Fuori di Sella è un gioco di parole, è divertente, richiama l’idea di una corsa in bicicletta, l’aria fresca contro il viso e una sensazione di libertà. Fuori di Sella è un festival in cui sport e cultura non hanno più i confini netti che si attribuiscono a due mondi contrapposti e in cui pedalare per i diritti dà eco e risonanza a una fatica fisica e mentale personale che diventa benessere collettivo e perciò anche individuale.
Domenica 8 ottobre, dalle 10 alle 21:15 ai Giardini del Baraccano il festival inizia con le partenze dei due percorsi ciclistici, i laboratori e una tavola rotonda, inframmezzati da musica, documentari, reading, tappe enogastronomiche e un contest fotografico.
C’è tempo fino al 6 ottobre alle 13 per iscriversi sia al contest fotografico che alle bike 4 rights. Per maggiori informazioni qui.
Tra il ricordo delle staffette partigiane e un’Italia in cui in l’equità e il superamento del gender gap sono ancora un miraggio, considerazioni sul sistema neurofisiologico legato al gesto e la narrazione della bicicletta che si fa simbolo, metafora e prospettiva per temi culturali e sociali, si sviluppa questa chiacchierata notturna nelle vie del centro storico di Bologna, in sella alle nostre biciclette, tra me e Carlotta Viti dell’Associazione A Piedi Nudi, che è l’anima di questo festival insieme a Deka Riders Team – Bike, nonché la mia fisioterapista.
Come nasce l’idea di Fuori di Sella?
«L’idea di Fuori di Sella nasce dall’esigenza di occuparsi di cose importanti in modo leggero. La leggerezza non sta nel tema in sé ma nell’idea di poterne parlare a tante persone cercando di sensibilizzare chi è più lontano da queste idee. E per arrivare alle persone più lontane bisogna usare linguaggi molto differenti (musica, fotografia, arte ma anche la parola e lo sport).
Il connubio tra sport e cultura è nato in modo abbastanza spontaneo perché l’idea era quella di parlare di diritti a una popolazione più vasta possibile. Ma come nel mondo della ciclismo ci sono tante biciclette diverse e tanti ciclisti diversi che non si parlano pur avendo anche molti punti in comune così accade anche nella società, dove si è più focalizzati sulle differenze.
Questa ci è sembrata l’occasione per far vivere a una popolazione che non è solo quella dei ciclisti l’idea che le differenze individuali sono una ricchezza collettiva e non un punto di divisione. Siamo tutti diversi uno dall’altro ma tendiamo ad accettare spinte di omogeneizzazione pur di essere accettati dalla collettività invece che dare valore alle nostre peculiarità di genere e non solo. Con questo festival vogliamo parlare di diritti e dare voce a delle minoranze che non sono numeriche. Se pensiamo che le donne rappresentano il 51% della popolazione, non possiamo certo definirle una minoranza anche se cosi vengono narrate e percepite. Quindi quest’anno il tema è equità e gender gap ma ogni anno ci sarà un tema diverso».
Come si colloca la donna nella narrazione di questo festival?
«Viviamo in un mondo in cui il modello di dominanza si basa sulla sopraffazione del più forte sul più debole (se parliamo di donne diminuiscono gli omicidi ma aumentano i femminicidi, la violenza domestica e di gruppo, è strano no?!) È una sopraffazione dell’uomo sulla donna, ma anche degli eterosessuali sulla comunità LGBTQIA+ , del bianco sui non bianchi, del ricco sul povero, del sano sul disabile. C’è una continua sopraffazione che nella quotidianità si esprime come un gioco di potere.
C’è un’idea generalizzata della “perfezione” che schiaccia il resto della popolazione dando poco spazio alle differenze e soffocando ciò che non rientra in determinati parametri. Ma in molti non sono d’accordo con quest’idea».
Perché Fuori di Sella?
«All’inizio abbiamo pensato tante cose legate al concetto di libertà e cultura ad ampio raggio ma Fuori di Sella aveva la connotazione dell’essere fuori dagli schemi e lo dice con un gioco di parole. Inoltre l’associazione A piedi nudi che cura la parte culturale del festival ha come playoff sopra le righe e oltre gli schemi. Quindi c’è un reminder sia a questo concetto che all’elemento della bici».
Ma bisogna essere un pò matti per pedalare tanti chilometri per i diritti di tutti anche di quelli che questi diritti non li vogliono?
«In realtà il punto è proprio questo: una società civile non combatte solo per dei diritti che le appartengono e rappresentano un vantaggio diretto. Ma combatte anche per il vantaggio di altri. È importante che ci sia un equilibrio sociale. Il benessere altrui porta con sé anche il tuo. Solo che non tutti lo capiscono. Vivere in una società dove molte persone stanno male, anche se sei tra i fortunati, ti porta comunque a dover stare sempre sulla difensiva. Non puoi stare bene in una comunità dove tutti gli altri stanno male».
Quali sono le riflessioni sulla società che ti hanno portato a pensare che fosse importante fare questo festival e dare il vostro contributo?
«Io parto dal presupposto che in una collettività ognuno debba fare la propria parte. Non si può pensare solo in maniera autoreferenziale. È necessaria una visione più ampia. Alla ricerca di quell’equilibro sociale di cui parlavo prima.
Le differenze portano frustrazione, la frustrazione porta rabbia, la rabbia porta aggressività e con l’aggressività si creano forti squilibri e si finisce col farsi male.
Una comunità ha bisogno di andare oltre la propria prospettiva. Deve promuovere una visione che restituisca voce a chi non ce l’ha. Siano in questo momento i migranti o le donne vivono una condizione di svantaggio o la comunità LGBTQIA+. Nel mondo naturale le differenze ci sono ma sono la rappresentazione stessa della natura dove peraltro non esiste l’omologazione. L’omologazione è una forzatura. La natura è variabilità, è la differenza per eccellenza».
Questo festival offre intrattenimento, contenuti ludici e non solo, invita a riflettere su tematiche importanti e propone momenti di aggregazione. A chi è rivolto?
«Da un punto di vista ideale è rivolto a tutti. Per questo abbiamo scelto di usare linguaggi diversi che vanno dal bike 4 rights, pedala per i diritti, a una tavola rotonda che è sicuramente più di nicchia, passando per la proiezione di un documentario piuttosto che un contest fotografico che in fondo è una scusa per far giocare le persone e premiare chi riuscirà a esprimere meglio il tema dell’equità o del gender gap. Potranno scegliere liberamente come esprimerlo. Attraverso i laboratori, la fotografia, il reading di un libro, la musica, la proiezione di un documentario e un gesto ripetitivo come la pedalata tutti si possono ritrovare nell’idea di valore della differenza con sospensione del giudizio. Vogliamo che le persone sperimentino sul campo cosa sia la ricchezza della differenza».
L’8 ottobre si prospetta una giornata molto densa: 2 circuiti ciclistici con tappe enogastronomiche, 5 laboratori, una tavola rotonda, 22 contributi culturali, un reading, 3 proiezioni, un contest fotografico con premiazione poi musica, food&drink e anche un servizio di babysitting e nolo bike per chi avesse bisogno. Avete pensato proprio a tutto. Chi ha contribuito insieme a te alla realizzazione di questo evento?
«Ci tengo a dire che quest’evento evento è nato dalla testa di poche persone ma in tempi molto rapidi ha preso una forma e una complessità che è la rappresentazione stessa della complessità della società. Per questo abbiamo lasciato che crescesse e cambiasse grazie al contributo di tutti quelli che hanno partecipato. Per esempio le ventidue persone che fanno parte della tavola rotonda con Roberta Li Calzi e Maria Rosa Amorevole, rispettivamente l’assessora allo sport e la presidente di quartiere, che aprono la conferenza, hanno creato qualcosa che dall’essere un evento collaterale, è diventato un fulcro con uno spessore culturale che a volte quasi mi spaventa. Dallo sport ai diritti, dai gender all’ambiente, dall’urbanistica all’inquinamento per poi concludere con le STEM, l’arte la letteratura, questo festival vuole essere la libera espressione di ciascuno di noi. L’idea è proprio quella della diversità che si esprime nella poliedricità di tutte le forme. Non volevamo che questo progetto fosse contenuto dentro a confini che avevamo deciso noi ma che fosse invece partecipato e la partecipazione, come avviene nell’ordine delle cose, può cambiare il pensiero iniziale».
Cosa c’entra lo sport con la cultura?
«Per qualche motivo lo sport viene distinto dalla cultura ma in realtà lo sport è cultura. Ne è una delle tante espressioni e lo è su più livelli.
In primis è la cultura del corpo, non in termini estetici, ma riferito a quel contenitore che ci porta in giro dove c’è un cervello pensante e un’anima senziente. È quel mezzo che permette al corpo di esprimersi. Nel sistema neurofisiologico, la consapevolezza del gesto atletico trova la sua finezza nel controllo motorio esattamente come può essere il movimento di un musicista che suona uno strumento. Ma questo è il risultato di un lavoro e di una preparazione incredibili. Allo stesso modo lo sportivo prova e riprova fino a quando l’espressione della sua azione riproduce un risultato perfetto. Quindi da un punto di vista neurologico sono comparabili. Lo sport è una forma espressiva. Ma non la chiamiamo arte perché la chiamiamo sport.
Perché un’espressione di danza la consideriamo arte e un’espressione sportiva no? La matrice è la stessa quello che cambia è come lo interpretiamo noi.
Ma lo sport è cultura anche in quanto rappresenta un mezzo per fare cultura. Attraverso questa disciplina impari a fare coaching ed esperienza di squadra, e sviluppi delle soft skills che hanno a che fare col sacrificio, l’impegno, la tenacia per raggiungere un obiettivo. Impari a coltivare le relazioni all’interno di un contesto lavorativo. Quando hai un obiettivo e non sai se ce la farai, nel momento in cui scopri di potercela fare, hai alterato il tuo stato mentale perché hai preso coscienza di un potenziale che non sapevi di avere. Questo è empowerment.
La grande differenza tra uomini e donne sta proprio qui. Storicamente gli uomini facevano sport mentre le donne non potevano. Per questo non sono abituate a fare squadra. Da qui nasce la narrazione che le donne sono competitive tra di loro. Non c’è mai stata un’educazione collettiva che le donne si sono tramandate di generazione in generazione. Tu non puoi essere quello che non puoi pensare.
Nel momento in cui la collettività ti insegna che geneticamente sei portata a fare determinate scelte e non altre, nascono le predisposizioni come i lavori da maschio e da femmina. Si pensa che le donne non siano portate per la matematica, e questo è un tema che verrà sviluppato all’interno della tavola rotonda, in cui si parlerà anche delle STEM. Un tempo se una donna riusciva a diventare un ingegnere o una scienziata era considerata un’eccezione, una fuori dalla norma».
Se proponi di pedalare per i diritti immagino che tutti devono poter accedere ai percorsi. Vuoi dirmi come sono strutturati i due circuiti bike?
«Sono due i percorsi a cui possono partecipare tutti, in primis in termini economici, perché il contributo è simbolico: 25 euro per il circuito urbano e 30 per quello collinare che servono per coprire solo in parte le spese. Per abbassare il gender gap abbiamo pensato di dare gratuitamente il servizio di babysitting. Un altro aspetto ha a che fare con la difficoltà in termini di allenamento. Abbiamo pensato a due percorsi: uno più facile e uno più difficile, uno è in piano e l’altro è con dislivello, uno è di 37 km, l’altro è di 56 km, uno segue il percorso delle acque nel centro di Bologna e l’altro è un percorso collinare. Entrambi sono riducibili di alcuni km in caso di stanchezza. Chi non ha il mezzo lo può noleggiare. E per la pista urbana abbiamo messo una variante che permette alle famiglie, alle cargo e alle handbike per i diversamente abili di accedere perché le nostre ciclabili purtroppo hanno gradini, fittoni e barriere architettoniche che non consentono a chiunque di percorrerla in tutti i suoi punti. Abbiamo cercato un percorso che risultasse il più condiviso possibile ma che allo stesso tempo non tagliasse fuori nessuno».
Avete messo insieme un dibattito che da un lato tratta i temi di equità e gender gap, quel divario tra uomini e donne che impatta la vita quotidiana, il lavoro, la salute, l’educazione e lo sport mentre dall’altro c’è il ciclismo che è uno sport tipicamente maschile. Mi spieghi il perché di questa antitesi?
«In realtà la scelta non è stata rispetto al ciclismo come sport ma rispetto alla bicicletta come mezzo.La bici ha una componente intrinseca di equilibro. La bici è equilibrio. Se non hai equilibrio, sulla bicicletta non ci stai. Il secondo aspetto è che è equa. Che tu possieda una bici da 50000 euro o da 5, al Suv che ti investirà non gliene frega niente. In strada tu sei equamente fragile.
E poi la bici ha molto a che fare con la storia del nostro Paese. Storicamente è stato un mezzo molto utilizzato dalle donne. Nonostante nello sport la usino principalmente gli uomini, la bicicletta è donna. Se pensiamo che nella seconda guerra mondiale erano le partigiane che portavano i messaggi da un punto all’altro in bici magari con un bambino seduto dietro per dare meno nell’occhio, capiamo che le staffette hanno avuto un ruolo fondamentale nella guerra. Ma nessuno ne parla perché la storia la narrano i forti e qui il forte è l’uomo. La narrazione della guerra è una narrazione maschile. Le donne però hanno giocato un ruolo fondamentale e lo hanno fatto con una bicicletta.
Democratica per eccellenza tra tutti i mezzi perché è quello che costa meno e ti permette di andare più veloce rispetto al camminare, le due ruote se la possono permettere quasi tutti. Ti permette di accorciare i tempi e di non raggiungere mai quella velocità che ti fa perdere il dettaglio. Sei sempre presente a te stesso e al contesto, quindi anche in questo è equilibrata . È il mezzo che meglio rappresenta quell’equilibrio che ha a che fare con l’equità».
È il primo evento che organizzi? Sei una fisioterapista che, insieme ad altre persone, ha organizzato un festival che ha tre anime: sportiva, ludica e culturale. Qual è stata la sfida più grande che hai dovuto affrontare?
«Non è la prima volta che organizzo degli eventi. Per anni all’interno del Centro Universitario Sportivo bolognese ho dato il mio contributo nell’organizzazione del torneo di ultimate frisbee internazionale. Partecipavano fino a cinquanta squadre con 15/20 giocatori e per tre giorni bisognava accoglierli, fare lo schedule, organizzare le partite, farli dormire e mangiare. Ma non ho mai organizzato un evento di questo tipo. L’ostacolo più grosso? La burocrazia».
Chiudiamo con una citazione. In un’intervista Noam Chomsky parla della teoria della costruzione del consenso, riferendosi alla società americana, e dice: «per proprio interesse si costruisce consenso così la popolazione sarà passiva e obbediente e riconoscerà il proprio ruolo. In una società democratica è quello di spettatori non di partecipanti. Ogni due anni vanno a premere il bottone (votare) per scegliere una persona e poi tornano alla passività». Siamo anche noi così?
«In un certo senso sì. Nel senso che la democrazia porta intrinsecamente dei limiti e dei vantaggi. Io sono una sostenitrice della democrazia pur consapevole dei suoi limiti. Però credo che ad oggi sia forse la forma più equilibrata che l’uomo ha trovato. Poi magari troveremo altre soluzioni migliori che al momento non riusciamo neanche ad immaginare».
Ma l’America non è forse la più grande democrazia del pianeta?
«Ci dobbiamo chiarire su cosa sia una democrazia. È una forma di organizzazione di una società molto complessa che presuppone una grande maturità che forse noi ancora non abbiamo. Quando una democrazia si posiziona sopra altre culture e si arroga il diritto di determinare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato tocca i propri limiti. È un discorso molto complesso. Non ci si può imporre sopra altre culture senza neanche il presupposto di contestualizzarle storicamente e antropologicamente.
Io credo che la democrazia, nella sua espressione più nobile, sia una democrazia partecipata. Non spegne le opinioni né appiattisce le diversità. È chiaro che più si riescono a omogeneizzare, più è facile gestire le masse. Ma questa è stata anche la matrice che ha permesso alle grandi dittature di attecchire. Quando la democrazia si comporta come una dittatura è una democrazia che sta fallendo. La democrazia può esser chiamata tale quando permette la convivenza delle differenze e non cerca invece di silenziarne le voci».
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