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Da Bologna a Jiaxing. Il primo museo del gelato in Cina

05-06-2019

Di Laura Bessega
Foto di Laura Bessega

È sera. In un quartiere popolare di Shangay, Roberto cammina davanti ad un susseguirsi di locali e luci. Poi si ferma ed entra in uno dei ristoranti. Le pareti sono gialle e un po’ logore, la tavola colma di piatti esotici e bizzarri. Ad accoglierlo un nutrito gruppo di cinesi stanno per fare il “battesimo”. Sul tavolo c’è grappa distillata di riso a 52 gradi e dei bicchieri, non quelli piccolini che usiamo noi per l’ammazzacaffe, ma quelli grandi per l’acqua. Ciò che lo aspetta è una interminabile serie di brindisi in cui si lanciano i presupposti per un nuovo progetto e una nuova amicizia.

Bisognerebbe arrivare addestrati, il rituale dell’avvicinamento passa anche attraverso questo”, mi racconta Roberto Pomi, bolognese, capo dell’agenzia di comunicazione Moville. “Il problema è che i bicchieri aumentano e a un certo punto arriva quella che noi chiamiamo sbornia. In quel momento loro ti stanno conoscendo, quando ti lasci un po’ andare e perdi i freni inibitori, verificano come ti comporti”.

Mi torna in mente il buon vecchio detto degli antichi romani che non passa mai di moda: in vino veritas. Il problema, penso io, non è tanto quando sei sbronzo, Roberto è un uomo tutto d’un pezzo e con una certa aplomb. E poi al massimo ti riportano in hotel e svieni a faccia in giù sul cuscino come il Drugo-Jeff Bridges nel grande Lebowski. Il vero problema nasce con l’alba, alle 6 del mattino, quando deve alzarsi, prendere il treno e presentarsi alle 9 in cantiere per tenere la prima riunione di presentazione del progetto davanti a tutto lo staff. Ce la fa alla grande. “Ho dimostrato che gli italiani possono accettare anche le sfide più difficili”. Ridiamo.

Grazie anche a questa piccola prova di resistenza ora si può visitare il primo museo del gelato in Cina. 1600 mq costruiti in due anni.

Siamo a Jiaxing, a un’ottantina di chilometri da Disneyland Shanghai. L’idea è di Mr. Li Yi Ning, titolare della società Popland, azienda che lavora da 25 anni nella produzione del gelato ice-cream, cioè commerciale. Al suo fianco Piero Michielan, della premiata gelateria F.lli Michielan di  Noale, a cui l’imprenditore cinese chiede consulenza per la realizzazione di quello che si potrebbe definire un sogno. Ning, capita l’importanza della cultura che c’è dietro il gelato e del fatto che non si tratta di un semplice prodotto proveniente dall’estero, vuole che ne esca il valore intrinseco, storico e di cultura italiana. La cura e la direzione artistica sono affidati a Roberto Pomi che, con il prezioso supporto di Antonio Lacatena per la ricerca storica, Claudia Fabbri per la progettazione architettonica e della compagna Jennyfer Saccotto, segue, disegna e coordina il progetto in tutte le sue parti, dalla ricerca e realizzazione di video e oggetti fino all’allestimento.

Quasi tutte le maestranze di cui si avvale sono italiane, in particolare bolognesi. “La città ha esportato il suo know-how nell’ambito dell’illustrazione, della scrittura, della scultura. Abbiamo inoltre comprato molti oggetti sul mercato nazionale e realizzato repliche ad hoc come le stoviglie in Umbria per ricostruire l’immaginario delle corti medievali e rinascimentali. Di solito si pensa alla Cina come a qualcuno che porta negli altri paesi la propria produzione, ma questa volta siamo noi a esportare il nostro made in Italy”.

Questo lavoro, che doveva inizialmente portare il gelato italiano in Cina, è diventato da subito anche un viaggio nel tempo e nello spazio o, come l’ha definito Roberto, un viaggio a ritroso nel dna del gelato, dentro cui “si nascondeva una sfida antica, quella gestione del freddo”.

In Egitto, gli abitanti avevano la tradizione di recuperare il ghiaccio nelle montagne e trasportarlo nelle proprie ghiacciaie per riutilizzarlo nel corso dell’anno, mescolandolo con vino e altri nettari. È l’inizio della passione per le bevande refrigeranti. I contributi successivi sono stati molteplici, dai romani che hanno separato il ghiaccio dal liquido, ottenendo una bevanda più densa e saporita, agli arabi che hanno aggiunto lo zucchero e scoperto che l’abbinamento di sale e ghiaccio permetteva di ottenere temperature più fredde e quindi una maggiore consistenza, fino ai cinesi che hanno introdotto l’utilizzo del latte per avere preparati più nutrienti e cremosi. Il numero di persone e nazionalità che hanno contribuito a ottenere il gelato come lo conosciamo oggi sono innumerevoli. Abbiamo scoperto di avere in casa un simbolo della globalizzazione. Dietro questa preziosa  gemma si nascondono il sapere e le tecniche di tantissimi popoli”.

Quando si entra nel museo, il simbolo della globalizzazione è la prima cosa che si nota. I visitatori sono accolti da un grande globo geodetico, per la cui scoperta bisogna ringraziare un signore, un certo Richard Buckminster Fuller, che, guarda caso, appassionato egli stesso di gelato, ne ha inventato il gusto al pomodoro. “Su questa sfera tridimensionale abbiamo messo dei bottoni che permettono al visitatore di verificare le scoperte e le invenzioni che, Paese per Paese, hanno reso possibile la realizzazione del gelato come oggi lo conosciamo”.

Il museo è pensato sia per le famiglie sia per i professionisti del settore. “È stato creato un unico percorso con due livelli separati, di lettura e fruizione: uno “basso” dedicato ai bambini con fumetti, illustrazioni, parti audio che raccontano delle storie e uno ‘alto’ con testi più approfonditi per gli adulti. Adulti e bambini possono camminare insieme lungo tutto il percorso avendo lo stesso tipo di esperienza. Stesso flusso narrativo ma codici e linguaggi differenziati”. Al centro ci sono focus interattivi con tecnologie digitali realizzate da Gianluca Macaluso, sempre di Bologna, una zona cinema, quindici metri di proiezioni video girati nelle principali città italiane e la “piazza” ovvero una sala di accoglienza in cui abbiamo ricreato un enorme chiosco di fine ‘800 con oggetti e accessori d’epoca.

A conti fatti, com’è lavorare con i cinesi?

“È stata una grande scoperta. Innanzitutto è importante sapere che si può fare. Nonostante le dovute differenze, di linguaggio e di metodi, le nostre due culture si ritrovano su tantissimi aspetti: siamo legati da una grande passione per la bellezza, il cibo buono, la famiglia. Nello stare insieme siamo portati ad avvicinarci. Quando c’è un reciproco interesse il rapporto entra subito su un piano di relazione e a loro vogliono sapere chi sei tu. Si fidano della persona. E lo fanno con le stesse regole italiane: si mangia, si beve e ci si mette un po’ a nudo e questo è un aspetto che prevede una certa capacità di reagire a cibo e alcol che sono sempre abbondanti”.

A questo punto voglio sapere com’è proseguita la giornata dopo il “battesimo”.

“La capacità e la volontà di aver affrontato una giornata di lavoro nonostante la serata precedente per loro è stato un segno di rispetto molto forte. Poi é successa una cosa inaspettata che mi ha fatto capire che sono persone che curano molto l’ospite. All’ora di pranzo, quando pensavo mi avrebbero portato in un ristorante per un altro giro di brindisi, mi sono ritrovato in una meravigliosa Spa dove mi hanno rimesso al mondo. Da allora in avanti sono sempre stato lasciato libero di mangiare e bere ciò che volevo”.

Qual è la cosa che ti ha colpito di più nel loro modo di lavorare?

“La concretezza e la velocità con cui i cinesi riescono a produrre e mettere in pratica le tue idee è qualcosa di veramente sorprendente a cui noi italiani non siamo abituati. Pensa che ho sviluppato il progetto di un intero museo di 1600 mq dal fango alle finiture, inaugurazione inclusa, in meno di due anni. Otto viaggi e ogni volta vedevo dei progressi incredibili – Come la Salerno-Reggio Calabria penso io – Una sera ci accorgiamo che manca una parete e di non avere le misure originali. Ho preso una bottiglia e con l’acqua l’ho disegnata sul pavimento sporco di polvere. La mattina seguente era già stata realizzata la struttura in metallo e la sera stessa era già ricoperta di cartongesso”.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

“La voglia di rifarlo. La Cina è ancora un mio obiettivo e sto pensando ad altre collaborazioni. Ad ogni viaggio mi sono portato a casa dei ricordi e delle sensazioni che ancora emergono nel quotidiano. È un contesto in cui ci si sente curati e apprezzati. E questo a noi italiani fa bene“.

Chiedo a Jennyfer come è stata per lei l’esperienza.

“Sicuramente il riconoscimento del mio lavoro è stata una parte importante soprattutto perché, quello cinese, è un mondo molto maschile dove le donne, in determinati settori, sono sottovalutate mentre in altri hanno molto potere. Io sono arrivata come un’occidentale qualunque, ma ho saputo guadagnarmi il loro rispetto. Il miglior complimento?  Sei così fantastica che pensi come un uomo”.

Ridiamo. Alla fine in Italia, in certi ambienti, non è poi molto diverso.

Mentre mi allontano dalla loro casa, arricchita da questi straordinari racconti, mi ritrovo in piazza San Francesco e mi assale un’incontenibile voglia di gelato. È a questo punto che nella mia testa si fa strada una domanda: come fa a venirmi l’acquolina per qualcosa di cui non sento neanche l’odore? Ripenso alle parole di Roberto: “Nonostante si utilizzano materie prime assolutamente profumate come ciliegie, fragole, nocciole, cioccolato, il gelato non ha odore in sè. Il freddo glielo toglie. Poi  lo assaggi e…boom! Ti arriva dritto in testa.

Per chi non riuscisse a raggiungere Shanghai in tempi brevi, il 22 giugno inaugura il secondo museo del gelato firmato da Moville, per l’azienda Michielan che sta aprendo il suo Doge 41 a Murano. Un museo con gelateria e bookshop dove gustare il gelato e la sua storia.

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