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Il mare di Bologna. Lettera d’amore a una città in silenzio

23-03-2020

Di Redazione
Foto di Laura Bessega

Silenzio, solitudine, un po’ di rassegnazione. Ma anche la speranza di poter tornare presto tra le sue strade, per nuotare, di nuovo, nel mare di Bologna.

Abbiamo ricevuto questa lettera dallo scrittore Gaudenzio Schillaci, di origine catanese, che vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato nel febbraio 2020 il suo romanzo d’esordio, La felicità si racconta sempre male (Dialoghi Edizioni), ve lo raccontiamo qui. Co-dirige, come membro del collettivo di autori SiciliaNiura insieme agli scrittori Alberto Minnella, Sebastiano Ambra e Rosario Russo, la collana noir di Algra Editore.

Buona lettura.

Foto di Laura Bessega

Ho camminato lungo ogni tua strada, a passi piccoli, corrotti dalla stanchezza, dal distacco, dall’opprimente sensazione che da un momento all’altro tra noi due potesse finire proprio come quel bagliore improvviso e insospettabile sancì l’inizio.

In ogni vicolo mi sono fermato, tirato dentro dalle ombre o attratto come una falena dai rarefatti bagliori di luce gialla e schiumosa come birra appena spillata che inondano i tuoi portici.

Ti ho vista di notte, sfatta e scapigliata come si disfanno e si scapigliano tutte le cose belle quando si arriva ad una certa ora, che poi è l’ora di tornare a casa, l’ora dell’ultimo notturno, l’ora dell’ultima sigaretta.

Ti ho vista al mattino presto, quando ti trucchi e sembri una di quelle dive del cinema che non si arrendono al passare degli anni e vogliono mostrarsi ancora seducenti nonostante le rughe, nonostante la vita non si fermi mai e non si fermi neanche per te.

Ti ho letta tra le pagine di un vecchio romanzo, mi hai tenuto compagnia mentre leggevo altri romanzi, altre storie, altra fantasia.

Ho ceduto alle lusinghe dei tuoi localetti ambigui, tanti sottoscala dove potersi abbracciare e iniziare a ballare con fantasmi sconosciuti, ho barattato i miei acciacchi con l’orrore della tua gioventù sfrontata e irresponsabile, ho creduto di poter scandagliare, offrendoti il braccio ad ogni scalino, tutte le parti di te, che mi fosse concesso mischiarmi con te, nonostante le mie radici fossero lontane e tu rappresentassi la seduzione di una follia, fatta da adulto, quando il tempo delle follie doveva essere già ben lontano da me.

Abbiamo fatto l’amore tra la nebbia, amando ogni tua imperfezione, un ginocchio, un piede, un gomito, una piega del tuo sorriso, un calzino sbagliato o una linea di matita sbavata.

Abbiamo discusso sotto la pioggia, mandandoci a fare in culo senza grazia e senza cure, con le vene del collo ingrossate, la voce strappata via a forza e gli occhi umidi. Ci siamo ritrovati quando il freddo ci invitava a stare vicini, a sfondare le distanze, a battere la carne contro la carne. Hai fatto tuo il mio delirio, la mia incostanza, la mia compiacenza, ogni mia piccola morte, ogni mia inaspettata vita.

Ti guardo da lontano, oggi, e sembri la bocca spalancata di un animale morente in cerca di respiri. Ogni autobus, ogni supermercato, ogni taxi è un parassita che cerca di tenerti in vita, pulci, sciacalli, mosche, insetti, vermi, e tu stai lì ferma in attesa che un nuovo soffio d’aria ti dia la forza di scrollarteli di dosso e rimetterti in piedi. Dalla terrazza del quinto piano che in questi giorni è tutto il mio mondo si intravede ogni cosa, le tue forme e le tue vergogne, e il tempo scorre puntualmente inesorabile com’è abituato a fare.

Di tanto in tanto un’ambulanza taglia il silenzio, o forse è la sirena della polizia, chi riesce più a distinguerle? Le confusioni e i limiti sfumano e si assottigliano e si mischiano, i silenzi parlano tra di loro e non c’è più fretta, non c’è più indifferenza, non c’è più disprezzo, ci sono soltanto le infinite possibilità delle cose che possono accadere e allora soprattutto del niente, che accade sempre e nessuno se ne accorge.

Osservo da lontano il pomeriggio morire dentro a un bicchiere: fino a qualche giorno prima, a quest’ora, iniziavo a sentire il rumore del mare di Bologna, un mare che ho amato e amo ancora, un mare strano, diverso da tutti gli altri, che appare solo di notte, quando il buio lo nasconde per bene, ed è il mare di persone che straborda dentro i locali, acqua che entra ed esce da una porta all’altra in cerca di qualcosa da pescare o di un amo a cui abboccare.

Ѐ un mare di fatica, un mare di esami, un mare di libri da leggere, un mare di equivoci, un mare di guai, acqua che se ne va a passeggio su delle Converse nere sdrucite o su degli stivaletti di camoscio a suola morbida o su un paio di tacchi ripidi come la strada che porta a San Luca, ma è un mare che se ne fotte del vento che tira, della risacca e delle mareggiate perché è un mare frenetico, ostinato, feroce, un mare che fagocita e sputa via, un mare che si restringe nei cunicoli delle case e delle stanze in affitto e si incanala dentro il greto dei colli lunghi delle bottiglie di vino.

Ѐ un mare di vita e di dolori in cui si può naufragare, questo mare dentro mura che il mare hanno dovuto inventarselo, ma dove non ci si può perdere perché basta seguire i neon delle insegne dei bar che come fari segnano sempre la via per tornare a riva.

L’acqua esce dalle finestre, dalle porte, da ogni buco: dalle bocche che parlano, dalle orecchie che sentono quelle bocche parlare, dagli occhi che scrutano la città in cerca di qualcosa in cui credere, dalle narici che inalano aria e buttano fuori acqua, quell’acqua che forma il mare di Bologna, persino dai buchi della carne eletti a frontiere del brivido esce l’acqua, che sia in un letto, in un vicolo buio o nel cesso di un localino non fa alcuna differenza.

L’acqua arriva da ovunque e inonda portici, strade, semafori, pare trascinare via tutto ma non trascina mai niente.

Ogni notte quell’acqua esce e all’alba rientra dentro quelle bocche, quei nasi, quegli occhi, quelle porte, quelle finestre, quei tombini, così che nessuno al mattino si ricordi che di notte a Bologna c’è il mare, quel mare che adesso, come se la notte non ci fosse più, è scomparso, inghiottito dalla luce del sole: un mare dove torneremo a nuotare, perché questa veglia infinita finirà e con la notte, come sempre, come in un vecchio romanzo di Pinketts, tornerà il mare a Bologna.

Resisti al silenzio, perché torneremo a parlare.

Resisti alla solitudine, perché torneremo a stare insieme.

Resisti al niente, perché torneremo ad essere qualcosa e torneremo a navigare la notte, Bologna, come cantava Neffa nel ’96: senza meta, senza paure, senza sole. Con solo il rumore del tuo mare a tenerci svegli e i neon delle insegne dei bar a ricordarci che la possibilità di una riva esiste.

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