Stefano Pilia, Matilde Piazzi, Liviana Davì, Laura Agnusdei, Giulio Stermieri, Alessandro Kostis, Valentina Lanzetti, Marco Mancuso, Jonathan Clancy.
«Quindi quanti siete in totale? Ho perso il conto».
Rispondono sorridendo: «siamo nove, ma la situazione è abbastanza fluida». Sono un collettivo. Alcuni di loro sono stanziali al Grabinski Point nell’omonima via bolognese, dove hanno la loro postazione lavorativa. Laura invece viene spesso nella saletta a fare musica. «Quale altra sala?» Mi chiedo. Dalla strada si accede attraverso una vetrina simile a quella dei bar vicini, dalla quale si scorge una sola stanza. Ma il locale si sviluppa su tre piani. Uno sotto l’altro. A metà tra il fascino di un club berlinese e l’atmosfera di un parcheggio sotterraneo, si scende e poi si scende ancora e, mentre la musica si allontana, si ha la sensazione di scivolare verso il centro della terra.
Grabinski Point è uno spazio fisico dove si organizzano mostre, eventi musicali, performance, è un’associazione, ma ancora prima è un incontro di persone. Cosa le unisce lo si capisce subito: le idee, l’amicizia, il lavoro. Credo in quest’ordine.
Le parole che confluiscono in una visione comune e permeano anche le loro proposte culturali sono antifascismo, ricerca, sperimentazione. Si inseriscono in quelle che loro chiamano falle nel panorama bolognese. «Ci siamo accorti che ultimamente Bologna, nonostante sia una città culturalmente molto viva e ricca, è deficitaria di luoghi in cui si può esperienziare una dinamica di ascolto più attenta, canalizzata e accolta. In passato si trovavano spazi come il nostro, dove potevi guardare una mostra o ascoltare musica insieme a una comunità di persone in una modalità di avvicinamento e di scambio reciproco. Oggi invece è più facile incappare in serate mondane o di intrattenimento», mi dicono.
So perfettamente di cosa parlano i ragazzi di Grabinski Point. Non si va da loro con lo scopo di “fare serata e bere birrette”, ma si può fare anche quello.
Creano rete, mettono i rapporti umani al centro, stanno lontani da standard e omologazione. Le persone, durante le loro serate, partecipano, non si riprendono col cellulare. «Dopo tanti anni che lavori in questo settore, hai già fatto delle scelte, e le relazioni che hai sono frutto di queste scelte».
Alla mia domanda su chi vorrebbero tantissimo portare nel loro spazio, Stefano mi risponde: «se venisse Werner Herzog qua, potrei morire felice». Mica male! Ridiamo.
Mi raccontano come fa un’associazione ancora così giovane, nata nel 2023 alla fine di una pandemia di Covid che ormai sembra molto lontana, a ospitare tanti artisti stranieri, provenienti da Paesi che non sono proprio dietro l’angolo. Grazie al proprio lavoro e background personale, si sono creati una rete di conoscenze che permette loro di portare musicisti e artisti che passano da Bologna o dall’Italia, riuscendo a farli convogliare a Grabinski Point. «Li intercettiamo durante i loro tour e poi li ospitiamo a casa nostra. Ci scambiamo idee, creatività» aggiunge Laura.
Tra gli ospiti c’è stata Teresa Wong, una violoncellista e intermedia artist, che ha collaborato con nomi di spicco come il polistrumentista Fred Frith. «È rimasta a dormire a casa di uno di noi. Ancora oggi ci scrive. È una delle cose più belle che mi siano capitate da un po’ di tempo a questa parte. Ci sentiamo ancora anche con Josephine Foster e con il duo indonesiano dei Tarawangsawelas. Questo è il valore aggiunto di quello che facciamo. È l’ umanità che si incontra nelle relazioni» aggiunge il Capitano. È così che chiamano Stefano. Non chiedo spiegazioni.
Per il tipo di musica di cui si occupano, mi raccontano che gli spazi in Italia sono pochi. E quando si apre un piccolo spiraglio, il loro indirizzo di posta viene subissato di mail. Da Grabinski Point sono passati già tanti nomi, quasi uno al mese. Dean Roberts è stato uno dei primi, poi la chitarrista Alessandra Novaga, l’arpista americana Mary Lattimore, Ned Colette, l’artista Charlie G Fennel che ha riempito di eros i loro sotterranei e tanti altri.
«Quello che facciamo qui, non esisterebbe senza spazi come questo» dice Laura. Di luoghi come Grabinski Point, gestiti da persone che fanno questo tipo di lavoro su base volontaria, ne hanno conosciuti diversi. La parola che usano per descriverli è ecosistema, un mondo fatto di rapporti autentici. «A Milano, a Napoli, a Roma, a Firenze, ovunque ci sono dei posti come il nostro di cui magari non parla nessuno, che magari muoiono in poco tempo, però poi rinascono sotto altre forme. Questa è la linfa di quello che facciamo. Questa è esattamente quella vocazione politica che certi artisti hanno e altri non hanno. E noi ce l’abbiamo. Abbiamo una quest’impronta. Ce ne freghiamo di fare dei “white cube” perfetti. Ci interessa creare sinergie con l’obiettivo costante di portare la politica sul piano dell’arte».
E allora parliamo di politica. Il loro impegno li ha portati a postare su Facebook una lettera aperta per una presa di posizione rispetto al genocidio in Palestina. Hanno anche ospitato la mostra Double Exposure dell’artista Inga Levi, affiancata da una raccolta fondi per finanziare le attività di PIROGOV First Volunteer Mobile Hospital, organizzazione non governativa che fornisce assistenza medica in prima linea nella guerra in Ucraina.
«A livello istituzionale sembra esserci una nuvola nera, ma anche la società sembra muoversi sempre di più verso un individualismo poco empatico e poco attento a quello che succede nel mondo». Per questo serve riaccendere l’attenzione sulle istanze politiche quando si fa arte.
E suggeriscono: «sarebbe anche bellissimo che ci fosse uno scambio di artisti internazionali che creano un discorso su questo tema. In quest’epoca storica e in particolare in Italia, sembra esserci una sorta di autocensura». Il richiamo alla polemica sorta in seguito alle parole di Ghali a Sanremo è inevitabile. Riflettono sul fatto che oggi, perché si parli pubblicamente di certe tematiche, ci vuole la web star, quella che è nata su internet. «Il mondo della cultura, permeato un tempo di movimenti nati dal basso e nei centri sociali, è completamente scomparso. Paradossalmente le uniche parole che fanno breccia nelle persone arrivano da quel mondo stesso che crea questo livellamento. Che poi meno male che c’è uno come Ghali, ma in ogni caso la dice lunga sul sistema in cui siamo immersi».
Grabinski Point è un gioco di parole ben riuscito, nato nella mente di Valentina Lanzetti, tra il film Zabrinski Point, i cui temi sono la rivoluzione, il cambiamento e l’uscire dalle regole costituite, e il combattente per la libertà Giuseppe Grabinski. E fin qui tutto torna. Come anche il fatto che non è un posto per gruppi rock, per un ensemble troppo grosso, non ospita musicisti jazz, che a Bologna hanno casa altrove, e non si occupa di progetti bolognesi.
I ragazzi di Grabinski Point però non sono degli integralisti musicali che ascoltano solo pezzi ricercati e sperimentali.
Dopo 12 mesi di attività, per il capodanno 2024 hanno organizzato un evento privato nel loro spazio. L’idea era fare una serata Karaoke di raccolta fondi per promuovere la sostenibilità dell’associazione ma poi è rimasto solo il karaoke con un caleidoscopio di canzoni. In fin dei conti è l’ultimo dell’anno anche per loro.
Iniziano cantando pezzi di Sly and the Family Stone, Sia, Chandelier ma poi arrivano anche grandi classici italiani come Non sono una signora della Bertè, Tiziano Ferro e perfino le Spice Girls. Il Capitano ci tiene a precisare che per lui i classici sono gli Stooges, non la Bertè, ma qualcuno dal fondo del tavolo dove siamo seduti ribatte: «in quel momento avrebbe cantato anche la sigla dei Puffi».
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