“Il giornalista è colui che vive attorno al rumore del mondo”.
È con questa considerazione che lunedì 6 maggio il giornalista Domenico Quirico apre il suo intervento a Ombre dal fondo, conferenza istituita da DamsLab, laboratorio attivato e gestito dal Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. L’obiettivo è omaggiare il lavoro dello stesso e dialogare sulla sua esperienza come corrispondente. Durante l’incontro è stato proiettato il documentario di Paola Piacenza, il quale dà nome all’appuntamento, che ripercorre il rapporto di Quirico con il giornalismo e, in particolare, la sua esperienza in Siria.
Domenico Quirico è una figura che non ha sicuramente bisogno di presentazioni: giornalista di fama mondiale e corrispondente per La Stampa, è riconosciuto come uno dei volti maggiori su panorama nostrano di quel campo d’informazione che da sempre si cimenta nel narrare sul posto gli avvenimenti più forti che colpiscono il nostro pianeta.
Negli ultimi anni, tuttavia, la sua fama ha attratto l’attenzione anche per due dolorosi episodi che hanno colpito direttamente la sua carriera: il primo fu il suo rapimento di due giorni a Tripoli nell’agosto del 2011, quando fu sequestrato per mano di alcuni lealisti di Gheddafi, il secondo ricorse nel 2013, quando fu nuovamente preso in ostaggio in Siria.
Quest’ultimo avvenimento fu quello che attirò la maggiore risonanza: preso di mira da alcuni estremisti ceceni che lo trattennero per ben 150 giorni, Quirico fu prigioniero per cinque mesi fra le terre d’Homs e di Damasco.
Il lungometraggio di Piacenza, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016 e da tempo reperibile su mercato home video, trae base proprio da questo avvenimento per formare un terreno ricco di interviste al giornalista, a cui fanno seguito i viaggi verso le terre che un tempo furono la sua prigione.
Intersecando riprese delle zone di guerra a riflessive esternazioni nello studio della casa di Quirico, Piacenza, punta a dar luce non solo alle paure riguardanti il rivedere i luoghi che tanto lo fecero soffrire, ma anche a dischiudere quello che passarono i suoi cari al saperlo lontano, al sapere che l’uomo che amavano avrebbe potuto non tornare più da loro.
“Mi trovavo all’inferno, non quello con i diavoli con il forcone e le fiamme alla Bosch, ma nell’eternità che non finiva più“ dice Quirico mentre narra quel tempo interminabile passato all’interno della piccola stanza dove fu suo malgrado ospite.
Nel dinamismo del documentario, lo spettatore viene fatto partecipe dei svariati e lungimiranti pensieri del giornalista, fra cui l’espressione di quello che per lui è il mestiere del corrispondente di guerra: “un lunghissimo viaggio nel male”.
È sicuramente la parola “male” che più echeggia fra le sue riflessioni. Il fatto che il suo giornalismo sia come dice lui “la storia del dolore” è sintomo di quanto l’uomo e l’inviato siano estremamente legati e nella malinconia unificati. Lui, per quella che definisce come “un’obbligatorietà intellettuale”, si è sentito spinto a tornare fra le città desolate che un tempo lo trattennero, sentendosi dentro una necessità di non dimenticare quello che ha vissuto e di vedere al tempo stesso come la sua pelle potesse vibrare ad una così grande vicinanza ai luoghi del suo passato calvario.
Oltre il documentario, l’incontro, regolato tramite i microfoni dei professori Giacomo Manzoli e Riccardo Brizzi, si rivela un palco intimo in cui Quirico riesce a narrare ulteriori ed accorati pensieri. Lasciandosi andare ai ricordi più amari, ai frammenti di memoria che sono rimasti scolpiti in lui, Quirico esterna il suo dolore rimembrando la scomparsa di un vecchio conoscente, il quale, per accompagnarlo nelle zone di guerra, morì per mano di alcuni estremisti. Tutt’oggi il giornalista si sente colpevole di averlo portato con sé. “La mia vita è fatta del volto della gente che ho incontrato, e molte di queste persone ora sono già morte“ dice con voce rotta.
Il simposio si conclude con un’ultima forte esternazione del corrispondente. Guardando dritto il pubblico allo stesso modo in cui si può mirare nel documentario, proclama il sogno di un’informazione libera da firme, dove l’anonimato garantito dal giornalista sia un atto di manifesta ricerca della purezza del messaggio scritto, “lo stile solo renderà riconoscibili i diversi scrittori” afferma.
Un ulteriore balzo verso quello che Quirico ha più volte definito come il dovere del suo mestiere: il non tradire quello che si ha vissuto e le persone che si incontrano. Perché se per te è facile attraversare una linea gialla per rientrare nel tuo paese, prendere un’auto o un’aereo per lasciare quei luoghi, loro ci vivranno sempre.
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