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“Se non possiamo vedere il futuro, possiamo però immaginarlo”. La call di Cheap per guardare oltre la pandemia

01-03-2021

Di Noemi Adabbo
Foto di Margherita Caprilli

Normalità: carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica, di un individuo, sia a manifestazioni e avvenimenti del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali, ecc.) più generali.

Questa la definizione di normalità secondo Treccani. Ma che cos’è davvero e cos’era per noi? E nel post pandemia?

Ogni giorno, da un anno a questa parte, è un giorno in più nel post normalità, una realtà diversa da quella che abitavamo. Ci ricordiamo il nostro ieri? Che effetto ha sul nostro oggi e che ne sarà del domani? Tornerà la normalità o niente è per sempre?

Il collettivo Cheap ha dedicato a queste riflessioni la sua nuova call for artist dal titolo POST. L’invito a questa narrazione collettiva nello spazio pubblico è aperto a singoli così come a progetti collettivi ed è possibile inviare fino a tre poster. Per poter contribuire c’è tempo fino al I° Giugno 2021. Il testo della call è disponibile sul sito di Cheap.

Un invito a immaginare il futuro: post pandemia, post porno, post capitalismo.

Abbiamo raggiunto le ragazze di Cheap per parlare proprio di questi temi.

Ieri. Oggi. Domani. Sempre. Il tempo è l’unità con cui misuriamo la nostra dimensione e quanto ci è cara questa nostra realtà che definiamo normale? O almeno, lo era, normale. Cos’è allora la normalità per ognuno di noi e com’era, com’è e come sarà? Ciò che avevamo prima è ciò che meglio conosciamo per questo lo definiamo normale ma lo era davvero, e soprattutto, lo rivogliamo davvero?

Sull’esistenza di una presunta ‘normalità’ abbiamo qualche dubbio. Esistono le norme sociali, esistono le routine, esiste uno status quo: la risultante di queste e altre dinamiche viene probabilmente percepita come normalità. Ma le norme sociali si possono cambiare, come le routine e i sistemi all’interno dei quali ci adattiamo a vivere.

A noi sembra auto evidente che questa pandemia abbia a che fare con politiche ambientali insostenibili, così come che la crisi economica che colpirà duro sarà causata da un sistema economico squilibrato e che a pagare in termini di nuove povertà saranno le stesse categorie di sempre. Noi ci occupiamo di arte pubblica, non sappiamo cosa succederà. Sappiamo invece che all’interno di una crisi, di ogni crisi, c’è lo spazio per mettere in discussione il modello che l’ha causata: nello scenario drammatico della pestilenza c’è anche questo spiraglio di possibilità, la possibilità di immaginare e sperimentare altro”.

 

Ma esiste una definizione di normalità? E possiamo definirla normale quindi concepita come tale per tutti oppure ognuno ne ha un propria versione e visione soggettiva?

Preferiremmo usare l’aggettivo ‘culturale’ per descrivere il livello collettivo: è culturale la nostra percezione del reale, dei generi, delle relazioni, della simmetria, del bene e del male. Dopodiché, sì: la dimensione individuale esiste e le nostre aspettative sulle visioni che ne derivano, intese come capacità visionarie, sono altine. Altrimenti non lanceremmo una call for artists che riunisce sguardi individuali per ricostruire narrazioni collettive nello spazio pubblico”.

Molte persone non desiderano più tornare alla vita che avevano prima e hanno utilizzato questo tempo sospeso per riprendersi quello che avevano perso, cercando di crearsene uno tutto nuovo, più loro e in linea con quelli che sono i propri reali desideri. Non soffochiamo spesso ciò che vogliamo veramente in nome di ciò che reputiamo socialmente più convenzionale e quindi apparentemente più giusto? La normalità vale la nostra felicità?

“A noi è successo questo. Tra dicembre 2019 e gennaio 2020, abbiamo realizzato un progetto con una doppia affissione: in un primo tempo, abbiamo installato nelle strade di Bologna dei poster che proponevano delle domande – A chi appartiene il tuo tempo?, Chi decide del tuo corpo?, Cosa fai dei tuoi privilegi?, Hai diritto alla tua città?, Torni mai a casa da sola di notte?; nella seconda fase, sulle stesse bacheche sono comparsi manifesti che contenevano messaggi esortativi in risposta a quelle stesse domande, RECLAIM your time, your body, your power, our city, our nightAvevamo già deciso che RECLAIM sarebbe stato il concept del 2020 perché la rivendicazione del proprio tempo, del proprio corpo, della propria capacità di realizzare un cambiamento, della città e di altri spazi come pure della notte, erano rivendicazioni che sentivamo di dover agire.

Per quanto ci riguarda, lo status quo precedente alla pandemia era già da mettere in discussione: il testo della call invitava letteralmente a ‘rivendicare qualcosa che ti è stato tolto. Precluso. Qualcosa che è tuo. Sulla base di un diritto. O di un desiderio’. Nessuno, soprattutto Cheap, immaginava che nel giro di poco la dimensione di ciò che ci sarebbe stato precluso avrebbe subito un’espansione esponenziale, esponenziale proprio come la diffusione del virus”.

 

Le domande che ci ponevamo ieri non sono quelle di oggi e non saranno nemmeno quelle di domani ma ce le porremo comunque e sempre. Tutto è in continua evoluzione: come pensate si sia evoluta la nostra vita e la visione che abbiamo di essa nell’ultimo anno?

La pandemia si è rivelata un reality check in grado di ridisegnare prospettive che solo a gennaio 2020 sembravano frutto di un esercizio distopico. Se da una parte la crisi crea delle accelerazioni, dall’altra ha la capacità di espandere dei macrotemi: fa esplodere questioni come quelle del corpo, del tempo, del privilegio e dello spazio pubblico in relazione allo stravolgimento che stiamo vivendo. Il corpo che si confronta e scontra col virus, il tempo della quarantena, il privilegio nell’emergenza, la preclusione della città e della partecipazione alla vita civile.

Oggi le contraddizioni, le disparità e le nuove precarietà sono più evidenti che mai. La cosa a nostro avviso drammatica è che i poteri istituzionali che gestiscono la pandemia insistono nell’utilizzare vecchie categorie per interpretare il presente, sul quale credono di poter intervenire con vecchi strumenti. Un esempio? C’è la peste. Le persone sono provate psicologicamente, fisicamente e economicamente. Si insiste sulla dimensione della responsabilità individuale utilizzando lo strumento del coprifuoco. Non viene praticata alcuna alternativa, come ad esempio investire su una soluzione collettiva: vaccinarci tuttə, vaccinarci subito, senza aspettare i tempi di delivery di colossi farmaceutici ma facendo una cosa di una semplicità esiziale per il capitalismo, espropriando il brevetto. Riconoscendo la salute globale (un bene comune?) come prioritario rispetto al margine di guadagno di un’azienda. Davanti a questa prospettiva, ci sentiamo rispondere che è una soluzione ‘radicale’: almeno su questo, siamo tuttə d’accordo”.

Parlatemi della vostra ultima call POST e di com’è nata.

“La Call for artist di Cheap è l’invito annuale a contaminare lo spazio pubblico rivolto a artistə che utilizzano linguaggi visivi contemporanei: la partecipazione avviene attraverso l’invio digitale di poster che, se passeranno la selezione, verranno stampati e affissi nelle strade di Bologna. Questa IX edizione del progetto vede alcune novità: i poster passano dal bianco e nero al colore e le dimensioni ‘esplodono’, dal classico 70×100 si passa al 140×200. POST, nella sua accezione latina, è il concept scelto per il nuovo anno, la suggestione a partire dalla quale saranno costruiti i progetti di arte pubblica dei prossimi mesi.

Mai come in questa edizione più che una call for posters abbiamo fatto una call for visions. Il tema POST si presta a questo invito alla visione. Il testo della call invita esplicitamente a un ‘movimento immaginifico verso il futuro‘, leggendolo però attraverso il prisma di un passato e di un presente: quello che vorremmo indagare è un futuro situato, per questo facciamo più o meno riferimento ad un ipertesto molto ampio che va da Mark Fisher a Donna Haraway, intersecando anche la science fiction caraibica, il manifesto xenofemminista, lo sguardo dei Motus rivolto ai futuri fantastici a Santarcangelo, l’installazione sul tetto del Berghaim a Berlino ‘Morgen ist die Frage’ (Domani è la domanda).

Il riferimento alla pandemia è esplicito, lo scenario post-pandemico è inevitabile. L’eccezionalità del tempo che stiamo vivendo ha sicuramente modificato la percezione di quello che ci aspetta dopo, anche se non lo ha assolutamente uniformato: le incertezze e le inquietudini di questa pestilenza aprono a scenari diversi e opposti”.

 

L’etimologia latina di “post” è “dopo, dietro”: viene spesso utilizzato come prefisso in accostamento a un sostantivo o a un aggettivo per indicare e definire una determinata posteriorità nel tempo, il concept scelto da voi per quest’anno. Si conosce approfonditamente qualcosa solo dopo averne fatto esperienza. Quant’è importante ragionare su ciò che ci è successo per trarne insegnamento nel futuro? Le lezioni a posteriori sono sempre utili per affrontare al meglio il presente? Cosa cambieremmo allora di oggi rispetto a ieri?

“Una delle suggestioni che ci ha accompagnate mentre lavoravamo al concept del 2021, è la visione che nella Grecia classica accompagnava l’idea di futuro: il futuro è alle nostre spalle, non lo possiamo vedere perché l’unica cosa che si estende davanti a noi è il passato, che di conseguenza è anche l’unica cosa che possiamo conoscere, l’unico accidente di cui abbiamo esperienza.

Se non possiamo vedere il futuro, possiamo però desiderarlo, possiamo immaginarlo. Questa tensione, questo sforzo immaginifico è precisamente il punto di partenza da cui muove il nostro invito allə artistə della call for artists: le risposte arriveranno in formato poster e saranno installate nello spazio pubblico”.

Niente dura per sempre? Anche nei vostri manifesti il “sempre” si sgretola fino a scomparire. Si dice che certe cose siano più preziose proprio perché non durano: è quindi la caducità della vita e di ciò che abbiamo e a cui più teniamo che accresce la nostra capacità di apprezzarlo? A vostro parere, l’abbiamo compreso quest’anno?

“Niente dura per sempre. E per fortuna, vorremmo aggiungere. Cheap, il nostro progetto di arte pubblica, ha da sempre deciso di indagare la dimensione effimera dell’arte di strada: lavoriamo con la carta, il materiale più fragile e caduco a cui siamo riuscite a pensare. Abbiamo sviluppato una certa predisposizione a un atteggiamento situato nei secondi piuttosto che nei secoli. Invece, le ideologie, i sistemi, le religioni si pensano e si comunicano, oltre che come perfetti, come infiniti: lo fanno i monoteismi, lo fa il capitalismo, lo fa qualsiasi dogma.

Questo è il meccanismo che vogliamo mettere in discussione: l’idea di questo destino, di questa tendenza all’infinito, il suggerimento nemmeno troppo tacito che non esista alternativa, che lo status quo corrisponda a un ordine naturale delle cose, che non esista altra verità né salvezza all’infuori di quella professata. Promuoviamo invece una prospettiva in cui tutto può essere oggetto e soggetto di un cambiamento: cambiano i sistemi, cambiano le estetiche, cambiano i valori, niente dura per sempre”.

 

Qual è il vostro obiettivo con questo progetto e parlatemi di voi, della vostra mission come collettivo?

“Cheap si occupa di linguaggi contemporanei nello spazio pubblico della città, letteralmente in un luogo di cittadinanza: quando i nostri interventi mettono al centro della conversazione corpi, cittadinanze e disparità sociali, mettono allo stesso tempo a tema lo spazio pubblico e la sua accessibilità o impenetrabilità a corpi non normati, il suo essere espressione o negazione di un diritto diffuso alla città, il suo rapporto con il privilegio e le nuove forme di precarietà.

Per il tipo di sguardo che ci contraddistingue, vediamo oltre la straordinarietà della pestilenza e si tratta di tempi eccezionali anche per altri motivi: il cambio di paradigma che stanno affrontando le nostre società è evidente. Quotidianamente, vengono messi in discussione quelli che sono stati i cardini dell’ordine sociale, politico e economico: viene messa in discussione la bianchezza, il maschile tossico, il capitalismo, i resti dei (ne)fasti coloniali. Noi siamo interessate a indagare che cosa comporterà questo cambiamento per lo spazio pubblico: una volta che avremo finito il sacrosanto esercizio di abbattere statue di suprematisti bianchi, dovremo anche erigerne di nuove. Va anche in questo senso la ricerca che vogliamo stimolare: verso i nuovi simboli, le nuove estetiche e i nuovi patti che vorremo celebrare nello spazio pubblico delle città”.

 


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