Un pullman percorre la lunga strada tra i campi che precede l’ingresso ad Avetrana, paese di poco più di seimila anime nella provincia di Taranto, in Puglia. Porta una manciata di turisti in visita a quella che fu chiamata la Villetta degli orrori, da cui nel 2010 Sarah Scazzi è scomparsa per non fare mai più ritorno.
Fu ritrovata quaranta giorni più tardi in un pozzo, dopo essere stata strangolata. La cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano sono state entrambe condannate all’ergastolo per l’omicidio, aiutate dallo zio Michele Misseri, condannato a otto anni di carcere e tornato in libertà lo scorso febbraio, che ancora oggi continua a dichiararsi l’unico colpevole. Ma no, Qui non è Hollywood. Non c’è niente di spettacolare da vedere.
La serie Tv Qui non è Hollywood, diretta da Pippo Mezzapesa, prodotta da Matteo Rovere e tratta dal libro Sarah. La ragazza di Avetrana di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, racconta una delle storie più atroci della recente cronaca italiana partendo dalla nostra pancia, dall’ossessione di sapere, giudicare, condannare, da quel piacere per i dettagli più morbosi che è uscito dai confini privati per trasformarsi in uno show mediatico senza precedenti. Un delitto consumato tra le pareti umide di un garage e sfociato in una piazza pubblica dove ciascuno ha avuto il suo ruolo: dai protagonisti in cerca di visibilità ai giornalisti a caccia di notizie, dagli opinionisti nei salotti televisivi ai compaesani, fino a curiosi arrivati da tutta Italia e accampati per settimane davanti alla villa. Un rumore diffuso e costante che ha avvolto Avetrana, senza più lasciarla.
La serie disponibile su Disney+ ci mette davanti alle nostre bassezze. Ci fa vedere chi siamo, ci costringe a guardare il nostro riflesso e a farci i conti, mentre rappresenta il male che si annida nella quotidianità di una famiglia come tante, dietro le tende tirate, attorno alla tavola da pranzo, nel buio di un garage, tra i non detti.
Quattro episodi, un racconto a più voci che sposta il punto di vista su ciascuno dei quattro personaggi al centro della vicenda e ne restituisce tutta la complessità. Ad interpretarli un cast formato da Vanessa Scalera (Cosima Serrano), Paolo De Vita (Michele Misseri) Giulia Perulli (Sabrina Misseri), Federica Pala (Sarah Scazzi). Intorno a loro Imma Villa (Concetta Serrano), Anna Ferzetti (giornalista Daniela), Giancarlo Commare (Ivano), Leonardo Bianconi (Claudio Scazzi) e Antonio Gerardi (maresciallo Persichella).
L’omicidio è sullo sfondo, la macchina da presa entra dritta nelle emozioni, nelle relazioni, e trascina i protagonisti sempre più a fondo mentre la società piano piano li inghiotte. Riprende le mani di Sabrina Misseri che esplodono di rancore mentre davanti allo specchio cerca di strapparsi la pancia per poi continuare in una discesa senza freni dentro le pieghe di una feroce gelosia, entra negli occhi esausti di Michele Misseri, incastonati in un volto segnato dalla vita, attraversa lo sguardo di pietra di Cosima Serrano, disposta a tutto per coprire la sua famiglia, guarda i desideri di una ragazzina di 15 anni in cerca di quell’affetto che non riusciva a sentire dalla madre.
Ci ritroviamo dentro quella villetta, a tu per tu con i turbamenti, le confessioni, gli errori e le resistenze di Sabrina, Cosima e Michele. Ciascuno è divorato dalle proprie zone d’ombra e lasciato in pasto a sé stesso e all’opinione pubblica. Mentre attorno ai protagonisti una giostra di personaggi davanti e dietro le telecamere sembra dirci che la miseria umana non è solo dietro le pareti di quella villetta, è ovunque.
“Il caso è risolto solo al 95%”, dirà il Pm in conferenza stampa. La serie ci lascia in bilico tra il sapere e il non sapere, ci trascina dentro l’interiorità di ciascuno dei personaggi lasciando volutamente un dubbio. E non ci porta dentro il pozzo dove è stata ritrovata Sarah, non asseconda la nostra sete, ma ci cala piano piano dentro il pozzo nero di un orrore fatto di silenzi, omissioni, mezze verità, volti impenetrabili, aberrante curiosità. L’acqua è torbida, ma Mezzapesa lascia spazio anche alla tenerezza, quella di Claudio Scazzi, fratello di Sarah, interpretato dall’attore bolognese Leonardo Bianconi. Un amore fraterno che accoglie, sostiene. Abbraccia.
Leonardo, abbiamo seguito nel tempo il tuo percorso professionale, siamo stati il primo giornale ad intervistarti agli esordi di NarrandoBo e successivamente in occasione del film 50km all’ora. Come sei arrivato a questo ruolo?
Sono contento di tornare qua visto che ormai About è diventata casa, essendo state le prime ad interessarvi del mio lavoro. Sono arrivato a questo ruolo nella maniera classica. La mia agenzia mi ha inoltrato un self tape, ovvero una scena da registrare con il cellulare, poi sono stato selezionato e chiamato in presenza. Il percorso tradizionale attraverso cui vengono assegnati i ruoli e che avevo già sperimentato anche con Rapito di Marco Bellocchio.
Era una scena del film?
Era una scena del film, poi accorpata e inserita in modo diverso. Mi ero molto affezionato a quella scena perchè era stata quella con cui avevo vinto il provino.
Claudio Scazzi è un duro, ma dalla sua prima apparizione lascia intravedere il suo ruolo rassicurante, protettivo nei confronti della sorella Sarah, in contrapposizione invece alla durezza della madre Concetta. Si è trasferito a Milano per lavoro ed è la parte maschile della famiglia che manca a Sarah, rimasta ad Avetrana. Quell’amore, quell’affetto, che Sarah sogna e che ricerca. Come ti sei preparato a questo ruolo? Quale è stato il tuo percorso, a partire dalla preparazione fisica?
La durezza di Claudio è data dall’aspetto fisico: non ha peli, sopracciglia, barba, è calvo, ha un piercing importante sul setto nasale. Mi è stato applicato proprio un prostetico sulla prima parte del volto che mi copriva le sopracciglia e allargava la parte del setto nasale. Una durezza che è stata costruita quindi grazie al lavoro di artiste straordinarie e che poteva creare una sorta di distanza rispetto ad un’empatia che invece si sviluppa nel corso della serie. Questa è una serie dove ci sono state modifiche anche fisiche importanti, non parlo solo di me, ma anche di Vanessa Scalera ad esempio, nel ruolo di Cosima, che è stata completamente cambiata.
L’ho trovato l’unico personaggio capace di trasmettere affetto, protezione. C’è anche l’amore in questa serie.
C’è un rapporto di amore fraterno, sia da parte di Claudio verso Sarah, che di Sarah verso Claudio. Claudio è un fratello che si prende cura della sorella, che vorrebbe restare ma è costretto a tornare a Milano. Tra i personaggi è quello forse più capace di dare affetto e nella parte finale emerge ancora di più. L’amore nella famiglia Scazzi è molto trattenuto, sia da parte della madre Concetta che del padre. Non sono mai plateali, hanno emozioni che rimangono molto interne, a differenza di Claudio.
Quale è stato invece il percorso dal punto di vista psicologico e cosa c’è, di Claudio Scazzi, in te?
Claudio è una persona che esiste realmente e questa è una storia molto intensa che ha toccato davvero tutta Italia. Sicuramente ho cercato di lavorare in profondità, partendo da me stesso, chiedendomi per prima cosa cosa significasse essere fratello.
L’hai mai incontrato?
No, non l’ho mai incontrato. Mi sono preparato leggendo il libro da cui è stata tratta la serie, ho guardato e letto materiali che potessero aiutarmi e ho fatto anche un grande lavoro sulla lingua insieme ad un coach, Vito Mancini, attore di Avetrana che mi ha insegnato il pugliese.
Dal 26 agosto 2010, giorno della denuncia di sparizione di Sarah, l’attenzione di tutta l’Italia si è spostata ad Avetrana. Come è stato lavorare ad una serie tratta da uno dei fatti di cronaca che più ha sconvolto l’Italia. Che responsabilità hai sentito?
Avetrana non riesce a non far parlare di sé, è stata una vicenda che ha avuto un’eco e che ha visto una sorta di morbosità intorno al caso che emerge molto chiaramente nella serie, a partire dal titolo. È stato quindi un percorso e un viaggio molto intenso, mi sono sentito responsabile nell’affrontare questo progetto e questa sfida attoriale ma in una dimensione più profonda e personale. È una storia che tutti quanti ricordiamo e conosciamo quasi nei minimi dettagli, quindi mi sono posto con un’attenzione diversa rispetto ad una storia di fantasia, con uno sguardo e una sensibilità diversa e che ho cercato di far arrivare.
Hai avuto qualche timore?
Vista a distanza potrebbe spaventare, ma non ero solo, ero in un contesto produttivo insieme ad artisti straordinari e quindi anche questa responsabilità si è ammorbidita
E timore dell’opinione pubblica?
Mentre giravamo avevamo già la sensazione di stare facendo qualcosa di molto intenso e molto umano, chiaramente inteso in senso ampio, e sapevamo che questo non sarebbe potuto non arrivare. Ci siamo fidati anche del taglio che ha dato il regista, molto viscerale, carnale. In questa serie c’è la terra, c’è la carne, ci sono tanti elementi che raccontano quell’universo che si è mosso intorno all’omicidio: dal turismo dell’orrore a tutte le vicende che vengono narrate nella serie.
Qual è stato l’aspetto più difficile?
L’aspetto forse più difficile era nelle mani del regista. Lui è riuscito a giocare sul filo di una somiglianza totale dei personaggi, siamo quasi loro, siamo quasi dei sosia. E riuscire a non scadere nel grottesco era una sfida altissima.
Come è stato lavorare con Pippo Mezzapesa e quale aspetto hai più apprezzato del suo lavoro?
Pippo Mezzapesa una persona con le idee davvero molto chiare, è uno di quei registi che sa quello che sta facendo e quando quella sicurezza passa agli attori, anche loro si sentono più tranquilli nell’affrontare le scene. Poi sapeva molto bene come trattare questo tipo di tematica, questa terra, questa lingua.
Il titolo, Qui non è Hollywood, riprende una scritta comparsa in quei giorni sul muro di una villetta di Avetrana. Questo titolo indica infatti la spettacolarizzazione di questa vicenda. A cosa serve, secondo te, la fiction, nel restituire un fatto di cronaca, in particolare uno dei casi di cronaca nera più feroce della recente storia italiana, e cosa vuole far arrivare questa serie?
In qualche modo la fiction e l’arte sono una sorta di lente d’ingrandimento di quella che è la società, nel bene e nel male. Qui non è Hollywood gioca un pò sul filo del rasoio, a partire da titolo, di una vicenda che ha scosso tutti, mostrando l’amplificazione e anche la morbosità che hanno messo in atto i mass media. Credo che questa fiction riesca a far vedere questi elementi. Elementi che fino ad ora sembravano confusi perchè li stavamo vivendo in prima persona, mentre ora che siamo più distaccati riusciamo a leggerli con una lucidità diversa.
Da una parte indubbiamente questo, dall’altro leggo un secondo piano: ovvero un viaggio introspettivo dentro ciascuno dei quattro protagonisti della serie, che ai tempi guardando la televisione e leggendo il giornale non percepivamo. Un aspetto umano, nonostante l’orrore. Ciascuno di noi può trovarsi in alcuni aspetti, contraddizioni, dinamiche, relazioni, emozioni. Un angolo che non emerge dalla cronaca, ma che la fiction riesce invece a fare emergere in modo esemplare.
Questa cosa me l’hai fatta notare tu. Avendo vissuto la storia dall’interno conoscevo bene questa vicenda e come la stavamo trattando, quindi probabilmente questo aspetto l’ho dato anche un pò per scontato.
In ogni episodio, ciascun personaggio diventa sempre più grottesco, mano a mano che il regista scava nel loro vissuto…
Penso che sia davvero l’umanità quello che Mezzapesa riesce a dipingere. Questo lato della fiction ti porta in qualche modo a vedere anche un pò te stesso, alcune dinamiche, anche se in scala minore. In questo senso ne esce un’umanità. Un’umanità piena di dubbi, piena di conflittualità, piena di cose anche molto concrete e Pippo è riuscito a rendere questo in modo magistrale.
Quale è stato il commento di chi ha visto la serie, che ti è rimasto più impresso?
Ho sorriso quando una mia amica mi ha scritto per riferirmi che un cittadino di Avetrana aveva chiesto come avevo fatto a parlare così bene l’avetranese, e mi ha chiesto di mandargli un messaggio vocale. Così, ho mandato un vocale ad una persona che non conoscevo per raccontagli tutto il percorso che avevo fatto.
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