A volte ritornano, si direbbe in questi casi.
E infatti ecco che Gaudenzio Schillaci, giovane autore siciliano ma bolognese d’adozione, ritorna a poco più di un anno di distanza con un secondo romanzo, Frasi sporche da insegnare ai pappagallini, pubblicato da Alter Erebus.
Lo avevamo già conosciuto sia durante il primo lockdown, quando ci ha mandato una lettera dedicata a Bologna, sia in occasione dell’uscita del suo primo noir, ambientato tra Catania e Bologna, La felicità si racconta sempre male edito da Dialoghi Edizioni.
Ed è ancora Bologna l’ambientazione prediletta dal nostro per questo romanzo, stavolta unica città protagonista. Di nuovo un noir e di nuovo una storia d’amore, seppur “disfunzionale” tra Vinicio, un professore cinquantenne e un’alunna adolescente, Sveva, della quale cui presto si perdono le tracce. In una città assolata e rumorosa, si dipana una storia raccontata in prima persona, che porterà a una verità brutale.
In vista della prima presentazione del libro il 18 novembre alle ore 19 a Gallery16, ho raggiunto l’autore in un bar del centro per una chiacchierata sul libro e non solo.
Dopo il primo romanzo torni sul luogo e nella città del delitto, Bologna. Come mai di nuovo qui?
«Perché chi scrive deve essere sempre pronto a portare cattive notizie. E no, la situazione non è buona. Nel primo romanzo, La felicità si racconta sempre male, Bologna appariva come la possibilità di un purgatorio per il protagonista; qui, complice anche la pandemia che ancora oggi viviamo, la città è un’altra cosa, un diorama dove sembra che il prima sia lontanissimo e il poi non arrivare mai. Se nella mia prima avventura editoriale allora la città compariva come miraggio, qui esiste spogliata di speranze, vana, vuota, una scenografia per pessimi attori e poco più».
Hai scelto un titolo lungo e iconico.
«Ho scelto un titolo che mi piaceva, che punta a confondere il lettore, a prenderlo in giro. Chi si aspetterebbe mai un torbido noir con un titolo del genere? Inoltre, è una citazione di Nino Frassica che per me, siciliano degli anni ’90 cresciuto a pane e televisione come la maggior parte dei miei coetanei, è quasi una figura paterna».
Stavolta la storia si svolge solo a Bologna e non in due città diverse come in quella del primo romanzo. Perché questa scelta?
«Quando inizio un nuovo romanzo, parto sempre dal personaggio protagonista. Ne abbozzo il carattere, i movimenti, le nevrosi, le paure. Metto a fuoco quello che quel personaggio testimonia. Solo successivamente mi preoccupo della trama e dell’ambientazione, che vengono cucite addosso al protagonista. Vinicio è un uomo che racconta la morte dell’amore, ne diventa testimone, è esso stesso attivamente complice dell’impossibilità di amare perché tutto invecchia e marcisce, e sarebbe bello poter credere che qualcosa sopravviverà ma quello che resta sono solo oggetti, palazzi, cemento.
L’amore non resta più, come nella società contemporanea non è rimasto più Dio. Sono morti entrambi. Bologna è una città in decadenza, un luna park per studenti fatto a loro immagine e somiglianza. I centri di potere sono da altre parti, i soldi pure e persino il monopolio della cultura ha trovato altre strade. Restano la magniloquenza, una storia che si allontana ma ancora da incensare, camere in affitto a prezzi esorbitanti e i pub del centro dove servire ai tavoli, ma la città è malata e non sembra che qualcuno abbia trovato una medicina. Quale scenario migliore per raccontare la storia di un uomo che non smette mai di cadere?».
Nel tuo primo libro la trama era imperniata su una storia d’amore così come nel secondo, per quanto quest’ultima sia disfunzionale. Differenze e analogie tra le due?
«In La felicità si racconta sempre male l’amore è immaginato, non esiste davvero, è l’ultima speranza rimasta al protagonista, il Commissario Bovio, per salvarsi da sé stesso. In questo, invece, la relazione in cui è invischiato Vinicio è solo carne che batte contro altra carne, contro carne più fresca della sua, più appetitosa. Vinicio non ha paura di morire senza amore, ne ha già constatato il decesso: ha solo paura del tempo. La bellezza del corpo giovanissimo di Sveva su cui poggia le labbra è solo un tentativo per fregare la vecchiaia».
Il protagonista ha un’età diversa dalla tua, è più adulto, ma narri comunque in prima persona. Com’è stato calarsi nei panni di un cinquantenne?
«Non credo che la questione sia anagrafica, piuttosto emotiva. Vinicio è un cinquantenne arrabbiato, ma di una rabbia silenziosa, calma, muta. Sembra annichilito, assuefatto al niente, e invece cerca un modo per sentirsi vivo ancora. Non ho avuto grandi difficoltà a entrare nella sua forma mentis. Negli ultimi trentun’anni ho riposato spesso in pace perché ho vissuto sempre in guerra, e questo è probabilmente l’unico aspetto in cui siamo particolarmente simili».
Immagino che nella storia ci sia un personaggio a cui sei più “affezionato”.
«Franco Quattrocazzi, senza dubbio. Che tra l’altro, come dichiaro nei ringraziamenti, è un prestito, un nome e un’idea di personaggio che mi è stato affettuosamente donato dai Tiger Fregna, un gruppo pornorap romano di cui sono fan e che sono diventati amici. Il Quattrocazzi è certamente il personaggio a cui sono più affezionato nella storia, perché è il contenitore di tanti e tanti altri personaggi che ho visto e vissuto. Un popolare, nell’accezione di membro del popolo, espressione del popolo. Un criminale, si, certo, ma uno di quelli che avrebbe funzionato come spalla di Tomas Milian in qualche film sull’Ispettore Giraldi».
Questo è un romanzo dalla forma diversa. Tra questo e il precedente hai subìto nuove influenze o i tuoi punti di riferimento sono sempre gli stessi?
«Chi scrive non può mai tenere sempre gli stessi punti di riferimento. Scrivere è aprire squarci, e per capire come aprirli devi sempre guardare dentro gli squarci fatti da altri. L’arte si ruba con gli occhi, prima che con le mani. E a me piace rubare a quanta più gente possibile, non sempre agli stessi».
Ormai vivi a Bologna da abbastanza tempo per averla assorbita. L’ambiente ti continua a dare stimoli e spunti per progetti futuri?
«Come dicevo, credo che la città stia andando incontro a una mutazione, è sempre meno simpatica, sempre più indisponente. Si tratta di una società che si sta arrendendo. Si adatta benissimo ai miei romanzi, insomma».
Cosa possiamo aspettarci nel tuo futuro, allora?
«Questo romanzo è uscito da poco e voglio portarlo un po’ in giro, farlo conoscere. Credo sia pieno di domande e voglio capire se qualche lettore riuscirà a trovarci anche delle risposte. Poi, nei prossimi mesi parteciperò a delle antologie con alcuni racconti (uno di questi è già uscito in libreria, nell’antologia “Odio e amore in Noir” della Fratelli Frilli Editore).
Infine, con i miei sodali del Collettivo SiciliaNiura, stiamo lavorando (come sempre con Algra Editore) alla prossima uscita della collana editoriale SiciliaNiura, alla promozione del romanzo di Alberto Minnella, Più nero della notte, uscito lo stesso giorno del mio, e alle prossime pubblicazioni di Sebastiano Ambra e Rosario Russo. Insomma, nonostante il pessimismo della ragione sia molto più forte in me rispetto all’ottimismo della volontà, ci provo lo stesso a restare vivo».
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