Un metro di distanza, i weekend in casa, la mascherina che, oltre a proteggerci, è diventata anche un accessorio da abbinare ai vestiti, le cene d’asporto, gli eventi in streaming. A un certo punto abbiamo iniziato a chiamarla “nuova normalità”.
Abbiamo voluto guardarla attraverso gli occhi di 5 fotografi e fotografe bolognesi che nell’ultimo anno sono rimasti in strada, tra le persone, nei luoghi orami vuoti, per fissare in uno scatto quello che tutti stiamo vivendo.
Hanno condiviso con noi le loro riflessioni e cinque fotografie, tra le più significative.
Margherita Caprilli
A casa mia siamo abituate che niente è normale. O comunque è sempre stata una parola vuota, e sono stata educata a non usarla. Poi chiaramente nessuna e nessuno si aspettava che questa “normalità pandemico contemporanea” – che dura ormai da più di un anno – si insinuasse così radicalmente nelle nostre vite da convincerci che ci dobbiamo “adattare” a ciò che stiamo vivendo. Ci sono e ci sono stati i momenti tragici e quelli di speranza, e tra uno slalom e l’altro per me ciò che si è normalizzato, se così vogliamo dire, è il Lavoro. E l’assenza dello stesso. E come tale assenza sta stravolgendo la vita di tutti e tutte nell’abitudinario.
Perché ordinare online è diventata la suddetta normalità, senza pensare a tutti e tutte i lavoratori che vengono governati e sfruttati dagli algoritmi delle grandi piattaforme che senza pietà in questo periodo storico – più che in ogni altro – si sono arricchiti sulle loro schiene. È suddetta normalità il lavoro delle e degli insegnanti, che devono scavare dentro se stessi per re-inventarsi e adattarsi a una struttura lavorativa che lega e stanca i più giovani. La didattica senza corpi e dei Meet. È suddetta normalità l’assenza dei concerti, dello svago, dell’andare al cinema e in teatro, della musica. Della cultura. L’assenza delle birre tra amici. L’assenza dell’incontrarsi e del corteggiamento. È suddetta normalità lo streaming.
Ecco forse normalità è anche Resistenza e ricordarsi di tutto ciò che già non andava prima della pandemia e di come possiamo lottare per far sì che qualcosa si muova e possa evolversi.
Margherita Caprilli è una fotografa documentarista di base a Bologna, tratta di tematiche culturali, sociali, politiche e ambientali. Nata nel Valdarno, tra Arezzo e Firenze, il 10 luglio 1989. Dopo la laurea triennale in antropologia visiva sul documentario di osservazione, ottiene la laurea magistrale in marketing culturale con tesi sperimentale sull’osservazione partecipante all’interno delle imprese culturali, entrambe presso l’Università di Bologna.
Max Cavallari
Ad un anno dalla pandemia faccio ancora fatica a parlare di “normalità” perché quello che vedo intorno a me preferisco chiamarlo “adeguamento”, temporaneo, provvisorio… un momento di stallo che è richiesto a tutti per tornare a quello che sì si può chiamare “normalità”. Poi se vogliamo parlare di come ci piacesse o meno quello che eravamo prima allora possiamo discuterne quanto si vuole ma non riesco proprio ad abituarmi all’idea che questa sia una “nuova normalità”.
Anche perché, diciamocela tutta, per come siamo messi adesso ci conviene veramente pensare che questo sia un periodo di transizione, sono bastati meno di 6 mesi da marzo 2020 per dimostrarci che non basta una pandemia mondiale per “essere migliori”, al contrario ho visto una pericolosa normalità infilarsi nella flebile speranza che un virus ci stava dando per restare uniti. Il nemico della settimana si aggiornava di continuo e continua a farlo: I runner, Gli Anziani, I giovani I Covidioti, I Simask, I Nomask, I vaccini, Il governo non ci aiuta, Il governo cambia, il governo è sempre lo stesso, Matteo Renzi. Insomma poco diverso dal 2019 dove: I migranti, L’ambiente, Greta Thunberg, Bibbiano, le Sardine, Il governo cade, il governo è sempre lo stesso, Matteo Renzi…
Cosa intendiamo per “nuova normalità?” Le mascherine? Il distanziamento sociale? Questi sono fattori di passaggio, dovremo piuttosto combattere per evitare che questa “nuova normalità” attecchisca troppo, soprattutto nei giovani, il virus passa o almeno si arriverà a un punto in cui ci si potrà convivere, un anno sociale strappato a un essere umano crea un vuoto pericolosamente incolmabile. Questa è la mia unica preoccupazione.
Max Cavallari è un fotografo documentarista che vive e lavora a Bologna. Collabora con l’agenzia Getty Images e per ANSA in Emilia Romagna. È focalizzato su tematiche sociali che mettono l’essere umano a confronto con ciò che gli sta intorno e con i suoi simili, tratta di immigrazione, tecnologia e ambiente. A marzo 2020 insieme ai colleghi Michele Lapini, Valerio Muscella, Giulia Ticozzi e Francesco Pistilli ha fondato il collettivo Arcipelago-19 che ha raccontato attraverso l’occhio e i pensieri di più di un centinaio di fotografi e fotografe, la pandemia a livello nazionale.
Michele Lapini
L’arrivo di una pandemia crea sempre caos, soprattutto se avviene attraverso la diffusione di un virus pressochè sconosciuto. Questo ha provocato il Covid-19, una serie di sentimenti contrastanti che ancora non trovano una sintesi. Tutto ad un tratto ci siamo ritrovati zona rossa, o meglio protetta. La frontiera si era spostata sulla porta di casa, era vietato uscire. Evitare qualsiasi tipo di contatto per cercare di arginare una pandemia che sembrava avesse oramai preso il controllo del centro-nord Italia. Inizialmente solo alcuni luoghi, poi tutto il paese.
Così è successo anche per le nostre vite, con le chiusure delle attività economiche con tempi e modalità differenti, così come le odierne riaperture. Ed ecco che ogni aspetto della nostra vita ha assunto un significato diverso, non per forza nuovo.
La normalità sarebbe andare a Teatro. Andarci senza mascherina e uno accanto all’altro.
Michele Lapini è un fotogiornalista freelance di base a Bologna. Il suo sguardo è caratterizzato da un profondo interesse per le questioni sociali, politiche e ambientali. Collabora dal 2015 con La Repubblica, sia con la redazione nazionale che con quella locale di Bologna, dove risiede. È editorial contributor per Getty Images e co-fondatore del collettivo Arcipelago-19. Le fotografie di Lapini sono state pubblicate da Internazionale, The Guardian, Stern, El Pais, Il Sole 24 Ore L’Espresso, Aftenposten e altri. Al lavoro di fotogiornalista affianca l’attività espositiva e collaborazioni in diversi settori: cinema, editoria e arte pubblica.
Rossella Santosuosso
Le riflessioni che questi tempi ci impongono sono tante, i cambiamenti che siamo stati costretti a fare ci hanno portato a mettere in discussione uno stile di vita che sembrava essere naturale ma, che visto da qui, a molti ormai appare ciò che più si allontana dalla spontaneità.
È stato il modo più brusco per risvegliarsi, ma forse l’unico possibile. Ci è stato imposto di ripensare alle nostre priorità, alla distribuzione della ricchezza in un mondo così diseguale, alle città così poco a misura d’uomo, alla disparità di genere. E su questa, in quanto donna, sento l’esigenza di soffermarmi: è triste constatare che come al solito il prezzo più alto sia pagato dalle donne. Sono loro che hanno perso principalmente il lavoro durante questa pandemia, lavoro già notoriamente pagato meno rispetto agli uomini con le stesse mansioni; sono loro che nella maggior parte dei casi si sono trovate in smartworking e allo stesso tempo a doversi occupare delle faccende domestiche, e una parte di loro, soprattutto durante il primo lockdown, in cui non si poteva lasciare l’abitazione, è rimasta bloccata in casa con con chi su di loro faceva violenza.
Ho usato Loro e non Noi solo perché in questo momento mi sento più fortunata di tante altre, perché ho avuto la possibilità di cambiare, di scegliere, di sbagliare magari, di inseguire un obiettivo senza dover chiedere il permesso a nessuno, e questa libertà non si tradurrà probabilmente in denaro, ma per quel che mi riguarda non ha prezzo! Spero solo che tutto quello su cui è stata fatta luce in questo lungo anno non ritorni in un cassetto chiuso come i balconi da cui cantavamo all’inizio.
Rossella Santosuosso è una fotografa freelance.
Alessandro Ruggeri
Dal 4 maggio 2020, fine del lockdown noi tutti abbiamo cercato di tornare alla normalità. C’è stato un momento all’inizio dell’estate in cui abbiamo pensato che finalmente l’emergenza fosse finita e avremmo visto la luce come lucciole che escono dal bosco. Invece la creazione delle delle zone colorate di fatto ha impedito che ci potessimo ricostruire anche mentalmente un idea di nuova normalità. Ogni passo fatto verso il ripristino delle vecchie abitudini si allontana a ogni passaggio di colore un passo in avanti e due indietro.
La normalità è un traguardo che si sposta sempre più in avanti. In questo periodo post lockdown ho visto un ribaltamento del mondo a cui ero abituato: strade frequentate da studenti, deserte, orchestre al posto del pubblico, cinema con un solo spettatore e tutto questo ancora prolungato per un tempo indefinibile. L’arrivo dei vaccini sicuramente riuscirà a farci raggiungere il traguardo del ritorno alle nostre abitudini relazionali abbattendo quelle distanze e barriere con cui abbiamo imparato a convivere.
Alessandro Ruggeri dopo essersi formato lavorando con fotografi pubblicitari e di architettura ho deciso di dedicarsi al fotogiornalismo. Come freelance ha pubblicato su diversi quotidiani nazionali La Repubblica, Corriere della Sera, Qn-Il Resto del Carlino, Il sole 24 ore e diversi settimanali tra cui Il Venerdì di Repubblica, Donna Moderna e Internazionale.
È davvero la normalità che rivuoi?
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