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“Figli delle Stelle”. La selezione al Kinki: un rito che ha fatto la storia del club

31-10-2025

Di Micaela Zanni

Non dormivamo mai. Eravamo sempre in giro, assetati di vita e affamati di scoperte. Come potevamo dormire, del resto? Ovunque ti giravi cerano cose da fare, situazioni da vivere, persone da incontrare. Cera una Bologna che non voleva – e forse non poteva – stare ferma.

La rubrica “Figli delle stelle” nasce da lì. Dalla voglia di raccontare a chi non cera cosa significava vivere in questa città tra gli anni Ottanta e i primi Duemila. È un viaggio nella Bologna che ho vissuto da dentro, come testimone privilegiata della sua scena notturna, culturale e musicale grazie al Kinki, uno dei club più iconici della città. Il mio club. Un posto che era molto più di una semplice discoteca: era un osservatorio, un laboratorio, un microcosmo.

In molti si sono chiesti: riusciremo ad entrare o dovremo ripiegare su altro? Inventarci un’altra serata?
Ogni sabato sera, in via Zamboni 1, a pochi metri dalle Due Torri, la scena si ripeteva identica. Un muro ordinato di persone aspettava l’apertura del Kinki. Ma quello che colpiva non era tanto la folla in sé: era la folla in carne e ossa.

Era uno spettacolo nello spettacolo: uomini e donne di ogni tipo, forma e colore, vestiti in modo variopinto e originale. Tacchi vertiginosi, paillettes, corpetti, animali indossati come accessori, parrucche, orecchini vistosi si mescolavano a look minimal, completi maschili portati da donne, e donne strepitose accanto a uomini altrettanto strepitosi. L’insolita rappresentazione cominciava ben prima di scendere le scale del locale. La strada era aperta al traffico e così si formavano due muri umani: da una parte la fila per l’ingresso, dall’altra chi si fermava sul marciapiede opposto solo per ammirare la parata. Sembrava di essere allo Studio 54 di New York.

Dal 1975, anno della sua apertura come primo locale gay d’Italia, il Kinki ha fatto della selezione all’ingresso la sua firma inconfondibile. E se nei primi anni avere come pubblico una nicchia, ristretta e esclusivamente gay è stata una condizione naturale, dalla metà degli anni ’80, quando il club è diventato un riferimento nazionale per la sua avanguardia musicale e la sua estetica radicale, la selezione è diventata severa, intenzionale, e per alcuni addirittura spietata.

Capitava spesso che gruppi arrivati da lontano venissero divisi senza pietà: a qualcuno veniva concesso l’accesso, ad altri no. E chi veniva ammesso, dopo un saluto agli amici e certo che si sarebbero rivisti solo a notte finita, scendeva la scala con un sorriso ed entrava senza guardarsi indietro. Nessun senso di colpa, solo la soddisfazione di far parte dell’élite del Kinki.

Per decenni quella porta è stata l’incubo e il sogno di migliaia di persone che partivano ogni weekend da ogni parte d’Italia — da Lecce ad Aosta — senza alcuna certezza di riuscire a entrare. Ma chi ce la faceva poteva vantarsene a lungo: era come aver ricevuto un riconoscimento.

Oggi, un meccanismo del genere sarebbe impensabile: verrebbe bollato come non inclusivo e politicamente scorretto, diventando facile bersaglio di critiche feroci. Oggi una come la Ferragni non avrebbe passato la selezione. I vip, anche quelli internazionali, pagavano il biglietto.

Eppure proprio quella selezione ha garantito al Kinki di diventare un luogo sicuro per categorie spesso marginalizzate. Nessuno dei respinti faceva troppo clamore: certo, c’era chi ci restava male, ma in generale si accettava la regola del gioco. Tra quelli che invece si riconoscevano già in fila, scattava subito un’intesa, un linguaggio non scritto che era l’anima stessa del club.

In quella fila si creava un mondo a parte, capace di mescolare davvero le differenze: sesso, orientamento, status sociale, cultura, etnia in totale libertà. E, come abbiamo già detto, la selezione non risparmiava nessuno, nemmeno i vip.

Lo dimostrano due episodi rimasti memorabili con due vittime eccellenti: Mick Hucknall, il cantante dei Simply Red, che per due anni ha vissuto a Bologna, era un habitué del Kinki. Così come l’attore Rupert Everett, cliente fisso che quando veniva in Italia non mancava un sabato. Entrambi, dopo un periodo di assenza, provarono a ripresentarsi in due occasioni diverse: ma complici i cambiamenti fisici e qualche bicchiere di troppo, non vennero riconosciuti. Risultato? Respinti senza appello. Hucknall non è più tornato, Everett si è lamentato parecchio nei giorni seguenti con amici comuni come Eva Robin’s, ma anche lui non ha messo più piede al Kinki.

E se qualcuno si sta chiedendo quali siano stati i criteri della selezione, la risposta resta sfuggente: sicuramente il look era fondamentale, ma non necessariamente sopra le righe. Uno doveva colpire, farsi notare ma mantenendo sempre un approccio educato: niente urla o gesti plateali per attirare l’attenzione. Era questione di feeling, o forse di quell’innato principio di scarsità che rendeva l’ingresso così desiderabile.

Per rendere l’idea di chi frequentava il club, mi piace ricordare un aneddoto curioso: il Kinki apriva quattro sere a settimana, due dedicate a un pubblico più locale, due a uno più “di tendenza”. Il sabato era la serata clou e la fila si allungava per decine di metri. Ma spesso chi frequentava abitualmente saltava la selezione, entrando a tarda ora dopo altri locali. E così, scherzando, una cliente diceva di capire che serata fosse guardando le giacche in guardaroba: se vedeva pellicce, piume e paillettes era giovedì o sabato; se invece dominavano parka e cappotti tinta unita, si trattava delle serate più “fighette”. Così si preparava psicologicamente a cosa avrebbe trovato all’ interno.

Con il passare degli anni, la fila davanti al Kinki ha continuato a essere un rito collettivo, temuto e desiderato, accettato come parte del gioco. Poi, lentamente, la necessità della selezione è svanita Quelle stesse persone che il club aveva protetto e fatto emergere, nel frattempo avevano conquistato il proprio spazio nella società: non avevano più bisogno di un baluardo esclusivo per affermarsi.

E nel mio piccolo, io di questo vado fiera.

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