Romy, Oliver, Baria e Jamie stanno facendo il giro dei piccoli club dell’Europa.
L’ultima data del loro tour — che avrebbe chiuso un’epoca prima del salto nei grandi palchi — è proprio a Bologna, al Covo Club. È il 2009, loro sono gli XX, gruppo musicale indi pop britannico, e stanno viaggiando verso la consacrazione che li vedrà presto vincere importanti riconoscimenti ed essere molto richiesti come supporto sonoro per film, serie tv, sfilate di moda e spot pubblicitari. per capirci, una delle loro canzoni farà parte della colonna sonora de Il grande Gatsby di Baz Lurman.
Ma torniamo alla nostra serata. Mentre sono sulla tratta Roma-Bologna, un problema meccanico li blocca, il tourbus si rompe e il concerto sta per andare in fumo. Ma la band non ci sta e prende un treno al volo con strumenti, merch e gruppo spalla al seguito. Intanto a Bologna, lo staff del Covo si mobilita in una missione impossibile: recupera tutte le auto a disposizione, prenota i taxi e corre alla stazione per caricare tutto e tutti di corsa. Nel frattempo, il concerto è sold out e la fila arriva fino a San Donato. Gli XX passano in mezzo al pubblico con i flight case ancora caldi e, senza soundcheck, salgono sul palco. Mezz’ora dopo, il locale è pieno, la musica parte, il pubblico impazzisce. Nessuno, quella notte, si è accorto del caos scoppiato alle spalle dello show. Nessuno, tranne ovviamente chi l’ha vissuto.

Foto di Elisa Massara
Questa è solo una delle storie incredibili che animano il documentario dedicato al Covo Club, attualmente in fase di lavorazione, firmato dalla neonata casa di produzione Cinelicious, fondata da Claudia Mastroroberto e Alice Collinas. Il nome, composto dall’unione delle parole cinema + delicious, nasce con l’idea di creare un cinema “multisensoriale”: performance, musica dal vivo e anche piccole degustazioni legate ai film. Un’esperienza immersiva che unisce arte visiva e gusto, nel senso, si può dire, letterale del termine.
Ma allora perché raccontare il Covo Club? Perché questo piccolo club bolognese, aperto nel 1980, è sempre stato molto più di una sala concerti. È un luogo di culto per la musica indipendente, un pezzo di memoria viva della città, e una tappa importante nella carriera di molte band oggi leggendarie. E proprio per questo c’è urgenza di raccontarlo: per dare voce a un archivio di storie, suoni e identità che altrimenti rischierebbero di svanire. “La prossima stagione sarà il quarantacinquennale del Covo. Se non siamo riusciti a festeggiare i 40 anni, vorremmo farlo per i 45″ mi dice Claudia. Il documentario di Cinelicious nasce proprio per raccogliere queste storie e farle conoscere. A disposizione c’è un vastissimo archivio: tantissimi video, locandine e testimonianze soprattutto dagli anni ’90 in poi (gli anni ’80, purtroppo, sono meno documentati). È un patrimonio visivo e sonoro che merita di essere valorizzato e raccontato con cura.

Foto di Elisa Massara
A dare il via a tutto è stata Claudia Mastroroberto, regista e fondatrice di Cinelicious, bolognese e frequentatrice del Covo sin dai tempi del liceo. Dopo una formazione a Palermo nel cinema documentario, Claudia torna nella sua città e — quasi per gioco, durante una chiacchierata estiva con gli amici che oggi gestiscono il club — comincia a raccogliere storie e materiali. È così che scopre che le mura del Covo testimoniano molto più di una semplice programmazione musicale: sono un pezzo di cultura cittadina. Parte il progetto del documentario, e anche un crowdfunding, ancora in corso, per sostenerne la produzione. L’obiettivo è completare le riprese, raccogliere nuove testimonianze, e far vivere la storia del Covo sul grande schermo.

Foto di Elisa Massara
Una storia fatta di presunte leggende e narrazioni documentate come quella dei Libertines, che nel 2002 hanno suonato al Covo quando ancora erano una promessa del rock britannico. Durante quella serata, Pete Doherty, che in fatto di altezza non scherza perché sfiora il metro e novanta, continuava a sbattere la testa contro una trave del camerino. Il suo compagno di band Carl Barât, per prenderlo in giro, decide di incidere sopra una frase che ancora oggi campeggia all’ingresso del backstage: “Mind your head, you lanky cunt” la cui traduzione non edulcorata potrebbe suonare come occhio alla testa, spilungone del cazzo!

Foto di Claudia Mastroroberto
Ma questa è solo una delle tante scritte lasciate dagli artisti sui muri del backstage, diventati ormai un diario visivo di passaggi illustri: da Mike Joyce degli Smiths ai Franz Ferdinand, passando per una lunga lista di nomi della scena italiana e internazionale.

Foto di Claudia Mastroroberto
Ad accompagnare gli aneddoti ci sono anche le leggende non verificate, che fanno parte del folklore orale del club: come quella secondo cui persino Bob Dylan, avendo sentito parlare del Covo da amici musicisti, decide di passarci alla fine di un suo concerto a Modena. Ma quando arriva, trova le serrande abbassate. Che sia vero o no, poco importa: il fatto che questa storia venga tramandata dice già tutto sullo status mitico del locale.
Se verba volant e scripta manent, una storia che non lascia spazio a dubbi è quella che racconta Samuel Romano, frontman dei Subsonica, durante un’intervista per il documentario. Proprio al Covo, il gruppo ha vissuto una delle prime grandi svolte della sua carriera. Quando ancora erano sconosciuti, racconta Samuel, contavano le auto nel parcheggio per capire quanta gente sarebbe arrivata. Poi un video su MTV cambia tutto, e al loro ritorno a Bologna li aspetta il primo sold out della storia della band. Il parcheggio? Pieno zeppo.

Foto di Elisa Massara
Chissà quante altre storie ci sono ancora da scoprire, dietro quella porta nera del Covo Club. Il documentario è un invito a ricordare, a partecipare, a sostenere. Perché certi luoghi sono archivi emotivi di tante generazioni, palcoscenici dove il futuro si è fatto presente, anche solo per una notte.
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