmente ci confrontiamo. Sta su un piano diverso in cui persone che non parlano la stessa lingua riescono a comunicare.

Quei giorni c’era il Covid, e Maria Antonietta non poteva raggiungerci a Pietragalla. Ad ognuna di loro ha scritto una lettera con questo linguaggio asemantico. Ognuna di loro l’ha aperta ed è stato un dono. Molte sono scoppiate in lacrime. Ricordo una donna nigeriana che, guardando la lettera, ha detto: «Ah, ma questo è arabo!» e una araba le ha risposto: «No, questo non è arabo!». Così hanno capito che non dovevano leggere una lingua, ma provare empatia. E a quel punto sono riuscite a far uscire le loro storie. Una delle donne che non vedeva da anni sua madre è riuscita a cucire questa sensazione su un telo con un filo bianco.

Anche tu hai ricamato quel telo. Perché hai voluto partecipare?

Partecipazione per me è un termine abusato. Ad ogni modo io non potevo, e nessuna di noi avrebbe potuto, estraniarsi dal processo. Ne eravamo parte integrante. Da curatrici non potevamo solo guardare. Il nostro compito era quello di lavorare insieme a queste donne su quel linguaggio non decodificabile che ci univa tutte. Migranti, artisti, gente del luogo e noi.

Vi succede spesso di essere parte attiva nei vostri progetti?

Nessuno di questi progetti avrebbe mai funzionato se fossimo state solo delle coordinatrici. Funzionano perché ci mettiamo sullo stesso piano delle persone che coinvolgiamo.

Mi è rimasta molto impressa una parola che è stata usata: unire. C’è stato un sarto che ha cucito insieme tutti questi teli. Che valore ha per te la parola “unire” in questo progetto?

Anche lui è venuto da un percorso di migrazione. Era un sarto nel suo paese e lo è anche qui. Ci ha insegnato a cucire. Abbiamo prima unito tutto il telo e poi ciascuno e ciascuna di noi ci ha cucito sopra. Quindi tutti abbiamo lavorato all’unione di questo tessuto lunghissimo. Ognuno ha cucito il suo pezzo e vi ha ricamato la propria risposta alla lettera. In questo progetto, la parola unire è una magia. Quando abbiamo iniziato a cucire i pezzi insieme si notavano bene tutte le differenze, ma poi a un certo punto non c’erano più. Sono semplicemente sparite. E con esse sono spariti anche i costrutti mentali che avevamo. Abbiamo abbattuto le sovrastrutture culturali per lasciare spazio all’essenza dell’essere umano. Quindi per me si può unire solo se si decostruisce,

Cos’è rimasto dopo questa esperienza?

Una cosa importantissima che abbiamo imparato è stata la necessità del riconoscimento. Non solo le due comunità (straniera e locale) non si sono più viste come nemiche, ma hanno iniziato a riconoscersi nelle loro diversità e talenti lontano dall’idea di quella massa culturale informe e indistinta che chiamiamo migranti.

E infatti dai vostri progetti si evince questa necessità di autoaffermazione da parte delle persone coinvolte, come se volessero dire: «io ci sono».

Quando si parla di borghi e paesi, tutti pensano a posti incantevoli dove la lentezza della vita è un privilegio ma non sanno che per molti aspetti si sta davvero male. A Castel Saraceno non c’è un medico. Se parliamo di immigrazione interna e spopolamento, proprio da questi paesi se ne vanno tantissime donne perché, banalmente, non possono partorire.

E non possono neanche abortire…

Mio padre è medico. Mi ha detto che nell’ospedale di Matera circa il 90% dei medici sono obiettori di coscienza. Il paese diventa il luogo che precede l’esplosione collettiva del dolore. Nella città, e non parlo di periferia, ti puoi ricavare degli spazi di fuga. Paradossalmente in un posto come Roma puoi cambiare mille vite passando da un quartiere all’altro.

Ma la comunità è un sistema chiuso, le persone si conoscono e magari si aiutano però allo stesso tempo ci sono delle mancanze e, banalmente, mancano i mezzi.

Un’altra esperienza importantissima è stata a Gallicchio. In una piazza del paese abbiamo fatto due installazioni in plexiglass colorate dove sono rappresentate donne migranti. Le piazze di questo paese non sono frequentate né da donne né da migranti, ma il paese lo è. Le donne non vanno neanche al bar perché il bar non è un loro spazio di socialità.

Nell’articolo che hai scritto dal titolo La città empatica. Il metodo Maap, citando Leslie Kern, dici «Io il potere dell’invisibilità non lo voglio, io come donna voglio essere vista». Questo invito mi ha fatto pensare a quello della giornalista Lilly Gruber che nel suo libro Basta! si rivolge alle donne così: «Uscite molto, in gruppo e divertendovi. Occupate lo spazio pubblico, marcando il territorio: prendetevi le strade, le piazze, le osterie. La conoscenza personale e l’occupazione del territorio ti rendono più forte, i maschi lo sanno bene». In poche parole, ci esorta a riappropriarci degli spazi cittadini, perché sono anche nostri.

A Gallicchio c’eravamo io, un’attivista iraniana, una regista iraniana e un’artista spagnola. Eravamo quattro donne e insieme abbiamo lasciato un segno in un paesino di 800 abitanti. Io sono la prima a mettermi in gioco, ma queste cose non le fai da sola. Le ragazze del paese, vedendoci, si sono riconosciute nella possibilità di fare la stessa cosa, collettivamente. Per combattere un sistema talmente radicato come può essere banalmente l’unico bar nel paese occupato dagli uomini, devi unirti con altre donne.

Quello che ritorna, nelle tue parole, nei vostri progetti, è questo senso di rapporti. La rete fa rete, la rete crea forza.

Ritorno sempre al tema del dolore. Si capisce che siamo tutti in una condizione di dolore. Nel linguaggio femminista, le donne hanno minor privilegio rispetto alla categoria più privilegiata che è l’uomo bianco, etero, cis, borghese. Per evitare che si ingrandisca questo divario possiamo cominciare con il riappropriarci di spazi che sono anche nostri. Ma deve partire da noi donne, non può partire da altri. Se hai un problema sei tu per primo che dovresti sentire la necessità di risolverlo.

Dipingere quelle donne migranti nella piazza di Gallicchio ha significato dare loro una rappresentazione. Se le vedi tutti i giorni, alla fine si innesca un senso di legittimazione, per loro ma anche da parte degli uomini. Creare questi spazi di accoglienza del dolore è un’azione estremamente anticapitalista e sovversiva.

Tutto questo sta portando il nostro progetto Maap a ragionare su quella che è una città empatica. Si passa sempre dal dolore, però l’unico sentimento che può salvarci dal male del paese, della periferia, della città, è l’empatia. Sai da dove partiamo? Chiedendo: «Come stai?» perché oggi nessuno chiede più «Come stai?».

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