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Benvenuti “Nel mondo di Camilla”: dai ritratti all’amica Matilda De Angelis all’amore per l’analogico

11-03-2021

Di Noemi Adabbo
Foto di Camilla Cattabriga

Camilla Cattabriga ha l’obiettivo puntato sul mondo, il suo, che scatta spesso in bianco e nero.

Una visione chiara ma soffice come le sue instantanee, dai contorni delicati al pari della grana analogica e dall’approccio sensibile, come la luce che le illumina. Naturale come i nudi a cui da sempre si appassiona. Bolognese classe 1995, Camilla, con lo pseudonimo Nel mondo di Camilla, prende in mano la sua macchina fotografica in tenera età per mai più staccarsene.

Una delle sue prime modelle è stata l’attrice e cantante Matilda De Angelis, sua amica da sempre, che la settimana scorsa abbiamo visto salire sul palco dell’Ariston per la 71° edizione del Festival di Sanremo dopo aver conquistato anche il pubblico d’oltreoceano con la sua partecipazione alla serie tv Hbo The Undoing – Le verità non dette, al fianco di Nicole Kidman e Hugh Grant. È stata protagonista di diversi suoi lavori, come la foto da copertina per la sua ultima intervista su 7 – Sette, il settimanale del Corriere della Sera.

Divide il suo sguardo tra il capoluogo emiliano e Roma, e l’abbiamo incontrata per farci raccontare da lei la sua di storia ma anche quella dei suoi scatti, uniti da un filo narrativo diviso tra passato, presente e futuro.

 

Tu e Matilda De Angelis condividete uno stretto rapporto d’amicizia. Entrambe siete riuscite ad inseguire i vostri sogni e a realizzare i vostri obiettivi. Cosa diresti alla Camilla e alla Matilda degli inizi delle vostre rispettive carriere?

«Ho conosciuto Matilda a 14 anni. È stata una delle mie prime modelle. Abbiamo vissuto tre anni insieme a Roma. Mentre io studiavo fotografia, lei cinema. Abitando nella stessa casa le ho fatto una quantità di scatti esorbitante, uno dei soggetti che ho ritratto di più.

È stato bello farle la foto di copertina per 7 – Sette: da foto scattate in intimità o in giro per Bologna e Roma siamo arrivate a farne su commissione consacrando una grande crescita professionale tra me e lei, accompagnata dall’amicizia che ci ha sempre legate. Un rapporto doppiamente speciale che si riflette anche nelle foto.

Alla Matilda di anni fa direi che è andata alla grandissima e alle rispettive noi direi di continuare, sia sul lavoro che in amicizia perché siamo una bella squadra».

Parlami del tuo approccio alla macchina fotografica e di quando hai iniziato ad avvicinartici. Subisci da sempre il fascino dello scatto? Spiegami cos’è e cosa rappresenta per te un’istantanea.

«Ho iniziato a scattare presto, intorno agli 11/12 anni. Alla cresima di un mio cugino, mia zia mi portò questa piccola macchina fotografica, rossa. Misi subito in posa i miei cugini per fotografarli. Da lì, entrai in fissa con la macchina fotografica, motivo per cui nel giro di un anno iniziai a frequentare un corso, qua a Bologna, dove è iniziato il mio percorso di studio.

Subisco da sempre il fascino dello scatto ed è una passione che non mi ha mai abbandonato. Incominciai ad interessarmi a Francesca Woodman e ai tempi utilizzavo Tumblr per gli spunti. La fotografia è diventata il mio mondo e il mio obiettivo. Mio nonno lavorava in una stamperia, mio padre mi diede la sua macchina fotografica che utilizzava per la sua collezione di cactus. Al liceo l’avevo sempre con me.

La fotografia, per me, adesso, rappresenta il mio passato, il mio presente e il mio futuro. La mia linea del tempo. È la mia isola. Molti dei ricordi delle mie amiche sono legati alle mie foto: ho sempre congelato momenti dai 13 anni in poi. La fotografia è il modo con cui vivo».

Dispersi | Foto di Camilla Cattabriga (Guarda qui il progetto completo)

Nel mondo di Camilla raccoglie la tua vita e i suoi dettagli: cosa cerchi di estrapolare dai tuoi soggetti e come li scegli? Cosa vorresti che l’occhio esterno vedesse al di là dell’obiettivo?

«I soggetti, inizialmente, erano quelli che mi circondavano. Non c’era una vera e propria scelta, in senso positivo. Mi divertivo a fotografare i miei amici e la mia famiglia. Le mie prime modelle sono state le mie migliori amiche e, gli sfondi, ciò che facevamo insieme. Durante il periodo universitario ho incominciato a fare del posato con persone che non conoscevo. La scelta dei soggetti arrivava dall’incontro con persone che mi piacevano.

Non seguo regole e non ricerco un’estetica predefinita, ma varia a seconda del progetto. Mi piace che i soggetti tirino fuori quello che hanno dentro perché non voglio raccontare qualcosa che vada al di là di loro. È un lavoro di squadra quindi non mi piace imporre pose o stati d’animo. Impartisco poche indicazioni perché amo la naturalezza delle persone con cui scatto. Allo stesso modo mi piace lasciare libera interpretazione all’occhio esterno di chi osserva, mi piace ascoltarla soprattutto se molto diversa dalla mia: ognuno con la propria soggettività può trarne un significato differente».

Skin | Foto di Camilla Cattabriga

La tua fotografia viene definita reportagistica, ti ritrovi in tale connotazione? Negli anni hai sviluppato maggiore interesse nello storytelling da cui il tuo avvicinamento alla cinematografia con la creazione di tre videoclip e otto cortometraggi di cui uno su pellicola analogica. Quanto conta per te la narrazione e cosa cerchi di raccontare attraverso i tuoi racconti?

«Dipende dal progetto. Nel fermare la mia realtà, sì, lo stile è reportagistico perché catturo momenti che esistono a priori da me, come One Day, un diario che porto avanti da sempre. Altri progetti privilegiano il ritratto posato, come Portrait e People. Amo dedicarmi a entrambi gli stili e cerco di unirli. Da fotografa autodidatta ho fatto il Dams poi il Centro Sperimentale dove ho studiato Direzione della Fotografia, qualcosa di molto diverso e lontano dalla fotografia statica.

Oltre a fotografare, mi piace illuminare. Sono stata quindi direttrice della fotografia e operatrice in alcuni corti in cui accompagno il racconto, non lo creo, con la mia luce. Per quanto riguarda la fotografia statica, invece, mi piace creare delle immagini che siano progetto e quindi narrazione. Faccio fatica ad abbandonare le immagini a sé stesse. La fotografia può essere il mezzo per trasmettere un messaggio o una storia, come in Dispersi, a cui ho pensato prima di scattare le foto, oppure un racconto che nasce a posteriori».

Portrait Matilda De Angelis | Foto di Camilla Cattabriga

Le tue foto riflettono uno stile dolce, delicato, quasi come se l’obiettivo non volesse disturbare il momento che si accinge a catturare. Le immagini e i corpi appaiono quasi evanescenti in luci fioche, debolmente accennate. Tutto è lieve ma anche doppio, il tempo pare sospeso e il contatto ricercato ma non inseguito, solo sfiorato. Quali sono le emozioni che cerchi di veicolare?

«Mi ci ritrovo in questa dimensione delicata delle immagini. È la mia propensione naturale che riflette il mio sguardo sul mondo, il mio stile. Non vi è alcuna dimensione o chiave violenta nei miei scatti, nemmeno nei nudi. Nello scatto si riflette la mia persona, Camilla, che vede e osserva la realtà che la circonda in un modo specifico. Amo questo mondo quasi onirico.

Non penso a quale emozioni veicolare ma a quelle io che personalmente provo nell’attimo in cui scatto e possono essere tra di loro contrastanti, di sorpresa, malinconia, agitazione, ansia. È un momento bellissimo, magico e completamente a sé. Come sempre nella vita, l’emozione arriva a posteriori, provocata dalla situazione che si sta vivendo. Lo spettatore può fare esperienza di emozioni completamente diverse dalle mie, anche opposte, e questo esula dal mio controllo. Mi piace che sia così, al di fuori di me».

Skin | Foto di Camilla Cattabriga

Protagonista di molti tuoi lavori è la donna nella sua versione più naturale. Spesso nuda, la ritrai nei momenti più semplici e intimi. Difendi il corpo femminile dall’ipersessualizzazione a cui è da sempre sottoposto proponendo donne gravide e busti, difendendoli dal mondo censurante dell’internet che declassa il seno a mero oggetto sessuale e non creativo e artistico. A tal proposito, nel 2020 hai pubblicato la fanzine Nippledise, per dare personalità e spazio a ciò che viene da sempre oscurato su piattaforme social quali Instagram e Facebook. Cos’è il nudo per te e come lo vivi? Da quando hai incominciato a volerlo soggetto dei tuoi lavori? Parlami del tuo progetto Notaboo.

«Il nudo è un’altra grande parentesi della mia fotografia. Ispirandomi a Francesca Woodman, ho incominciato a provare subito gran fascinazione per il corpo e la nudità. I primi scatti sono stati realizzati con amiche. La vergogna, nello scattare il nudo, non esiste, così come non dovrebbe esistere nel mostrarlo. Il soggetto deve essere completamente a suo agio ed è un rapporto di fiducia che cerco di costruire pian piano. Come ci poniamo viene recepito dalla persona con cui interagiamo tramite lo sguardo e la gestualità e io non provo vergogna perché nasciamo nudi. Siamo esseri nudi ancora prima di essere vestiti.

Da qui, il tema su cui poggia la realizzazione di Nippledise: una vergogna imposta, culturale e sociale più che naturale. Su Instagram c’è la censura sul capezzolo esclusivamente femminile. Mi ci sono scontrata nella pubblicazione dei miei lavori. Nippledise è una raccolta di capezzoli femminili personalizzati a mò di angioletti perché defunti essendo stati cancellati in quanto censurati. Un’immagine tutt’altro che sessualizzata, anzi, ironica. Tra le clausole che permettono la pubblicazione, sono previste foto in cui la donna allatta o è presente una malattia oppure una protesta, quest’ultima discutibile viste le varie censure in questo campo.

Coi miei lavori, e con Nippledise in particolare, mi piace porre domande più che risposte e quindi chiedo perché questo succede, perché sono previste queste limitazioni? Il nudo, soprattutto femminile, viene ricondotto alla pornografia come se non fosse nient’altro. Questo si riconduce al tema di ciò che viene considerato socialmente attraente e quindi al concetto di perfezione, di ciò che è bello e brutto. Definizioni sterili. È stata proprio la vergogna del mio corpo e la sua nudità, da piccola, che mi ha portato ad avvicinarmici, per esorcizzarla ed eliminarla. Un’azione quasi catartica.

Notaboo l’ho realizzato nel 2017, uno dei progetti di cui vado più fiera. È nato in modo casuale, su richiesta di Max Olivieri, un giornalista del Fatto Quotidiano con disabilità per il progetto Lovegiver: anche le persone con disabilità hanno una sessualità che va vissuta e indagata e facilitata. La protagonista è Paola, portatrice di una grande intimità ed energia. Anche in questo caso la mia fotografia era a servizio di un’emozione specifica, la sua, e della sua storia».

Notaboo | Foto di Camilla Cattabriga (Guarda qui il progetto completo)

Parliamo di colori. Molte delle tue foto sono in scala di grigi e vi è una certa predilezione per una flebile dicotomia tra bianco e nero come in Dispersi, The Ghost Town, Grigio che naufraga, Mourning e One Day, presenti anche in Portrait e Skin. Dimmi di questa scelta e come vivi questa texture. Per quali soggetti e luoghi ti piace utilizzarli maggiormente?

«Entriamo nel mondo dell’analogica, che io amo. La preferisco rispetto al digitale. Un amico di mia zia, Massimiliano Sciacca, fotografo di Bologna, presso il quale facevo da assistente, mi insegnò che il bianco e nero è analogico e non digitale. Mi diede la sua macchina fotografica e da lì è nato il mio amore per il bianco e nero. All’inizio era più una connessione col mezzo, poi col tempo ho voluto scattare sempre di più in bianco e nero e meno a colori, da cui la grana e una profondità differente da quella digitale. In location con colori particolari, prediligo il colore anche se non amo il verde dei prati nelle immagini e, infatti, tendo al bianco e nero nel riprendere luoghi naturali. Per quanto riguarda i soggetti, invece, la scelta mi è indifferente».

 

Hai anche una rivista, Eki magazine…

«Sono molto elettrizzata al riguardo. È in stampa ora ma il progetto è iniziato già un anno fa, durante il lockdown. Con gli amici conosciuti al Centro Sperimentale abbiamo deciso di collaborare per sviluppare un progetto in cui fossimo tutti alla pari, orizzontale, senza alcuna gerarchia. La rivista, semestrale, si concentra sulla luce a 360 gradi, da cui il nome: Eki è la divinità basca del sole. Il primo numero parla di luce bassa, il secondo di quella notturna».

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