Marco è un ragazzo che non ama parlare di sé, ma ama certamente la scrittura e il suo potere. Quando si finisce a parlare di guardie di finanza intertemporali significa che l’immaginazione non manca. E l’immaginazione di Marco Visinoni ha dato vita a Il caso letterario dell’anno (Arkadia Editore) dove il protagonista Leifur, un islandese trapiantato a Bologna, si ritrova ad affrontare incontri fantascientifici con il sé stesso futuro per smuoversi dalla sua staticità e finire il suo romanzo Starbucks.
Successo, viaggi, adolescenza prolungata: è un romanzo che tocca tutti i grandi temi della contemporaneità. Se volete andarlo a trovare Marco Visinoni parlerà del suo romanzo, insieme a Gianluca Morozzi, martedì 17 Luglio alle 19 alla Confraternita dell’Uva (Via Cartoleria 20/b).
Intanto qui ho cercato di metterlo un po’ in difficoltà, senza grande successo.
Toglimi una curiosità, sei davvero islandese?
“No, non sono islandese. Quella è una cavolata che ho scritto sul mio profilo perché Facebook insisteva che io mettessi un luogo di nascita. Ero appena stato in Islanda ed ero rimasto estremamente affascinato da quella terra, quindi ho inserito un paesello a caso di pescatori sperduto nel nulla”
Quindi la scelta di ambientare il tuo libro anche in Islanda non è casuale?
“Ci sono stato tanti anni fa, nel 2009. Era appena fallita a causa delle banche, quindi era molto economica e poco conosciuta. È stato un momento magnifico per visitarla: ho trovato una terra quasi incontaminata. Mentre ora è molto più di moda e turistica; tutta l’Islanda ha meno abitanti di Bologna, quindi fai in fretta ad invaderla”
Il nome del protagonista è Leifur. Ha un significato specifico questo nome?
“È un nome islandese abbastanza frequente, ma l’ho scelto soprattutto perché è il nome del primo europeo che è arrivato in America. Tutti quanti siamo convinti che Colombo sia stato il primo a scoprire l’America, in realtà i vichinghi ci sono arrivati cinquecento anni prima stanziandosi nel Terranova (l’attuale Labrador, in Canada). Il condottiero di questi vichinghi si chiamava Leifur Eiriksson”
Anche il nostro Leifur, quello del libro, intraprende un percorso da Bologna all’Islanda. Oggi il viaggio, soprattutto in posti esotici e spirituali, è visto un po’ come la soluzione a tutto. Pensi che il viaggio in sé sia la risposta o credi sia più efficace un cammino dentro sé stessi?
“Credo ci siano due aspetti diversi da affrontare. Sicuramente il viaggio è un’esperienza narrativa utile: quando uno sta finendo le carte da giocarsi, il viaggio è sempre valido per sparigliare la situazione. In questo caso il viaggio era quasi indispensabile perché il protagonista parte come un islandese trapiantato a Bologna, che non conosce nessuno e ha una vita da grande Lebowski. È un personaggio che vive per i fatti suoi, senza fare né del bene né del male a nessuno e questo lo rende una personalità irrisolta. L’esperienza fantascientifica dell’incontro con il sé stesso futuro lo smuove e lo obbliga a fare cose, quando lui invece sarebbe una persona statica. Questo lo porterà a doversi confrontare per forza con il suo passato e a tornare in Islanda.
Nella vita reale, invece, non credo che il viaggio sistemi molto. Se uno non trova le risposte dentro c’è poco da fare. Però da lettore, e da scrittore, penso sia bello vedere nei libri o al cinema che succedono cose a cui non credi e che le soluzioni siano possibili, come il fatto che il viaggio possa davvero essere qualcosa di risolutore”.
Leifur vive anche uno stato di adolescenza prolungata, cosa che capita a molti anche nella realtà. Oggi, secondo te, perché c’è questa necessità di sguazzare in una adolescenza costante?
“Io credo ci sia una schiera di persone che in questo senso di instabilità ci sguazza. Sino alla generazione dei nostri genitori c’erano delle strade obbligate da percorrere, come fare una famiglia e dei figli. Il fatto che ora questo non avvenga più dà a molte persone, che magari non credevano in quei modelli, la possibilità di crearsi delle vite alternative. In questo Leifur è un archetipo, anche di quella che è una bolognesità che conosco bene e da vicino.
Mentre un tempo c’era soltanto la possibilità o di fare i conti con te stesso e crescere oppure di essere emarginato, credo che sempre più oggi si creino dei modelli alternativi di vita e questo in una città come Bologna si vede tanto.
È chiaro che questa libertà non è sempre semplice da affrontare. Una frase di David Foster Wallace diceva: ‘La verità ti renderà libero, ma solo quando avrà finito con te’. Quando ti ritrovi libero ci devi fare i conti”.
A proposito di David Foster Wallace, voglio uno spoiler: qual è la parola di “Infinite Jest” che servirà al protagonista per finire il suo romanzo “Starbucks”?
“Se ti rivelo tutto diventa uno spoiler eccessivo, però posso dirti che esiste una pagina del libro di Foster Wallace che contiene la formula per viaggiare nel tempo, ma ogni lettore dovrà andarsela a trovare.
Non voglio creare schiere di viaggiatori nel tempo: va a finire che tutti vanno in giro per il passato a vincere lotterie, a scommettere sulle partite, a investire in bitcoin. Non vorrei che ci fossero guardie di finanza intertemporali che poi se la prendono con me”.
Un consiglio, dal futuro, per chi inizia oggi da giovane scrittore
“L’unico consiglio che mi sento di dare, qualunque cosa si scriva, è perseverare. Il mito dell’avere successo e del fatto che tanti leggano il tuo libro, tema che tratto anche nel romanzo, è qualcosa che dovrebbe venire sempre dopo la passione della scrittura.
Io stesso ho scritto tanti libri in momenti in cui non avevo editori e non avevo quasi nessuna prospettiva: cose che scrivevo solo per me. Questo non vuol dire che speravo rimanessero solo per me, però le scrivevo in modo puro. Le volte in cui mi è capitato di scrivere con l’attesa di un editore che aspettava il mio libro ha contaminato la purezza di ciò che scrivevo. Il fatto di metterti lì davanti alla pagina bianca, la sera, con nessuno che aspetta che tu scrivi è l’atto più puro a cui ci si può dedicare.
Serve perseveranza nel cercare un editore, nel farsi aiutare per la stesura da editor o amici. È ovvio che se alla prima difficoltà ci si abbatte da subito significa che probabilmente la cosa che piaceva era l’idea di arrivare facilmente alla riconoscibilità e non scrivere. Se ti piace scrivere lo fai comunque”.
Cosa ne pensi del successo?
“Penso che ci siano persone ben predisposte ad avere successo e ad entrare nel mondo in modo prepotente e altre che invece fanno anche cose creative, che si potrebbero prestare ad essere viste e lette da tanti, ma non hanno una natura di quel tipo. Quelle probabilmente vanno lasciate stare, altrimenti si rischia di farsi del male.
Credo che tutti quanti ci muoviamo su una retta che va dal ‘Voglio starmene da solo nella giungla per sempre’ al ‘Voglio andare al Madison Square Garden’, insieme a tutte le vie di mezzo. È importante che ognuno da solo identifichi la posizione che preferisce in questa retta e che gli altri non spingano affinché ci si discosti troppo da quel che si è, altrimenti diventa tutto molto frustrante”.
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