Un cerchio, un ritmo, una sfida. Sono i movimenti del corpo a raccontare storie e persone nel cypher, quel perimetro circolare che si forma quando i B-boy e le B-Girl si radunano per sfidarsi e ballare al ritmo della break dance. E così è stato anche lo scorso sabato, al TPO di Bologna, quando la battle ha sprigionato tutta la sua energia durante l’evento “Strictly Underground – Off the Grid Edition”, un raduno di breaker e artisti provenienti da tutto il mondo.
All’interno dello spazio di via Casarini, i gesti veloci e potenti sembrano scolpiti dall’energia e dalla volontà. Ma se è opinione comune che per volteggiare nel cerchio sia richiesta forza e muscoli di cui sono tipicamente dotati gli uomini, ci sono anche voci discordanti. Chi dice che servano davvero? Non Eka, che negli anni ‘90 a Bologna a fare breaking era l’unica ragazza. Per lei, non è mai stata una questione di apparenze, ma di cuore, dedizione e passione.
Abruzzese di nascita, bolognese d’adozione, Eka, all’anagrafe Francesca Pallotta, è una pioniera della scena italiana. Fondatrice della crew Wired Monkeys e membro della statunitense No Easy Props, da tanti anni porta avanti il breaking come linguaggio di resistenza e inclusione.
In questa intervista ci racconta il suo percorso tra Bologna, New York e Los Angeles, le sfide dell’hip hop al femminile e il valore di una cultura che continua a trasformare vite e strade.
L’Hip Hop nasce come espressione di comunità marginalizzate e promuove messaggi di pace, condivisione, divertimento e consapevolezza sociale. Cosa significa per te oggi, nel 2025, far parte di questa cultura?
Se parliamo di hip hop che promuove un messaggio positivo sono fiera di far parte di questa cultura. Ogni giorno mi imbatto in diverse sfaccettature della parola con cui viene chiamato l’hip hop. Per ciò che mi riguarda spingo il concetto di hip hop conscious, un messaggio che ha come slogan peace, love, unite and having fun – tratta dal titolo di una canzone scritta nel 1984 da Afrika Bambaataa e James Brown, e simbolo di questa cultura. Se parliamo di questo hip hop sono molto fiera di rappresentare questa disciplina da trent’anni.
Bologna ha una lunga tradizione legata all’Hip Hop e al breaking. Quali sono, secondo te, i fattori che hanno contribuito a rendere questa città un punto di riferimento per la cultura underground in Italia?
Negli anni ’90 ci sono stati più fattori che hanno influito. Sicuramente la posizione, perché Bologna è facilmente raggiungibile da tutti. Inoltre è sempre stata una città aperta a livello sia culturale che sociale. Tutte le menti brillanti son finite qua. E messe tutte insieme hanno creato un movimento incredibile, partendo dall’Isola nel Kantiere per poi passare al Livello 57. Pensiamo che negli anni ’90 al Tpo ci sono state le prime serate in Italia di artisti americani. Questa città è stata un centro focale, a livello nazionale, per la crescita dell’hip hop e dell’underground in generale. Anche altre città italiane hanno avuto la propria scena per carità, ma a Bologna ci sono passati proprio tutti.
Hai vissuto sia a Bologna, considerata appunto un fulcro della scena underground italiana, che in città iconiche per l’Hip Hop come Los Angeles e New York. Quali sono le principali differenze che hai riscontrato tra queste scene?
L’hip hop è nato in America, soprattutto a New York. Lì tutti i muri trasudano hip hop. Anche la nonnina ascolta Aretha Frankin o i pezzi che noi balliamo. È abbastanza impressionante se non ci sei abituato. Non fa certo parte della nostra cultura. Qui noi eravamo quelli strani col cappellino, là è strano che non ce l’hai il cappellino. Quando arrivi negli Stati Uniti, se sei dentro questo mondo, rimani piacevolmente colpito dal fatto che ti ritrovi tra i tuoi simili.
Questa è la principale differenza. In Italia tutto arriva dopo: gli album, la musica, i pezzi, gli argomenti. Adesso con internet stiamo più al passo. Però non sei nato lì, non lo respiri per strada. Lì è una cosa che appartiene a tutti, qua solo ad alcuni.
Sia internet che l’ hip hop nascono a grandi linee negli anni ’70. Recentemente lo sviluppo impressionante delle rete e l’esplosione dei social media hanno avuto un impatto significativo sulla diffusione e sulla fruizione di questa cultura. Quali sono, secondo te, i pro e i contro di questo cambiamento?
Uno dei pro può essere che se non ti lasci schiavizzare, internet ha il vantaggio di rendere fruibili immediatamente moltissime informazioni. Conta che per vedere il mio primo video, io ho aspettato la mia prima VHS per 30 giorni! Oggi se accendi il computer o il telefono ce l’hai a portata di mano, beh diciamo che è molto utile. Purtroppo però viene utilizzato poco per l’informazione e molto per fomentare il proprio ego e quindi invece che andare a fare ricerca, molti passano tempo su Instagram a cercare follower. Questo invece è un grosso contro a mio parere. Tutta l’attenzione viene ridotta a 30 secondi, i video sono veloci, si cercano solo i likes. Pensa che io non ho neanche internet quando sono in giro. Non ho proprio i dati nel telefono. Accedo solo dove c’è il wi-fi. Perché alla fine se ce l’hai, sei portato a guardarci. Chi mi conosce lo sa: se è grave può chiamare! Insomma, provo a non essere schiavizzata.
Fai bene.
Finché tengo botta. (Ridiamo)
Beh, sei in controtendenza e questo è anche un po’ parte della cultura hip hop.
È sempre stata una cultura dal forte impatto che urlava la sua indipendenza e urlava forte chi siamo e cosa facciamo.
Ritornando ai parallelismi tra Bologna e NY e LA, ci sono invece elementi della scena italiana che pensi siano unici e meritino di essere valorizzati?
Il primo elemento a cui penso è l’MCing. Se sai fare il rap in italiano e suona bene, riesci a dare un messaggio e ad ampliare le tue utenze perché non tutti conoscono l’inglese. Bisognerebbe valorizzarlo un po’ di più e dare dei messaggi piuttosto che mettere le parole in fila e fare la rima perché allunga l’ultima lettera.
Su questo sono un po’ radicale. Sono cresciuta qui a Bologna negli anni ’90 ascoltando Neffa, Deda, Kaos, Graff…non devo aggiungere altro, questi nomi parlano da soli. E questo è il rap che mi piace. Bisognerebbe continuare a farlo in quel modo, dando dei messaggi e soprattutto spingendo le persone ad essere esseri umani migliori, a tirar fuori…la cazzimma. Si può dire?
E diciamolo! Ti chiedo un’ultima cosa. Tu oggi insegni breaking. Fin dalla nascita dell’hip hop, le donne sono state presenti. Poche ma presenti. Inoltre rispetto alla danza convenzionale, qui non ci sono distinzioni di sesso, nel senso che non esistono passi per uomini e passi per donne. E anche se in minoranza, il Breaking ha sempre avuto B-Girl importanti. Come vedi i due contesti Italia e Stati Uniti per quanto riguarda la presenza femminile nell’hip hop? Vuoi lanciare un messaggio ai giovani, e in particolare alle ragazze, che si stanno avvicinando a questo mondo?
Parto prima dal messaggio. Un consiglio che posso dare è non mollare mai. Perché, diciamocelo pure, i numeri sono quelli che sono. Oggi ci sono abbastanza ragazze nella scena del breaking, però quando ho iniziato io, a Bologna ero l’unica.
Il mondo dell’hip hop tende ad attrarre e a presentare stereotipi maschili. Ti faccio un esempio: se fai il breaking, dovresti avere i muscoli sviluppati e quindi essere un uomo o avere una fisicità molto mascolina. In realtà non è vero perché ci sono delle ragazze bravissime e non certo connotate da una muscolatura vistosa. Una difficoltà per le ragazze è l’approccio perché sei sempre una versus sei o sette. E conta che adesso sono i ragazzi sono decisamente più accoglienti. Negli anni ’90 non è che si scherzava tanto. Nessuno ti spiegava niente, dovevi guardare da lontano e imparare da sola.
A volte ti chiedevi: ma a me chi me lo fa fare?
Però sei stata tosta tu.
Come dice mia madre sono una capocciona. Forse mi ha aiutata il fatto che mi piaceva moltissimo ballare e a Pescara non ho mai avuto nessuno con cui farlo, quindi quando sono arrivata qua…
E poi considera che ho iniziato con lo skate, e a numeri siamo là. Anzi c’erano più ragazze che skatevano che ragazze che ballavano. A Bologna eravamo in tre a skeatare.
Grandi numeri insomma…
Esatto! Alla fine il mio messaggio è: se ti piace, fallo proprio perché ti piace e non mollare. La gente parla tanto e a sproposito e lo farà sempre, ma se a te piace una cosa, falla.
Negli Stati Uniti, essendoci molto più rispetto la cultura hip hop in generale, la situazione cambia. Ti faccio un esempio. Asia One è una famosa B-Girl americana. Se la nomini la gente, fa l’inchino. È un segno di profondo rispetto per chi c’era prima di lei e questo sicuramente aiuta le donne a sentirsi meno inibite.
Indipendentemente se sei un ragazzo o una ragazzo, se sei coerente, se balli in un certo modo e se segui una determinata filosofia di hip hop, tutti ti portano rispetto. Qua in Italia diciamo che è un po’ differente – ride.
Siamo indietro perché non è il nostro tessuto culturale e storico ma ma ci stiamo lavorando. Pian piano arriveremo anche noi a mettere giurie solo femminili per gli open dove partecipano anche i B-Boy, cosa che negli Stati Uniti è la invece prassi.
Mi stai dicendo che l’America sa valorizzare meglio la propria componente femminile in ambito hip hop?
Secondo me sono più furbi. Se vedono qualcuno che è bravo, se lo tengono stretto e lo valorizzano. Quando sono andata in America, mi hanno chiesto: quanti anni hai? Il fatto che ne avessi 46 e ballassi ancora, per loro era già un motivo di rispetto, in automatico. Quindi si, sono più furbi perché tendono a tenersi stretti quelli che che loro ritengono elementi di valore.
Ma è anche giusto così, no?!
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