Musica & Libri

La felicità si racconta sempre male

08-10-2020

Di Salvo Bruno

Trent’anni compiuti da poco, un accento siciliano non troppo celato, uno stile urban “darkeggiante” e al suo primo romanzo noir: Gaudenzio Schillaci è l’autore de La felicità si racconta sempre male, edito il 12 febbraio 2020 da Dialoghi editore.

Ambientato tra Catania e Bologna, la storia si apre con il ritrovamento in un vicolo del cadavere di Gerri Santiloro, crivellato da tredici proiettili e accompagnato da una lettera d’addio. Attorno alla vicenda orbitano l’ispettore Bonanno e il commissario Bovio, che cercano di ricostruire le ultime ore in vita della vittima anche grazie all’aiuto di Cristina Selleri, innamorata della vittima e cameriera di un locale spesso frequentato da Santiloro. Una donna affascinante dalla quale non può non essere stregato anche il commissario Bovio, uomo dai sentimenti un po’ sopiti.

Nel suo primo romanzo, l’autore Gaudenzio Schillaci ha riversato tutto il suo mondo e il suo modo di vederlo, la sua cultura musicale e le sue influenze letterarie. Ma anche tanto delle città in cui si svolge il romanzo, Catania e Bologna, l’una città di nascita e l’altra d’adozione, in un amalgama unico di impressioni, sensazioni ed esperienze da lui stesso vissute, riadattate e intessute nella trama.

Dopo aver ricevuto la sua lettera d’amore durante il lockdown, abbiamo raggiunto Gaudenzio al telefono, in aeroporto a Bologna di ritorno nella sua Catania, in una lunga chiacchierata sul romanzo e non solo.

Gaudenzio Schillaci

Partiamo dal titolo del romanzo. Credi ci sia una difficoltà e un’impossibilità di fondo a dirsi ed essere felici?

“Essendo stato (ormai anni fa, ahimé) intimamente e profondamente influenzato dalle teorie di Guy Debord sono convinto che, nella società contemporanea, l’idea di una felicità eventuale e possibile sia diventata una merce da vendere alle masse come tante altre.

Le difficoltà nell’essere felici stanno proprio in questa contraddizione di fondo: siamo costretti a fare i conti con un modello di felicità perpetua che ci viene inculcato da immagini sempre più martellanti quando invece dovremmo prendere coscienza che una felicità reale, come qualsiasi altro stato d’animo, ha un suo inizio e una fine, a volte persino di breve durata, e ha una sua singolarità specifica.

Ad oggi, a giudicare da quello che ci dicono i mass media pare che la più grande felicità a cui possiamo aspirare sia non trovare fila da Zara durante il periodo dei saldi: è davvero questa la felicità di cui abbiamo bisogno? Credo che invece necessiteremmo di qualcosa di più complesso, più articolato, ma essendo stati allevati con l’idea che la felicità sta nelle cose semplici siamo, molto brevemente, inadeguati a raggiungerla. Non penso che la felicità sia semplice, credo sia esattamente il contrario, e questo rende pressoché impossibile dirsi felici. A meno che non si vogliano prendere per buone certe semplificazioni di albaniana memoria, il bicchiere di vino con il panino etc., certo”.

 

Il libro si apre a Catania, tua città natale e si chiude a Bologna, città d’adozione, dove vivi adesso. Due luoghi diversissimi per geografia, per profilo urbano e per stile di vita. Esiste qualcosa che lega le due città?

“La giovinezza, e tutte le complicazioni che si porta appresso. I giovani pensano rapidi e agiscono molto, e spesso sbagliano ma lo fanno con entusiasmo. Trovo che siano due città con molto entusiasmo, che è il tratto che le accomuna. Poi, bisognerebbe capire se l’entusiasmo è una cosa buona o negativa, per una città: personalmente credo negativa se non trova gli spazi per evolversi in qualcosa di più, e lo scarto tra i giovani e gli adulti che dovrebbero aiutarli si fa sempre più abissale proprio a causa di questo entusiasmo senza molti sbocchi.

Di questi tempi si vive più a lungo ma ci si esaurisce più in fretta, così la classe dirigente fa leva sul proprio potere per togliersi l’incombenza di dover dare spazio ai più giovani e l’entusiasmo si sperpera rapidamente, non trovando alcun sentiero su cui incamminarsi. Devo ammettere che questo fenomeno a Catania si nota da più tempo, a Bologna ci sono ancora degli avamposti illuminati che si impegnano a dare la possibilità a questi entusiasmi di evolversi in qualcosa di tangibile, ma diventano sempre meno e non vedo molte ragioni per essere ottimista nei riguardi del futuro”.

I personaggi del romanzo sono dei “caratteri parlanti” nei quali potrebbero rispecchiarsi molti di noi.
C’è qualcosa di te in un personaggio particolare? Quanto ti sei “disseminato” da un punto di vista biografico?

“C’è un po’ di me in ogni personaggio e ci stanno tante caratteristiche di altre persone che hanno avuto un ruolo nella mia vita in ogni personaggio. Ognuno di noi applica un filtro, alla realtà, e la intravede in un modo proprio: scrivere significa aggiungere un ulteriore filtro, prendere ancora più le distanze dalle cose per cercare di raffigurarle non attraverso l’immediatezza ma ragionandole. Così ho trovato stimolante frammentarmi e lasciare che finissi un po’ dentro ogni personaggio. E poi, in fondo, ho sempre diffidato da quegli autori che dicono di non aver messo niente di biografico nella loro storia: se non c’è niente di quello che pensi e di quello che sei, allora non mi interessa leggerti”.

 

Vivi a Bologna da ormai più di un anno. Cosa hai assorbito maggiormente da questa città?

“L’idea che è possibile mettersi in gioco, e non mi riferisco solo all’ambito della scrittura ma in molti aspetti privati della mia vita. Bologna è una città a cui piace correre dei rischi e mi ha riportato a quello spirito corsaro che avevo da ragazzo quando mi muovevo sempre di fretta tra le strade di Catania. L’età non è più la stessa e c’è un discreto carico di ragionevolezza in più, certo, ma lo spirito combattivo che si era assopito qui ha preso del vigore che a Catania non aveva più la possibilità di ritrovare”.

 

La scelta di ambientare la parte finale della storia a Bologna è frutto del caso oppure è nata in concomitanza con il tuo trasferimento?

“In concomitanza. Il romanzo nella sua prima stesura aveva un altro finale ma quando mi sono ritrovato a dare una seconda mano di vernice al manoscritto mi sono reso conto che Bologna poteva rappresentare bene quello che cercavo di mettere nel destino di Davide Bovio, il protagonista: ovvero la possibilità di poter pensare a un nuovo inizio, misero o ricco che sia non è dato sapersi. E questo è un dettaglio autobiografico”.

 

Raccontami un po’ dove e quando hai scritto la scena ambientata qui a Bologna.

“Come spesso capita, un dispiacere può stimolare la creatività. A quei tempi, era un piovoso dicembre, una discussione con una piacevolissima ragazza isolana come me, seppur di altra isola, sfociò in una rottura (come biasimarla, del resto: sono catastrofico come accompagnatore tanto quanto tendo al fallimento come essere umano) e poche ore dopo la scena era stata scritta. Avevo iniziato a immaginarla già nel momento stesso in cui quella rottura si compiva, tra i tavolini di un bar in via Marsala, ma venne poi messa su pagina in camera, pc sullo stomaco, birra sul tavolino e musica in sottofondo”.

A proposito di musica, il romanzo è pieno di citazioni musicali, addirittura già dal titolo stesso, tratto da una canzone di Mario Venuti.
Puoi spiegarci come hai deciso la musica da inserire tra le parole del romanzo?

“Credo che ogni personaggio debba avere una sua lingua con cui esprimersi, dei tratti verbali che identifichino il cammino che fa attraverso la storia che viene raccontata. Mi divertiva l’idea di giocare con certi canoni del genere noir, in particolare con quel luogo comune che vuole i poliziotti solitari e un po’ depressi come Bovio amanti e cultori del jazz: così ho pensato di rendere Bovio un appassionato di rap e le sue azioni vengono persino influenzate da un tappeto musicale vario che parte da Fabri Fibra e arriva a Luché, passando per Livio Cori e Marracash e Neffa e tanti altri. Il suo nome, Davide Bovio, invece è un evidente omaggio a quello che per me è stato la più rockstar della storia, ovvero il mai abbastanza compianto David Bowie”.

 

Parlando di influenze, ci sono dei romanzi o degli autori che ti hanno dato spunti?

“Al solo pensiero di far spuntare il loro nome accanto al mio mi sento come il più brutto e sfigato della scuola che tenta di intrufolarsi al ballo di fine anno più esclusivo del college, devo ammetterlo, ma devo anche ammettere che se non avessi letto Michel Houellebecq, Irvine Welsh, Fulvio Abbate e Italo Calvino probabilmente questo mio tentativo di raccontare una storia non sarebbe mai esistito”.

 

Con le sue architetture medievali, i suoi vicoli stretti e alcuni suoi locali Bologna si presterebbe di nuovo a essere il palcoscenico della storia di un noir. Pensi che ci sia la possibilità di rivedere Bovio all’ombra delle Due Torri?

“Come dico sempre, se ti pagano abbastanza nessun romanzo è autoconclusivo. Battute a parte, in questo momento devo ammettere che sono particolarmente impegnato con un progetto, quello del Collettivo SiciliaNiura, bardato dai colori rossi e gialli della bandiera siciliana, un’idea nata insieme ad altri tre scrittori siciliani, Sebastiano Ambra, Alberto Minnella e Rosario Russo, e che ha trovato approdo dentro Algra Editore, che ha avuto la lucida incoscienza di affidarci la direzione di una collana di noir di prossima uscita.

Bovio risalterà fuori in un romanzo ambientato finalmente a Bologna? Il futuro è affascinante proprio perché non regala mai certezze ma solo speranze. A volte le speranze vengono esaudite, a volte no. Chissà cosa accadrà sotto i portici, in questo caso”.

 

Sei al tuo primo romanzo e sicuramente in futuro ne seguiranno altri. Come autore, c’è un rituale che segui prima di metterti all’opera?
(abitudini varie, posti in cui scrivi, letture ecc.)

“Di solito scrivo durante la tarda notte e poi, nei ritagli di tempo che la vita reale mi concede, mi occupo di rileggere, sistemare, tagliare e cucire. Ammesso che non ci sia qualcuno, da qualche parte, che abbia la voglia di offrirmi da bere, intendiamoci: davanti alla possibilità di una birra tutto può diventare procrastinabile, ma per mia fortuna l’alcol costa sempre di più e la mia abitudine a dormire tre ore a notte mi lascia ampie frazioni di tempo da dedicare alla scrittura. Scrivo necessariamente a casa, necessariamente con qualcosa da bere e dei formaggi da spiluccare e necessariamente con un leggero sottofondo musicale. Sono un uomo dalle scarse pretese e non chiedo molto di più”.

 

Da autore alle prime armi, cosa suggeriresti a chi vuole cimentarsi con la scrittura?

“Di lasciare perdere tutte le tecniche narrative che vengono insegnate nei corsi di scrittura creativa e concentrarsi su due attività molto più onorevoli: leggere e osservare. Confrontarsi con la realtà, anche quella contenuta nei romanzi di qualcun altro, analizzarla, scandagliarla persino negli angoli più bui senza lasciarsi prendere dall’indulgenza nei confronti delle miserie altrui e proprie è per me il primo passo per iniziare a scrivere.

L’umanità è spesso ridicola e frivola, come se avesse delle piume di struzzo attaccate dietro la schiena: bisogna essere curiosi nei confronti di quelle frivolezze e quelle stupidità, fantasticare su quello che si nasconde sotto quelle piume. Ѐ lì sotto che sta la vita, o almeno una sua versione interessante”.

 

Un luogo di Bologna che ti sta particolarmente a cuore?

“Soltanto uno? Mi sento quasi Tom Cruise in ‘Mission Impossible’ solo a pensarci. Scientology a parte, intendiamoci.

Ho avuto modo di riempire il baule di ricordi che mi porto appresso in vari luoghi di Bologna, da Villa Ghigi ai Giardini Margherita passando per i Giardini Parker Lennon e per tutta una serie di localini stretti e striminziti dove si finisce sempre per caso, a una certa ora della notte.

Se dovessi proprio sceglierne uno, però, andrei con il ‘Senza Nome‘, un locale in via Belvedere gestito da persone affette da sordità che sono riusciti a creare una piccola isola felice e illuminata dove pare che il tempo si sospenda e tutti, proprio tutti, possono essere accettati per quello che sono. Quello è, con buona probabilità di certezza, uno dei luoghi a me più cari della città, perché ne rappresenta bene lo spirito inclusivo.

Se volete trovarmi da qualche parte, passate da lì: presto o tardi mi troverete, con un bicchiere in mano mentre cerco di attaccare bottone con qualcuno”.

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