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Maurizio Fiorino dal DAMS a Manhattan. Intervista al giornalista, fotografo e scrittore di “Autoritratto newyorkese”

27-10-2023

Di Silvia Santachiara, Beatrice Belletti
Foto di Beatrice Belletti

«Cerco la storia dentro la storia, che poi è quella che mi interessa e che abbiamo tutti. Mi piace andare oltre l’apparenza, capire il perché di un atteggiamento o di una scelta» Maurizio Fiorino

Maurizio Fiorino è giornalista, attualmente collabora con la Repubblica, D e Robinson, è fotografo, le sue opere sono state esposte in diverse gallerie americane e italiane, ed è scrittore. Il debutto editoriale risale al 2014 con Amodio, seguito da Fondo Gesù, Ora che sono Nato, Macello, fino all’ultimo sforzo letterario di recente pubblicazione: Autoritratto Newyorkese.

Nato nel crotonese, trasferitosi a Bologna per frequentare il DAMS per poi lasciarsi tutto alle spalle e volare a New York per frequentare la scuola di fotografia International Center of Photography. Nella Manhattan iconografica, sporca e graffiante che il suo romanzo ritrae, Fiorino, c’è rimasto per 10 anni, realizzando il sogno, e sfamando quel desiderio di comprendere e oltrepassare i suoi limiti per cui aveva lasciato l’Italia e molto di più. Ora vive a Milano e torna a Bologna spesso per nostalgico affetto. Lo abbiamo raggiunto tra le strade del capoluogo lombardo per parlare del suo ultimo libro e ripercorrere insieme i suoi anni di formazione professionali e personali.

Quello di Autoritratto newyorkese è un amore ossessivo, manipolatorio, di dipendenza affettiva, che li consuma e trascina sempre più a fondo mentre si muovono in una città che piano piano li inghiotte. Disillusi, inquieti e tremendamente soli, i protagonisti si mangiano la vita, mentre la vita mangia loro. Si agitano dentro ad un vuoto interiore che diventa, giorno dopo giorno, un abisso da cui è sempre più difficile risalire. Non ci sono appigli, scorciatoie o vie di fuga da se stessi. E mentre sullo sfondo si susseguono insoliti personaggi in cerca d’affetto, stanze a ore, droga, violenza e padri mai cresciuti, questo romanzo sembra dirci che forse, solo chi ha una passione, si salva da solo.

Maurizio Fiorino © Beatrice Belletti

Un odore, un sapore e un fermo immagine dei tuoi anni a Bologna che ti sei portato oltreoceano?

«Odore: il parmigiano, mi viene in mente quel negozio che sta infondo a via Oberdan, forse non c’è più…

Fermo immagine: Strada Maggiore di notte, mentre tornavo a casa, abitavo in via Mazzini, quando andavo a ballare tornavo sempre a piedi.

Sapore: i tortelloni burro e salvia, ripieni di ricotta».

 

Come la vedi dal punto di vista del fermento artistico e creativo?

«Quando sono venuto a studiare al Dams c’era quell’immaginario di Bologna legato a Francesca Alinovi e Umberto Eco e nel mio immaginario di crotonese è sempre stato un punto di riferimento a livello artistico. Non ci vivo più dal 2007 ma i miei amici che ancora ci vivono – e quando torno lo vedo anche io – mi dicono che Bologna è una città con tanto fermento creativo dovuto ai tanti artisti, studenti, scrittori e cantanti, da cui la città trae beneficio. Ho l’impressione che Bologna l’arte ce l’abbia proprio nelle ossa quindi anche nei momenti più cupi e bui rimane sempre una città dall’identità artistica molto forte».

 

Ogni volta che torni, dove vai?

«Dal Forno Brisa, subito, mi piace tantissimo il loro pane. Tra l’atro loro sono allievi di Davide Longoni, che è il mio panificio preferito qui a Milano. Poi il caffè lo prendo da Aroma, e vado a mangiare da Bertino. Per i libri passo sempre da Igor ( la libreria dentro Senape Viviaio Urbano, dove Fiorino ha presentato il suo libro il mese scorso). Mi piace camminare per la città, essendo piccola, da via Zamboni e via Marsala ci passo sempre, anche se quando vivevo a Bologna vivevo soprattutto il quartiere Mazzini, il Cassero di Matteo Giorgi, ci andavo ogni sabato e il Kinky, per la vita nottura. Questi rimagono i miei punti di riferimento.

 

Nel 2007 sei andato a New York per frequentare l’International Center of Photography.  In un’intervista hai detto: “Avere fame è sicuramente il fattore più brutto di quando hai pochi soldi. Bisogna allenare lo stomaco. Ma la fame che provavo in alcuni periodi newyorchesi era la stessa fame che avevo nei confronti della vita, tenevo a bada la prima e saziavo la seconda”. Cosa stavi cercando a New York? 

«Cercavo di diventare fotografo. Ho accettato i soldi dei miei genitori per soli tre mesi, poi non ho più voluto alcun aiuto e da quel momento in poi è iniziata la vera esperienza, perchè quando non hai le spalle coperte te le devi coprire tu, per forza di cose. In questo senso fame. Ma era anche una fame di altra natura. Sentivo di avere un talento fotografico e legato alla scrittura. A 22 anni però non hai le idee chiare, quindi hai anche la fame di farcela, come racconto anche nel mio romanzo, la fame di arrivare alla fine del mese o meglio della giornata a New York. È talmente intenso il giorno in quella città, che pensi sempre al presente».

 

Qual è stato il momento più difficile e quale invece l’incontro che ti ha lasciato di più?

«Il momento più difficile è stato un weekend con il mio ex ragazzo, avevamo entrambi 20 dollari per farcela. Io fumavo come un turco e già 10 dollari erano per le sigarette, quindi siamo stati un’ora dentro al supermercato cercando di capire come sopravvivere con quello che restava. Questo l’ho raccontato anche nel libro, avevo preso una bottiglia di olio e appena uscito mi è caduta e si è frantumata a terra.

L’incontro decisivo è stato con Luxor Tavella, una donna italiana che ha aperto il primo negozio a SoHo quando ancora il quartiere di non si chiamava così, che è mancata di recente, ma lei è stata un’istituzione per New York.

In un quartiere in cui non c’era nulla, gestito dalla mafia, lei ha aperto la boutique che è diventata il punto di riferimento per Andy Warhol, Basquiat, Madonna. Dopo due, tre mesi che ero a New York, lei è diventata un po’ come una mamma per me, andavo lì e mi raccontava la sua vita, e io le raccontavo i miei problemi. È stato l’incontro che più significativo».

 

Rientrato in Italia sei partito per un viaggio in Europa durato 7 mesi. Una scena che non puoi dimenticare. 

«Quando sono arrivato a Berlino avevo dimenticato il codice della carta di credito e ho dovuto aspettare l’arrivo di una lettera nella casa di Bologna dove avevo vissuto e che nel frattempo avevo lasciato. Ho dovuto quindi anche cercare di rintracciare gli inquilini. Sarei dovuto rimanere quattro giorni e invece sono rimasto a Berlino tre settimane. Era la seconda città che avevo in programma di visitare quindi questo inconveniente ha cambiato tutti i miei piani. Era un viaggio in giro per sedici città europee fatto in autobus e autostop. Per ogni luogo ci sarebbe una storia, ma questa è quella che d’istinto mi è venuta in mente».

In Autoritratto neworkese il protagonista fin da bambino scatta continuamente, quasi compulsivamente, foto di se stesso, per poi continuare a cercarsi in riflessi esterni o negli occhi altrui. Cosa sta cercando? E che relazione ritrovi con la compulsione del selfie e Instagram a distanza di anni?

«Era un’esercitazione, un modo per me di capire la fotografia, il perimetro, il contorno, la sfocatura. Il concetto stesso di fotografia, non c’era altro modo se non di fotografarci e portare il rullino a sviluppare e lì vedevi la composizione della foto. Era sempre un modo per dire io esisto, io ci sono, però penso ci fosse un senso di studio, oltre che di me stesso. È la storia di tutti i fotografi: il primo soggetto sei tu, e cerchi sempre te stesso anche in quello che fotografi. Oggi non riesco ad avere un’opinione netta, sicuramente sui social ci fotografiamo per dire io sono qui, sto visitando questo posto e mangiando questo piatto. Alla fine è simile a ciò che facevo io, solo con tempi più dilatati».

 

I protagonisti si mangiano la vita, niente è stabile, le loro vite sono vulnerabili e perennemente sul filo e sembrano faticare a raggiungere l’equilibrio che è richiesto agli adulti. Si sentono inadeguati. Ci sono spesso riferimenti ai loro padri, uomini fatti di silenzi. Quanto influisce l’infanzia e come ha influito la tua?

«L’infanzia influisce sempre, ma non c’è un modo di dire basta. Siamo la nostra infanzia. Quando nasciamo siamo delle tele bianche e quello che viviamo in famiglia e a scuola è quello che ci forma. In questo libro ho provato però a non metterci troppo questo aspetto perchè ho notato che nei romanzi di autofiction soprattutto italiani con un forte lato introspettivo si incolpano spesso i genitori. Lo capisco perchè quando si parla di sè non si può non parlare dei genitori, ma ad un certo punto bisogna anche accettarli e cercare di essere se stessi».

 

“Sei fortunato ad avere un sogno. Io non ne ho per questo continuo a bruciare tutto quello che ho attorno, così nessuno arriva a scoprire che non c’ho niente, dentro”. Quando sei un artista o hai un’inclinazione artistica, un sogno, una passione, magari persino talento, a volte può essere un peso; devi farci qualcosa, altrimenti lo sprechi. Quando e verso quale delle tue forme espressive hai provato ansia? 

«Sempre. Il peso fortissimo l’ho sentito tra il secondo e il terzo romanzo, pensavo che la mia vita vera fosse quella vissuta nel tempo tra un progetto e l’altro, poi invece mi sono reso conto che era quella che mettevo nei libri, che accadeva mentre io scrivevo. Quello è un peso perchè ti rendi conto di non avere una vita sentimentale o sociale classica. Sto sempre lì a pensare all’intreccio di quel libro, di quel personaggio, come può entrare in scena e come può uscire, quando consegnerò il romanzo e quando uscirà con quale editing e copertina… È un continuo, e fino a quel momento è stato un peso, poi l’ho accettato e adesso sono felice di quello che faccio.

Con la fotografia non ho avuto ansia perchè a differenza della scrittura, con cui sento di avere una voce mia, la fotografia che paradossalmente è quello che ho studiato, è stata una scuola di scrittura. Quando imposto un testo mi concentro molto sulla parte visiva, e soprattutto su quello che devo e non devo scrivere, come la foto necessaria e quella no. Con la fotografia il peso lo senti quando non riesci a pubblicare i tuoi scatti. Io fotografo poco e quando ho realizzato progetti ho potuto pubblicarli ed esporli, quindi non ho sentito quel peso forte che ho avvertito con la scrittura».

Maurizio Fiorino © Beatrice Belletti

Affronti il tema dei rapporti disfunzionali, tossici in qualche modo, ossessivi, manipolatori, di dipendenza affettiva con una dicotomia relazionale tra i due protagonisti di vittima e carnefice. Ma uno dei due riesce ad uscirne…è istinto di sopravvivenza? Forza o egoismo?

«Penso che sia spirito di sopravvivenza e voglia di farcela, ma anche per quanto riguarda questo romanzo, è capire il limite, capire fino a dove ci si può spingere. E poi penso che ci sia anche una perversione nel provocare l’altro per vedere le reazioni e poterle poi raccontare, quindi sì, c’è una vittima e c’è un carnefice, però mi piace che ad un certo punto si confondano le due. Nei rapporti interpersonali se c’è un “carnefice”, a volte, vuol dire che dall’altra parte c’è una “vittima” consapevole e disposta a quel ruolo. Per quanto riguarda l’esperienza con questo libro, sicuramente il protagonista provocava quelle reazioni, quindi era carnefice dell’altro e di se stesso. Anche spingere (un altro) ad essere violento, è una forma di manipolazione».

 

C’è una similitudine nell’approccio relazionale descritto nel libro e quello fotografico. Quando scatti è il filtro del tuo vissuto a ritrarre l’altro. Ritrovi questa dinamica nelle tue relazioni? 

«Avendo una memoria molto fotografica, intesa come costruzione di una foto, mi capita di relazionarmi con le persone ad un livello meno umano e più artistico. È difficile capirne i confini. Quando interagisci con una persona perchè vuoi fotografarla, o vuoi scrivere di lei, fai confusione a separare l’aspetto di interazione personale. Si riesce a fare nel momento in cui scindi: sono quello che creo oppure creo perchè sono una persona che semplicemente crea? Questo processo è stato molto faticoso per me per una grande parte della mia vita. Sicuramente negli anni New yorkesi era tutto un film, tutto una foto, tutto un progetto artistico, anche la vita quotidiana era un’avventura. Ho imparato con gli anni, però ho fatto molta fatica».

 

Il sesso attraversa trasversalmente i tuoi romanzi, è presente, è potente. Cos’è il sesso per te? 

«Nel momento in cui scrivi un romanzo di formazione e di conoscenza di se stessi il sesso è fondamentale perchè è un modo per conoscere meglio l’altro ma anche te stesso, le tue perversioni, i tuoi desideri. Io a vent’anni ho avuto la fortuna di essere molto libero a livello sessuale e mi dicevo che non sarei voluto arrivare a 50 o 60 anni pieno di fantasie».

 

I protagonisti vanno sempre più a fondo. Come si capisce, secondo te, quando si arriva al limite di non ritorno?

«Devi avere una conoscenza di te tale che anche se stai cercando te stesso, come i protagonisti del libro, sai che non puoi oltrepassare un certo limite. Anche nella prostituzione, il protagonista si rende conto che anche dopo aver provato, guadagnato molti soldi, sperimentato e vissuto quello che voleva vivere, pensava già al dopo. Capisce quando è il momento di dire basta, anche se è difficile. Si sente il cervello logorato, come nella dipendenza dall’alcol».

 

Di cosa, secondo te, non bisognerebbe avere paura?

«Non bisognerebbe avere paura di fallire quando si sa di essere portati per qualcosa. Si deve sapere che si va incontro a 99 fallimenti e ad un solo successo, quello che ti fortifica e ti rende una persona che ce l’ha fatta. Nel mio mondo vedo che c’è molta paura di sentirsi dire no o di fare una brutta figura».

 

Qual è il tuo autoritratto milanese di oggi?

«Il sabato mattina a fare colazione in uno dei miei posti preferiti. È il momento che aspetto per tutta la settimana. Si chiama l’Oste, vado presto appena apre, perchè c’è sempre una fila clamorosa nel weekend. È il giorno che mi dedico. Oppure in giro per una mostra, a scoprire artisti nuovi, questi sono i momenti che più mi piacciono».

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