Andrea Vanzo non è solo un compositore, pianista, produttore. È un ascoltatore profondo: della natura, dei silenzi, dei luoghi che custodiscono memoria.
È nato a Bologna, ma sono le colline di Sadurano e la quiete dell’Appennino ad aver scandito il ritmo della sua storia e del suo suono. Tra i più ascoltati al mondo sui social arrivando a milioni di follower e centinaia di milioni di ascolti mensili, con il suo pianoforte unico al mondo – che si trasporta a spalla – ha trasformato la musica in un gesto d’amore per il paesaggio suonando nei luoghi più incontaminati della terra: Wadi Rum in Giordania, il Parco dell’Etna, le dolomiti e molti altri.

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Ma è proprio un posto caro alla sua infanzia, la Chiusa di Casalecchio, il luogo in cui ha scelto di girare il suo nuovo reel, in vista dell’uscita di Intimacy vol. 2, che sarà disponibile online sui suoi canali social dal 10 ottobre. Poi Andrea partirà per un tour mondiale, che prenderà il via il 7 novembre con un concerto-evento proprio a Casalecchio, al teatro comunale Laura Betti.

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Il video è un omaggio al genio idraulico medievale bolognese, oggi patrimonio da tutelare e rappresenta un gesto d’amore per il territorio, la sua storia e la sua comunità. Ma non solo. La musica per Andrea, non è solo strumento di bellezza, è anche impegno civico, tanto che parte dell’incasso del concerto sarà devoluto ai Patti di Collaborazione del Comune di Casalecchio di Reno e al Consorzio dei Canali di Bologna.
L’abbiamo raggiunto per parlare di radici, ritorni, ascolto e appartenenza.
Andrea, sei nato a Bologna ma sei cresciuto a Sadurano, tra i boschi e le colline romagnole. Com’eri da bambino e quanto senti ancora quella terra dentro di te, ogni volta che componi o suoni?
L’esperienza di vita nel piccolo borgo all’interno del Parco Naturale del Contrafforte Pliocenico, nel comune di Pianoro in provincia di Bologna, è stata per me unica e formativa. Il borgo era abitato da circa otto persone, tra cui io e la mia famiglia. Essendo un parco naturale, eravamo immersi nella natura più selvaggia: lupi, daini e cinghiali ogni tanto entravano anche nel giardino di casa.
A volte trascorrevo molto tempo rannicchiato su uno degli alberi del giardino, ad ascoltare il vento e i rumori che provenivano dalla foresta. Quando si è piccoli si tende a mitizzare e a vedere anche qualcosa di soprannaturale in ciò che ti circonda. Quel luogo è stato la mia prima fonte di ispirazione nella musica. È da lì che nasce il mio legame con la natura.

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La natura ti accompagna, quasi come un’eco interiore. È più musa, rifugio o memoria?
Probabilmente tutte e tre le cose insieme. È musa, perché a volte mi basta camminare nel bosco davanti a casa o guardare l’orizzonte per sentire scattare la scintilla di passione che mi porta a scrivere un nuovo brano.
È rifugio, perché nella quiete che circonda la mia casa trovo spesso un riparo, anche solo nella contemplazione del vento o di altri fenomeni naturali. Ed è memoria, quando ripenso al mio vissuto a nell’oasi di Sadurano.

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Il tuo ultimo video è stato girato alla chiusa di Casalecchio. Cosa rappresenta questo luogo? Hai sentito il bisogno di tornare “a casa”, prima di ripartire per il tour mondiale?
Quando mi hanno parlato della chiusa e l’ho visitata, mi ha subito affascinato: un’opera d’ingegno medievale bolognese perfettamente integrata con la natura e il fiume. Ho pensato che girare lì uno dei miei video reel sarebbe stato un bell’omaggio alla mia terra.
Il tuo pianoforte è un oggetto quasi simbolico: artigianale, trasportabile, a contatto con la terra. Come nasce questo progetto così umano e radicale?
È nato da un sogno che avevo fin da bambino: portare il pianoforte in montagna, nei luoghi dove sono cresciuto e dove mi sento più me stesso. Mio padre è originario dello Sciliar, e per anni ho desiderato suonare proprio lì, in cima. Così, insieme a lui e al falegname Massimo Russo, abbiamo costruito questo strumento ibrido, acustico ed elettronico, smontabile e trasportabile a spalla.
L’idea era che potesse essere parte del paesaggio, non un elemento invasivo. Niente elicotteri, niente impatto ambientale. Solo fatica vera e rispetto per la natura. È diventato un simbolo, ma per me resta un mezzo per portare la musica nei luoghi che amo.

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Portare la musica nei luoghi naturali e inaccessibili è anche un gesto politico? Cosa provi? C’è ancora un luogo che sogni di raggiungere?
Non lo definirei politico, ma sicuramente è un gesto di responsabilità. Viviamo in un tempo in cui tutto è veloce e rumoroso; io cerco di restituire silenzio e attenzione, due cose che abbiamo dimenticato. Portare la musica in cima a una montagna o in un deserto significa dire che la bellezza può essere sostenibile.
Ogni volta che realizzo questi video sento qualcosa che va oltre la musica, come se fosse un dialogo tra me e il luogo. È un gesto semplice, ma profondo. Il sogno? Continuare a girare altri video in altri luoghi incredibili nel mondo. Ne ho già in mente qualcuno, ma non mi va di spoilerare.
Intimacy è il titolo dei tuoi dischi, ma anche il tono che scegli nel tuo modo di stare al mondo. Cosa significa secondo te essere intimi in un’epoca iper-esposta?
Essere intimi oggi significa avere il coraggio di mostrarsi per quello che si è, senza filtri. “Intimacy” è nato proprio da questo bisogno: suonare nel mio rifugio nell’appennino e condividere le mie emozioni, i miei ricordi, i miei affetti, una parte della mia anima. Quando ho iniziato a pubblicare i miei video non pensavo al successo; volevo solo condividere la mia arte alle persone. Forse ha funzionato perché era autentico.

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Hai scritto anche musiche per il cinema. Matilda De Angelis ti chiamò per un brano di Tutto può succedere, la fiction della Rai. Come l’hai conosciuta?
Io e Matilda siamo amici d’infanzia. Lavorammo insieme al suo brano Take Me Home, che fu utilizzato nella serie Tutto può succedere, e in un secondo momento la coinvolsi nella scrittura del singolo Mercy, tratto dal mio primo EP Frames. È un bellissimo ricordo, fatto di spontaneità e stima reciproca.
Hai parlato a TEDx della musica come ponte tra natura e umanità: oggi, più che mai, di quale “connessione” abbiamo bisogno? E quando, secondo te, si è davvero liberi?
Credo che la connessione di cui abbiamo più bisogno sia con noi stessi. Abbiamo smesso di ascoltarci, e la natura può aiutarci a ritrovare quel silenzio interiore che serve per capire cosa conta davvero.
Essere liberi non significa fare tutto ciò che si vuole, ma sentire di appartenere a qualcosa di più grande, qualcosa che ti dà la possibilità di esprimerti e di essere ciò che senti. Io lo faccio attraverso la musica.

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