Caterina Frongia scrive storie sui tappeti ma le parole si confondono tra i simboli.
“Sono una scrittrice mancata. Sono difficilmente catalogabile: non sono un’artista, non sono una designer, non ho studiato all’Accademia, sono autodidatta. Racconto la storia di qualcun altro e così in qualche modo scrivo.”
Originaria della Sardegna e approdata a Bologna per il DAMS, ha un’idea chiara della città: “A Bologna ho sempre trovato persone fiduciose, colte, toste, intelligenti e questo mi ha permesso di migliorarmi e di vivere bene”.

caterinafrongia_howsexy_2025_©dariocervellin
Ormai il suo accento sardo si nasconde tra le pieghe dei tanti anni trascorsi qui. Mi accoglie a casa sua un lunedì mattina, salopette blu, maglione blu chiaro, capelli corti sbarazzini. Sul grande tavolo quadrato ci sono il suo taccuino con gli appunti e gli schizzi, i suoi pennarelli. Siamo in un angolo tra cucina e divano, con finestre su entrambi i lati. Fuori si vedono Bologna, il verde degli alberi e qualche uccellino che fa avanti e indietro becchettando i semini nel dispenser sulla finestra. Siamo poco distanti dal centro, ma c’è silenzio e il tempo sembra sospeso. Caterina fa domande e ascolta le risposte, sembra di conoscersi già. È intensa, solida, decisa, concreta.
“Sono figlia di una tessitrice. Nel 2020 ho ereditato i telai manuali di mia mamma, a Samugheo, in Sardegna. Mi sono trovata davanti a un bivio difficilissimo: tenerli o non tenerli? Li ho tenuti. Contro il parere di tutti, soprattutto della mia famiglia. Mia mamma li usava poco, più che altro per nostalgia, io li ho sistemati e ho cercato i tessitori.”

caterinafrongia_2022_©giacomomaestri
Anni prima aveva fatto realizzare a sua madre alcuni prototipi. Poi un’amica di un’amica gliene ha comprato due e un’altra amica subito altri due. Nel 2021 ha partecipato a Edit Napoli, fiera di design indipendente, per capire quanto interesse potessero destare tra il vasto pubblico. Era nella sezione emergenti Seminario dove il suo arazzo Gimme Shelter è risultato tra i vincitori del Premio Miglior Inedito. “Da lì è partito tutto: pubblicazioni su riviste, i primi pezzi su misura, i contatti con gli Stati Uniti e l’estero e con la galleria Chiarastella Cattana di Venezia”, dove anche attualmente sono esposti alcuni sui tappeti e arazzi.
Il lavoro di Caterina si può dividere in tre tipologie: quella dei lavori biografici, quella delle frasi scritte e quella più artistica, più personale. Ciascuna tipologia segue un proprio percorso, ciò che le accomuna è la narrazione: “non posso creare niente senza una storia da raccontare. La scrittura mi ha sempre affascinato ed è il corpo e l’anima del mio lavoro.

caterinafrongia_ritratto_2024_©marcoonofri
Non voglio continuare la tradizione sarda in sé e per sé, amo la commistione tra tradizione tessile e sperimentazione, tra antico e moderno. Anche nei materiali: la lana sarda, che si è sempre usata nei tappeti, si intreccia con altri materiali sardi naturali come la rafia, ma anche con materiali diversi, adesso ancora di più che all’inizio: fascette, corde da scalata, moschettoni, un tappetino da preghiera. Io volevo fare dei tappeti, ma poi quasi tutti li appendono al muro e, a quel punto, ci si può inserire di tutto.”
Le chiedo se non la disturbi creare oggetti che poi vengono calpestati: “no, per me il pavimento è la quinta parete, e i tappeti sono come dei quadri.”

caterinafrongia_modella_2024_©narente
I lavori biografici sono tappeti e arazzi che raccontano la storia dei suoi clienti attraverso icone, simboli, scelta dei colori e di eventuali materiali aggiuntivi inaspettati. “È come un ritratto, che però non dice tutto del committente, anzi, spesso nasconde dei segreti.” I tappeti sono quasi sempre bianchi, come una pagina su cui scrivere; la storia è raccontata attraverso simboli, alcuni universali, alcuni inventati da Caterina: la croce significa soccorso, il rombo la nascita, il triangolo la vita, il triangolo ribaltato la morte, la linea zig zag l’acqua (così era anche nei tappeti sardi antichi, e anche in quelli africani, afghani…). Simboli e forme sono parte di un linguaggio che diventa senza tempo, poetico e misterioso, che accende l’interesse di chi lo guarda a decifrarne il senso.
Anche il logo è un riferimento alla Sardegna, di solito rappresentata con colombe e grifoni, “io ho voluto usare un uccellino stilizzato, più consono al mio tempo, per firmarmi.”
Il racconto parte dall’incontro con il cliente, l’ascolto e la visione dei suoi riferimenti musicali e cinematografici. Una prima bozza, le modifiche, poi il disegno approvato viene disegnato punto per punto da Caterina su un poster e trasmesso alle tessitrici, che lo utilizzeranno per realizzare a mano il tappeto o l’arazzo con l’antica tecnica sarda di tessitura a grani. L’intero processo richiede circa due mesi di lavoro.

©giacomomaestri
Il primo test è stato un tappeto che raccontava la storia di Cappuccetto Rosso, nessuno lo aveva capito, solo suo figlio che ha riconosciuto alcuni simboli. Un cliente l’ha visto e ha chiesto se poteva raccontare la storia di qualcuno. “Mi sono sempre piaciute le storie degli altri e delle loro famiglie, vedi cose che le persone coinvolte non notano, qualcosa di straordinario c’è sempre, in ogni persona. I miei clienti sono quasi tutti uomini e quello che ho notato è che le persone note raccontano il ‘piccolo’, hanno il desiderio di tornare all’autentico; al contrario le persone ‘comuni’ raccontano in grande. Quello che più mi interessa è come siano riusciti a salvarsi dalle difficoltà.
Parlo spesso di dolore, di malattia, perché l’ho vissuto attraverso mio fratello, che ha sempre avuto l’istinto di voler superare un suo deficit, sono sempre stata affascinata dalla sua forza di volontà. Me l’ha trasmessa.
La seconda tipologia di lavoro è quella che raccoglie frasi autobiografiche, composte da 81 lettere, senza interruzioni. “Anche se hanno riscosso molto successo, è il lavoro che mi interessa meno, perchè la storia è mia e non di altri; le frasi sono scritte col nostro alfabeto.

©francescocorlaita
Sono lavori che hanno a che fare con lo sguardo. La questione della vista è per me molto importate, da qui l’utilizzo del sistema Braille nei miei lavori. Non lo vedo come un deficit, bensì come una possibilità in più, perché ha a che fare col sentire in generale, è una geniale soluzione che l’essere umano ha trovato per sopperire a una mancanza. È una cosa in più rispetto alla lettura, che per chi vede viene ormai istintiva: vedo una scritta e la leggo, involontariamente. Il Braille coinvolge un altro senso del corpo e presuppone la volontà di volerlo fare. Oltre a questo, è una forma di scrittura e a me piacciono tutte.”
La terza tipologia di lavoro è dettata da questioni etiche e morali, deve essere un messaggio sociale. “L’ultima mostra fatta a Milano era tutta incentrata sul fenomeno della migrazione in mare. In questi lavori ho libertà totale, non me li commissiona nessuno, è il mio modo di esprimermi. Ho messo in evidenza storie di persone conosciute nella mia vita e le ho raccontate a mio modo. Ho cercato di sospendere il giudizio, un po’ di polemica c’è, ma non voglio siano lavori politici, forse non sono abbastanza coraggiosa.
In ‘Dream of Flight’ la base dell’arazzo è pesante, simboleggia la costa africana. 100 anellini da ornitologo si annidano sul bordo della zona scura, per poi librarsi verso l’alto, allegerendosi, come in un volo di uccelli. Sono stata molto affascinata dal progetto di studio Overlap, condotto sull’isola dell’Asinara nel 2020 e incentrato sulla coincidenza tra le rotte degli uccelli e i flussi migratori degli uomini che partono dall’Africa sub-sahariana e si dirigono verso l’Europa.

I primi lavori ci tenevo che fossero leggibili, ora invece vorrei che lo fossero sempre meno. Ad esempio il lavoro ‘Dot to Dot’ rivela il suo messaggio dopo aver unito i puntini, riprendendo un passatempo veloce e distratto, paragonabile all’indifferenza che ormai si prova quando si ascolta il telegiornale.
Ultimamente ha intrapreso alcune collaborazioni che in qualche modo rimangono legate al mondo tessile, con il brand di moda MSGM, ad esempio: “Massimo Giorgetti sostiene che le discipline debbano mischiarsi, che bisogna attingere ad altre visioni artistiche se si vuole veramente dare un’idea più fedele di se stessi, dei propri gusti e delle proprie opinioni. Un concetto che condivido appieno e che accresce l’esperienza personale. Questo salto nella moda mi ha fatto assaporare la velocità e forse a lei un po’ di lentezza.”

©francescocorlaita
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