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“Tesori Abbandonati”, gli esploratori di luoghi dimenticati che vanno a caccia di storie

07-12-2021

Di Luca Vanelli
Foto di Tesori Abbandonati

Non si può leggere nel cuore,
ma specialmente nel tuo cuore.
Non ci si può capire niente.
Parli di tutti e mai di noi.

Non si può amare senza amore.
Non si può avere senza dare.
Sapere se mi ami o no.
E cosa pensi tu di me,
ma non si legge nel tuo cuor
(Non si può leggere nel cuore – i Campanino)

È una torrida estate del 1968 e due adolescenti si accarezzano la schiena ballando questo lento all’inaugurazione del Woodpecker di Milano Marittima. Stanno iniziando a esplorare i loro corpi con tocchi delicati. C’è vita, c’è amore, c’è passione e nessuno in quel momento sa che di quel luogo, quasi cinquant’anni dopo, rimarranno solo sterpaglie, grilli e un pezzo freddo di cemento abbandonato.

Ma è da qui che nasce una nuova storia di passioni ed esplorazione: il profilo stilizzato della cupola del Woodpecker diventerà infatti il simbolo ufficiale di Tesori abbandonati, un gruppo di giovani ragazzi riuniti nella ricerca adrenalinica di luoghi abbandonati. Il Woodpecker è uno dei primi luoghi a essere scoperto da Federico Limongelli, uno dei fondatori del gruppo, che mi ha raccontato cosa significa essere Urbexer, cosa si prova a diventare, come dice un suo collega francese, «drogati di adrenalina» e come ci si sente ad avere un faccia a faccia con un corvo.

Ammetto di avere una certa repellenza per i termini in inglese a tutti i costi: esiste un termine italiano per indicare gli Urbexer?

«Anche a me non entusiasma come termine, faccio fatica a tollerarlo. Urbex è l’abbreviazione di “Urban Exploration”, quindi chi compie questa attività può essere definito un esploratore. A volte ho sentito anche cacciatori di luoghi abbandonati, ma esploratori mi sembra una definizione più ampia e adatta».

 

Quando nasce questa esplorazione urbana?

«È difficile trovare una data esatta: per convenzione si parla di un primo esploratore di catacombe parigine, che verso la fine del ‘700 divenne celebre per la sua morte prematura, probabilmente disperso in una fitta rete di gallerie sotterranee. Il suo corpo è stato trovato dieci anni dopo la sua morte. Da quel momento in diversi hanno iniziato a esplorare catacombe e non solo, come altri luoghi vietati e inaccessibili».

In Italia quanto è diffuso il fenomeno?

«In Italia, rispetto ad altre zone come Francia, Belgio e Germania, l’attività è cominciata leggermente più tardi. Se in Europa vent’anni fa erano già diversi i gruppi di esplorazione, qui dieci anni fa eravamo ancora in pochi. Ora c’è stata una piccola esplosione, probabilmente anche grazie a documentari, serie tv e video su YouTube che hanno avvicinato tanti a questo tipo di esplorazione».

 

Ma tu come ti sei ritrovato in questo mondo di esplorazione?

«Io, fin da ragazzino, ero attratto dai luoghi in stato di abbandono: ero curioso, ma amavo anche il silenzio e i momenti di solitudine. Portavo con me la macchina fotografica e scattavo con la paura di essere beccato: non postavo i miei scatti sui social perché la vedevo come un’autodenuncia. Poi ho visto tante persone condividere, e allora ho cominciato anche io, raffinando sempre più la mia tecnica».

Tesori Abbandonati nasce anche da qui, giusto?

«Sì, ho scoperto di condividere questa passione con alcuni amici storici e così abbiamo aperto il nostro spazio social, senza particolari pretese. Caricavamo le nostre foto, anche bruttine, insieme alla storia del luogo e le emozioni che provavamo. Da allora abbiamo riunito una comunità di quasi 80mila persone, fino ad essere una delle realtà più seguite e attive del panorama italiano (insieme ad altre, come Ascosi Lasciti): è una bella soddisfazione per noi».

 

Qual è il futuro di Tesori Abbandonati?

«Non ci poniamo particolari limiti: quello che arriva lo prendiamo, senza nessuna fretta. Ci piacerebbe realizzare un sito per pubblicare i nostri articoli e creare un archivio verso il passato più accessibile. Lavoriamo tutti, quindi non abbiamo molto tempo, ma stiamo cercando di raccogliere qualche donazione per provare a lanciare il progetto».

Toglimi la curiosità: ho notato che non si mette la via dei luoghi o la geolocalizzazione. Come mai?

«Non si mettono principalmente per due motivi. Il primo è evitare che ladri e vandali vadano a svaligiare o distruggere i luoghi: sedie, letti e divani sparirebbero in mezza giornata. Il secondo è legato al senso della ricerca: da un lato ho investito del tempo trovare un posto e non voglio regalarlo; dall’altra si guasterebbe il gusto della ricerca, che è uno degli elementi più divertenti».

 

Cosa ti ha insegnato negli anni l’esplorazione di questi luoghi abbandonati?

«Penso che l’esplorazione di questi luoghi mi abbia regalato una nuova attenzione per i dettagli e il bello negli spazi che frequento tutti i giorni. Ora apprezzo sempre di più ciò che osservo e ne noto la presenza: affreschi, decorazioni, facciate liberty».

 

Un valore della bellezza che forse oggi ha perso una parte della sua importanza…

«Ti dirò di più, oltre alla bellezza, noti anche la cura per la costruzione di un luogo. Trovo edifici molto vecchi che, seppur abbandonati da anni, sono in condizioni migliori di alcune strutture moderne tirate su in fretta: noti come prima si costruiva per far durare gli edifici il più possibile. Mi chiedo sempre come mai i proprietari di questi luoghi abbiano scelto di abbandonare per anni posti così incantevoli, rimanendo magari in appartamenti sterili e senza anima».

Mi sembra di notare che ci sia una fortissima volontà di ricostruire anche la storia di questi luoghi, non solo immortalarli. Qual è il luogo con la storia che ti ha colpito di più?

«Sono particolarmente legato a una casetta di campagna dove vivevano due fratelli, entrambi professori. Decisero di lasciare ogni comodità per vivere con i frutti della loro terra: staccarono luce, acqua corrente e abbandonarono il lavoro. Lei pittrice, girava solo in tacchi per casa, e lui scultore, l’unico che andava in paese in bicicletta a fare i pochi acquisti.

Per la loro vocazione artistica, tutta la casa nel tempo si è riempita di disegni e sculture. In paese c’erano molte  leggende: una su tutte il fatto che facessero le statue in modo da attirare i bambini, per poi ucciderli e mangiarli. In realtà erano bravissime persone. Vivevano tutto il loro tempo in questo mondo parallelo costruito da loro».

 

In un’intervista hai detto: «Luoghi che frequentavo fin da ragazzino, ma che mi guardavo bene dal fotografare per timore di venire sorpreso». Se ne va mai il timore di essere scoperti?

«L’adrenalina e la paura sono ingredienti fondanti dell’esplorazione. Incontrai un collega francese in una villa, un giorno, che mi disse: “Siamo dei drogati di adrenalina”. Siamo sempre un po’ alla ricerca del limite e del superamento di questo limite, per fare un qualcosa di più».

Ci sono anche dei rischi a svolgere questo tipo di attività di esplorazione cosa si rischia per davvero?

«I rischi ci sono: farsi male, essere beccati, fare incontri indesiderati come senza tetto o persone occupanti. Tutti elementi che possono accadere, ma ogni esplorazione ha dei momenti che ti portano a desiderare ancora di più di rifarlo, come anche solo trovare una stanza meravigliosa».

 

Momenti particolarmente memorabili delle tue esplorazioni?

«Una volta pensavo ci fosse una finestra rotta perché sentivo come un rumore di vento, mentre alla fine era un uomo che stava dormendo e russava. Ho anche sentito bussare forte a una finestra al secondo piano, senza potermi dare una spiegazione logica: una cornacchia enorme stava cercando in tutti i modi di sfondare il vetro e aprire la finestra. Momenti da far accapponare la pelle.

Ricordo anche, però, un episodio col sorriso. Eravamo in macchina e abbiamo puntato il navigatore al posto che volevamo visitare, un vecchio luna park. Il navigatore, una volta avviato, ha sentenziato: “La meta selezionata potrebbe esser chiusa”. Eh beh, ci mancherebbe, per fortuna!».

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