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La nostra quotidianità al limite dell’assurdo. Intervista al fotografo Guido Calamosca

17-04-2023

Di Francesco Di Nuzzo
Foto di Guido Calamosca

Il ritrovo è fissato alle 15.30 davanti allo studio di fotografia presso la sede Sede dell’Associazione Elenfant Film in via de’Coltelli 5. Io, naturalmente, mi sono già perso. Dopo una rapida chiamata e qualche scusa, mi apre il portone del palazzo dall’altro lato della strada un signore dai capelli scomposti, alto e dalla barba brizzolata. Passato il naturale smarrimento cognitivo capisco subito che si tratta proprio di Guido Calamosca, il fotografo che devo intervistare.

Nato a Senigallia nel 1981, Guido Calamosca è un fotografo e fotoreporter che ha realizzato diversi reportage insieme alla giornalista e compagna Giorgia Olivieri, come il progetto Chernobyl Souvenir di cui abbiamo parlato sulle pagine di About con un’intervista in occasione dell’edizione 2019 del Terra di Tutti Film Festival.

Dopo avermi gentilmente offerto un caffè dalla macchinetta nella sala d’ingresso principale, Guido mi accompagna in una saletta ricavata da un magazzino (quasi) senza finestre. Lui scherza, mi dice col suo forte accento marchigiano che il posto sembra la stanza di Zed in Pulp Fiction. Io rido quando mi assicura che si tratta in realtà della nuova sala di registrazione in allestimento, ma mi stringo lo stesso forte alla sedia.

Inizia così una lunga conversazione per cercare di capire almeno un po’ il mondo per come Guido Calamosca lo vede attraverso la lente del suo obiettivo, tra punctum fotografici, intelligenze artificiali e incontri particolari in quel di Predappio. Ho iniziato con una domanda facile, quasi scontata, ma l’ora e mezza che ne è seguita è stata tutt’altro che banale.

Jungle Blasta

C’è un progetto fotografico al quale sei particolarmente legato o che ti ha divertito di più?

«Un progetto particolare che mi diverte molto è quello delle fiere/ fiè-ra/. Avevo sentito parlare di Tanexpo, la fiera funeraria che si tiene ogni due anni a Bologna. Piena di quelle che un occhio comune potrebbe interpretare come bizzarrie, la manifestazione mi ha dato il là per seguire anche la fauna che popola il mondo delle fiere. Ho così scoperto un sottobosco di espositori incredibili, addetti ai lavori curiosi e pubblico vorace di esperienze e di gadget.

Da qui è nata l’idea per una serie di dittici che mette a confronto come certi temi e oggetti vengano trattati in maniera differente a seconda del contesto in cui si trovano. Così, se da un lato puoi trovare uno scatolone pieno di crocefissi abbandonati alla fiera dei paramenti sacri, dall’altro non è strano vedere delle fionde appese come fossero tanti crofissi a quella della caccia. Il progetto è, per così dire, “in fieri”. Potrebbe sembrare un ritratto pittoresco di manifestazioni a tratti buffe, in realtà ci offrono anche uno spaccato del paese reale, uno degli ambiti della mia ricerca fotografica».

Parlando dei tuoi progetti, cosa ti porta a scegliere quale tema affrontare? E cosa cerchi di comunicare all’osservatore?

«Il tema da scegliere parte sempre da un elemento che mi incuriosisce e analizzando se può essere di interesse comune. Cerco di mostrare la semplicità delle curiosità che tutti i giorni ci passano davanti agli occhi, ma che, condizionati dalla “solita routine”, non vediamo più o non abbiamo mai visto».

 

Sei sempre molto coinvolto nel raccontare la realtà. Come è visto questo aspetto del tuo lavoro?

«Ho sempre il rispetto della situazione in cui mi trovo. L’8 marzo alla manifestazione di Non una di meno sono stato avvicinato e “aggredito” da due anarchici mentre scattavo delle fotografie al corteo, a dir loro perché i giornalisti non scrivono la verità e i fotografi mandano le immagini alla Digos per farli identificare…è come se dopo questa aggressione io dicessi che Non una di meno è un corteo violento di anarchici.

Fare di tutta l’erba un fascio credo non sia corretto. Tra l’altro, il comportamento di queste due persone paradossalmente è stato simile a quello di alcuni fascisti incontrati a Predappio, che mi sono venuti incontro più o meno per lo stesso motivo. Sicuramente ci sono anche fotografi provocatori che non rispettano l’etica professionale».

Lotto marzo

Ci puoi dare qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?

«Ho un progetto che è simile più a un diario fotografico di ricordi, che dura ormai da più di 10 anni. Sono tutte fotografie scattate in pellicola 35 millimetri. L’idea nasce quando un mio caro amico inviò in una chat di gruppo WhatsApp una vecchia fotografia di noi adolescenti. Cominciai a osservarla per bene e notai tanti dettagli che mi portavano alla memoria ricordi svaniti. Conclusi inoltre che i nuovi mezzi di “condivisione” sono talmente veloci da non permetterci di poter gustare così appieno una fotografia, decine di immagini ci inviamo nei social destinate ad essere dimenticate in qualche telefono che magari ci si romperà.

/fiè·ra/

Così per piacere personale iniziai scattando più di 10 rullini che sviluppavo tutti a fine anno, guardando le immagini era un continuo “Ah è vero è successo anche questo!”. Da lì ho continuato facendo principalmente foto ad amici con l’intento dopo molti anni di far provare quel gradevole stupore nel far riaffiorare un ricordo. L’idea finale è quella di una mostra con queste “fotoricordo” stampate molto grandi, una mostra dedicata a chi è raffigurato nelle immagini praticamente».

 

Entriamo dentro il mestiere del fotografo. Dicci come la pensi.

«Sono un regime forfettario e il nostro lavoro è meno tutelato di quello dei rider, ma siamo una categoria della quale nessuno parla. Tra l’altro c’è una legge che impone l’obbligo di pagarci le fatture entro 60 giorni, ma nessuno la rispetta. Io offro sempre la massima professionalità ma il lavoro va pagato. Anche nel giornalismo i collaboratori non sono tutelati, ma fuori c’è la fila di gente disposte a fare questo genere di lavoro per pochi euro, quindi il problema non esiste: “Vuoi un compenso di più alto? Ciao, prendo un altro”. Il tutto porta anche ad avere contenuti di scarsa qualità pensati solo a fare punteggio SEO. Questo porterà, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, a una epurazione di molti cialtroni».

Feriae Augusti

A proposito di IA, tu cosa ne pensi?

«Secondo me l’IA farà sparire fotografi, grafici e, perché no, giornalisti che creano dei contenuti basici privi di sostanza, ma uniformati a quello che richiedono i social e la SEO, cosa che l’intelligenza artificiale riuscirà facilmente a ricreare. Ma forse il futuro della fotografia è anche questo: gli utenti, assuefatti da un mondo sempre più “meta”, non hanno più bisogno di contenuti creati con uno studio con un’etica. Ma questa è una domanda alla quale non ho proprio risposta. Poi, dipende anche da che tipo di utenti uno ha. Ad esempio, nel caso del giornalismo, se c’è un lettore interessato, legge quello che scrivi tu proprio perché sei tu a scriverlo».

 

C’è il rischio, pubblicando sui social, di sentirsi costantemente sotto giudizio?

«Mah, io ogni volta che pubblico una foto su Instagram se ricevo commenti negativi o vengo attaccato con violenza verbale sinceramente me ne sbatto abbastanza, ma c’è anche da sottolineare che ho pochissimi follower. Ovviamente se pubblichi una immagine nei social non puoi pretendere che vada come dici tu, la critica nei social succede… sempre. Che poi a fin dei conti nel giro di 20 ore nessuno si ricorda più».

/fiè·ra/

E secondo te i social hanno cambiato la percezione che gli utenti hanno della fotografia?

«Oggi nei social siamo tutti fotografi, inoltre siamo ogni giorno bombardati da migliaia di immagini. La fotografia si è adattata giustamente ai tempi veloci in cui corre la società e quello che vedi oggi domani è già preistoria, sempre se qualcuno se lo ricorda. Questo bombardamento, a mio avviso, ha un lato positivo in quanto in alcuni casi ha un effetto inverso, invitando la gente a fermarsi un attimo e prendersela con calma. Nella fotografia si manifesta con la riscoperta della pellicola e ultimamente nel rispolverare vecchie macchine fotografiche compatte digitali dai cassetti, con tutti i limiti delle tecnologie di 20 anni fa. È anche un po’ una moda».

 

In questo senso, come si riesce a conciliare la natura artistica con quella commerciale?

«Io credo che nel 80% dei casi per fare “l’arte” o l’artista devi avere le spalle ben coperte economicamente o essere morto. È possibile però conciliare la natura artistica con quella commerciale provando a ritagliarsi del tempo (e denaro) dalla parte “commerciale” del lavoro di fotografo per levarsi la soddisfazione di sviluppare un proprio progetto “artistico” o strettamente personale. Per quanto riguarda la parte “commerciale”, credo che la massima professionalità si esprima soddisfacendo a pieno la richiesta del cliente, può capitare che un cliente ingaggi un fotografo per avere un lavoro “artistico” ma spesso il risultato non è come il cliente lo aveva in mente e, aggiungerei, giustamente.

Io non mi considero assolutamente un’artista, non ho nemmeno uno stile “unico”. Preferisco utilizzare tecniche o punti di vista diversi a seconda di quello che voglio esprimere o a seconda del soggetto che ho davanti. Fondamentale, comunque, è tenere sempre viva la voglia e lo stimolo di raccontare ed esprimere il proprio punto di vista fotografico cercando di non essere sopraffatti dalla routine della parte professionale».

/fiè·ra/

In quest’epoca di ritocchi digitali e post-produzione, si può ancora considerare la fotografia come “verità”?

«È una domanda alla quale non ho risposta. La fotografia, non esageratamente manipolata, è comunque una verità. Recentemente mi sono riletto La camera chiara di Roland Barthes con il suo studium, shock e punctum, ci dice che della stessa fotografia, volendo, ognuno può vederci cose differenti e quindi verità differenti. La cosa certa è che il fotografo quell’attimo lo ferma e quello che vedi è “vero”, poi subentra cosa il fotografo vuole farti vedere, ma si entra in discorso di etica professionale ecc ecc… Per quanto riguarda post-produzione, intelligenza artificiale e verità, riporto le parole che condivido al 100% del mio amico Martino Pietropoli:

“Il fatto che molta fotografia prodotta oggi dalla IA sia indistinguibile da quella vera non depone a favore delle capacità dell’IA, ma è dovuta al fatto che in giro c’è tantissima fotografia “reale” talmente postprodotta e a(du)lterata che finisce per sembrare pure più finta”».

 

E come lo vedi il rapporto tra digitale e analogico?

«Si critica spesso chi fa uso della pellicola, in generale fare i censori su chi o come si fotografa è a mio avviso sbagliato, non ti porta a niente. E comunque la pellicola è sempre più viva e non ha nessun problema a vivere con il digitale».

/fiè·ra/

Tu sei di Senigallia, nelle Marche, ma vivi da diverso tempo a Bologna. Qual è il rapporto con la città?

«Io sono venuto a Bologna da sette anni, non ho fatto l’università qui e non ho vissuto l’esperienza della vita studentesca. La città è bellissima e si sta benissimo, ha i suoi tempi, è piacevole e sempre in fermento. Mi ha accolto bene, soprattutto nell’ambiente lavorativo. I fotografi di cronaca con i quali ho il piacere di lavorare sono di quelli che rispettano l’etica professionale, inoltre, non ci si mette i bastoni tra le ruote a differenza da come dicono di alcuni colleghi del nord».

 

Se dovessi dare un consiglio a chi si vuole approcciare alla professione del fotografo, quale sarebbe?

«Intanto bisogna capire “Perché voglio fare il fotografo?” Tutti sconsigliano il mestiere del fotografo oggi, si dice anche che qualche fotografo con l’intelligenza artificiale sparirà. Quindi direi intanto di trovare qualcosa da raccontare fotograficamente, sviluppare il racconto e poi capire se è il caso di continuare o meno».

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