Cosa significa avere tra i 20 e i 30 anni oggi?
È questa la domanda che fa da motore al Festival 20 30, un festival teatrale nato nel novembre 2014 a Bologna con la direzione artistica di Nicola Borghesi e del gruppo Kepler-452, formato da Nicola, Paola Aiello e Enrico Baraldi, mossi dal chiaro duplice intento di portare a teatro un pubblico poco abituato, realizzando eventi ad hoc, e portare in scena biografie e storie di gente comune e non professionisti.
Seguendo il filo di un tema diverso di anno in anno, il festival permette a cinque giovani compagnie teatrali di dare vita a cinque spettacoli, dopo un laboratorio di quattro giorni durante il quale un gruppo di giovani (tra i 20 e i 30 anni, per l’appunto) si racconta, finendo con una prova aperta che va in scena a margine dello spettacolo.
Nell’edizione del 2015, dal festival è anche nato il gruppo Avanguardie 20 30, una legione di giovani sotto i 30 anni che da allora affianca Kepler-452 nell’organizzazione e nella direzione artistica. Dal 2017, in collaborazione con l’Associazione Xi, le Avanguardie hanno dato vita a loro volta a Exit, progetto off del festival che quest’anno si tiene tra il 2 e il 16 novembre (va ne abbiamo parlato qui).
In conclusione del festival, come in ogni edizione, il teatro lascia spazio alla musica e sul palco sale un artista della scena musicale emergente contemporanea. A fare da sfondo alle performance e a ospitare gli eventi, anche quest’anno ci pensa l’Arena del Sole e il LabOratorio San Filippo Neri.
“Tutto scandalosamente gratis”, per dirla con le parole di Kepler-452.
Abbiamo incontrato Enrico Baraldi, direttore artistico dell’edizione 2019 che si terrà dal 17 novembre al 1 dicembre, qui il programma completo.
Quest’anno il tema è “inevitabile”. Cosa pensi sia inevitabile oggi, soprattutto per un giovane che non ha ancora raggiunto i 30 anni? Ma soprattutto, cosa significa e cosa comporta avere 30 anni oggi?
“Abbiamo incontrato la parola ‘Inevitabile’ durante uno dei lunghissimi brainstorming con il gruppo Avanguardie, ascoltando una canzone dei Baustelle (Il capitalismo ha i giorni contati). L’impressione che ci accompagna da diversi anni, riflettendo sul mondo che ci circonda, è che ‘la fine, va da se, è inevitabile‘, che, guardandoci attorno, i segni di una imminente catastrofe sono difficili da rimuovere dall’orizzonte.
Da tempo consideriamo il teatro come uno strumento per immaginare alternative possibili al sistema in cui viviamo. Inevitabile forse oggi è prendere una posizione, accettare che il modello tardo capitalistico in cui ci ritroviamo non è più sostenibile. Non soltanto guardando a grandi battaglie come possono essere il clima o l’economia, ma rendendoci conto che il nostro quotidiano è spinto a un livello di alienazione e rimozione che intacca profondamente le nostre identità.
Avere trent’anni oggi, più che in passato, significa confrontarsi con la difficoltà nel darsi una identità: non siamo adulti ma non siamo neanche più ragazzi”.
Qual è l’essenza di un festival come il Festival 20 30?
“L’idea di base è molto semplice. Il teatro è percepito dalla nostra generazione come un luogo polveroso che ha ben poco a che fare con il nostro modo di stare assieme, per lo più noioso. Il nostro festival cerca di raccontarti che l’esperienza del teatro può essere molto diversa da come ce l’hanno fatta vivere i nostri insegnanti del liceo che ci hanno portato a vedere Pirandello in costume.
Per farlo cerchiamo di non modificare la nostra identità, di non essere diversi da come siamo quando ad esempio andiamo al bar o a un concerto, solo perché ci troviamo in una sala teatrale coi velluti rossi. Quello che ci caratterizza è il tentativo di portare la nostra identità (anche quella di giovani rumorosi, scappati di casa, con le birrette prese dal paki) in un contenitore dove abitualmente ci si aspetta di trovare ben altro”.
Sei dentro all’organizzazione sin dalla sua nascita e oggi sei il direttore artistico della nuova edizione. Cos’è cambiato dalla prima edizione? E quale pensi sia la cosa più importante che hai imparato dentro al festival?
“Sicuramente negli anni è cresciuta la rete di collaborazioni attorno al festival. Dal gruppo di ragazzi che scelgono gli spettacoli insieme a me (Avanguardie 20 30), i quali hanno dato vita al progetto Exit che apre un focus inedito su artisti nel campo della performance e delle arti visive portandoli in luoghi inusuali come gli appartamenti dei fuori sede o nei negozi di alimentari, alla collaborazione con Narrando Bo.
Inoltre la mia presenza come direttore artistico da tre anni ha chiaramente portato una sensibilità teatrale leggermente diversa da quella di Nicola, in generale stiamo provando a portare alcune scelte più coraggiose, anche perché dopo sei anni è bello potersi permettere un po’ di esperimenti. Ad esempio quest’anno per la prima volta porteremo uno spettacolo di danza dal titolo ‘Questo lavoro sull’arancia‘ di Marco Chenevier, e uno spettacolo impostato su un linguaggio post drammatico e performativo come ‘L’amore ist nicht un chose for everybody‘ di Collettivo Treppenwitz.
La cosa più importante che imparo ogni anno e che ogni anno continua a stupirmi è il seguente fatto: che se ti sbatti per fare una cosa, anche quando sembra assurdo o improbabile, alla fine qualcosa succede”.
La gente, e i giovani nello specifico, vanno sempre meno a teatro e in generale lo frequentano poco. Voi di Kepler-452 andate controcorrente e li mettete sul palco proprio al centro della scena. Esperimento riuscito?
“Non so se sia del tutto riuscito ma noi ci siamo sicuramente divertiti. È chiaro che quando porti sul palco un gruppo di ragazzi e ti ritrovi la sala piena dei loro amici, e degli amici degli amici che non sapevano neanche bene cosa stavano per vedere, beh allora ti diverti parecchio.
Poi quando ci è capitato di fare il nostro primo spettacolo con una produzione importante, ‘Il giardino dei Ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso‘ (prodotto da Ert), abbiamo portato in scena due signori di sessant’anni che erano appena stati sgomberati dalla casa in cui vivevano. Ma questa è un’altra storia”.
In un periodo come quello attuale, pensi che un tipo di teatro come quello che porta avanti il Festival 20 30 possa cambiare in qualche modo attori e spettatori?
“Questa è una domanda a cui mi piacerebbe poter rispondere tra dieci anni, per vedere se, quando saremo adulti (si spera), tutto questo avrà lasciato un segno di qualche tipo. Per il momento io trovo un senso molto forte nel fare comunità attorno a una esperienza che personalmente mi stimola molto, sia emotivamente che intellettualmente.
Ogni anno passano attraverso i laboratori un centinaio di ragazzi, e come spettatori circa un migliaio. Se dovessi dire chi è il mio pubblico, direi ognuno di loro: questo mi ha aiutato tanto come artista. Sapere a chi stai parlando è fondamentale per capire come esprimerti”.
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