Design & Moda

Da Cesare Cremonini a Damiano dei Måneskin. Guifriday, l’artista che crea cappelli personalizzati nel suo Salotto Lab

29-12-2023

Di Sara Santori

«Raccontami di te, Fabio», gli chiedo, «Fabio è un ragazzo di 40 anni che un bel giorno ha deciso di intraprendere quest’arte dimenticata dei cappelli», mi risponde.

Incontro Fabio Giuffrida Trampella, in arte Guifriday, nel suo laboratorio in via Borgonuovo; indossa una camicia sdrucita, una t-shirt grigia, jeans e stivali. Lucio Dalla canta in sottofondo. Le pareti e gli scaffali raccolgono cappelli, oggetti da collezione, materiali di ricerca e di lavoro.

«Sono sempre stato un portatore di cappelli. A un certo punto ho iniziato a documentarmi, ma quelli che vedevo mi stavano stretti. Poi ho conosciuto un cappellaio che viveva a Londra, e che prima aveva vissuto a Bologna, e con lui ho fatto una full immersion: è stata un’illuminazione.

Sono uno che quando ha un’idea la mette in pratica: dopo dieci giorni è capitata l’occasione di uno spazio, dove esprimermi liberamente. Condividevo le mie creazioni sui social, soprattutto Instagram, e si è attivato un grande interesse. Per un’annetto e mezzo era un hobby al quale mi dedicavo nei ritagli di tempo – e per la verità per me lo è ancora adesso».

All’epoca lavorava in uno showroom, come rappresentante di abbigliamento. «Non sono uno sbarbo, mi sono detto: beh io voglio fare quel cazzo che voglio, se non guadagno in qualche modo me la caverò». A maggio 2020 manda una lettera di licenziamento.

Nel frattempo aveva trovato lo spazio nel quale ci troviamo ora: «lo amo, perché sono nel cuore di una parte di Bologna a me cara, in una via nascosta, non commerciale. E come nelle favole, lavorando tutto il giorno a questo progetto, ho visto da subito i frutti del seminato. Da lì l’esplosione, ponderata, di una bella quotidianità».

Ogni cappello Guifriday è unicamente della persona per la quale viene creato. «Non avevo una strategia, e non ce l’ho tuttora, ma volevo fare cappelli unici. Volevo che il centro del cappello fosse la persona che avevo di fronte». Fabio ha sempre avuto lo stesso approccio: no vendita online, no vendita a distanza. «Era il mio gioiellino e volevo gestirlo a mio modo». Niente di ciò che è esposto si può comprare. «Le persone che non mi conoscono entrano e mi chiedono: “ma quindi non posso comprare nulla?” “No. Capiamo e creiamo il tuo cappello”. È una modalità anticommerciale che poi è diventata commerciale. È educare le persone a un acquisto diverso. Ma non perché me la tiro».

Si è creata una sorta di hype, perchè per avere un cappello Guifriday bisogna passare per forza da qui, dal “Salotto Lab” di Fabio, perchè si genera una suspence all’acquisto, perchè l’esclusività del cappello “fatto apposta per te” premia. Si regala l’esperienza. Le persone vengono da tutta Italia per farsi fare un cappello. Persone di tutti i tipi, specialmente donne, «le donne hanno più coraggio di osare, si crea più alchimia e hanno più voglia di lasciarsi guidare e trasportare». Persone famose, Fabio Volo, Damiano David dei Måneskin, Cesare Cremonini, Jovanotti, «ma per me non cambia. Per me la più grande soddisfazione rimane quando qualcuno ti ferma per strada per chiederti del cappello che indossi».

Tutti i cappelli sono fatti a mano e su misura, con la tecnica tradizionale delle forme in legno, solo in feltro, di lapin o castoro: «guardare le stagioni è un nostro fatto culturale, pensa ad esempio alle cuffie portate d’estate negli Stati Uniti, se hai voglia di mettere il cappello lo metti anche d’estate, anche se in feltro.

Ho diversi modelli, anche se a un occhio inesperto può sembrare sempre lo stesso. Il mio timbro è marcato e un mio cappello lo riconosci, tanto che non li firmo mai. Le costellazioni sono un mio elemento ricorrente. Poi però l’aggiunta di un testo ricamato, di piccoli dettagli, perline, stoffe, pietre, lo rendono unico. Con ogni cappello si apre un mondo perchè ogni persona è diversa e ogni cappello racconta la sua storia.

Fuori sono un po’ schivo, perchè ho già dato. Qui dentro siamo io e te e io ti ascolto. Per fare un cappello ho bisogno di essere entrato in sintonia. Un po’ di libertà la chiedo sempre, è la mia parte di creatività. Per questo non mi faccio mai pagare prima. Anche perché questo fa scemare l’aspettativa». «Capita che qualcuno non paghi?», chiedo. «No. Ma capiterà eh!».

Ai cappelli ha affiancato un passatempo, «come la settimana enigmistica»: cappellini, rigorosamente New Era, ai quali aggiunge la sua cifra stilistica, i suoi ricami, i suoi decori e, in questo caso, anche la sua firma. Non sono in vendita per tutti, sono riservati solo ai clienti, «a chi mi ha già dato fiducia sui cappelli».

Questo luogo, i suoi cappelli, la sua pagina web: tutto parla la sua lingua. “Hat Faker”, “Poeticamente corretto”, “Portatore sano di cappelli”, “Ho un sogno in un cappello”, gli chiedo dei giochi di parole ricorrenti nella sua narrazione: «Quello sono io. È la parte artistica, è tutto molto legato alla mia persona. È il bello di potersi esprimere liberamente, vengono fuori tante piccole sfaccettature. Più delle parole contano i fatti e conta la naturalezza. I giochi di parole sono tutte cazzate che mi sono venute in mente ma che mi fa piacere vengano ricordate».

Anche il nome Guifriday nasce da un gioco di parole. Il padre è siciliano e una parte della famiglia è emigrata negli Stati Uniti; da adolescente scopre di avere un parente là e comincia a scrivergli sperando di andare a trovarlo a New York, «ovviamente non è successo». Il cognome veniva storpiato in Guifrida, poi per un ulteriore gioco di parole è diventato Guifriday (aperto solo il venerdì). «Ormai sono Gui anche per mia mamma».

Fabio, anzi Gui, indossa sempre il cappello, «questo modello tipo Borsalino è più difficile da portare, ti senti subito gli occhi addosso. Nove persone du dieci pensano: “oh, un cowboy“, per quell’abitudine un po’ italiana di etichettare subito».

Gui non esce mai senza cappello e le poche volte che è successo, è capitato che non lo riconoscessero o che non lo salutassero.

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