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La mostra di Ai Weiwei a Bologna: istruzioni per l’uso

12-12-2024

Di Laura Bessega

Ognuno ha i propri eroi. I bambini hanno Superman, l’Uomo Ragno,  Batman. Io, ormai adulta, ho Ai Weiwei.

Nato nel 1957 in una Pechino che vantava già qualche milione di abitanti, è un cinese non particolarmente alto, non particolarmente magro, non particolarmente bello. Ma per me ha dei super poteri: non passa attraverso i muri ma passa con nonchalance dalla fotografia al video, dalla scrittura alla scultura, dall’arte all’architettura, dalla progettazione al fatto a mano. Il tutto con un unico obiettivo: svegliare le persone dalle loro coscienze intorpidite, chiamarle a riflettere su temi come la giustizia, la libertà di espressione, i diritti umani e civili, le migrazioni, i cambiamenti climatici. E ad agire. I suoi occhi non guardano oltre le pareti, ma ti scrutano dentro. Sono profondi e curiosi. Li ho incrociati a fine settembre alla conferenza stampa che annunciava la sua prima personale a Bologna, a Palazzo Fava, e che vi consiglio di visitare. Avete tutto il tempo che volete per organizzarvi. Il titolo è Who am I? e dura fino al 4 maggio del 2025.

Foto di Alessandro Ruggeri

Ma chi è Ai Weiwei e com’è diventato uno degli artisti più influenti a livello mondiale?

Ai Weiwei è un artista, attivista, architetto, fotografo, scultore, regista, scrittore.

Ma ancora prima è un migrante. Lo dice lui stesso:

“Io sono un migrante e probabilmente rimarrò un migrante per tutta la vita. Lo ero già quando sono nato. Mio padre è stato esiliato nei campi di rieducazione in zone remote del Paese. Conosco bene quest’argomento. Non è facile essere un migrante”. E aggiunge: “Bisogna andare nei campi profughi e parlare con loro: ho visitato 23 nazioni, 40 campi, e ho intervistato più di 100 migranti. Sono persone comuni, e la maggior parte anche molto coraggiose. Devono abbandonare la propria nazione per vivere in una cultura che non comprendono bene, dove non saranno mai accolti fino in fondo”.

Oggi guerre e carestie continuano a creare grandi esodi. La questione è: come possiamo capire chi migra? Da dove viene? Perché deve lasciare il suo paese?

Per Ai Weiwei, la soluzione a questo impasse è in mano solamente alla politica che ha delle responsabilità ben precise: “un singolo individuo che aiuta un migrante non risolverà mai il problema”. Come dargli torto.

Nella Piccola Siberia ai margini del deserto, gli anni di esilio trascorsi con il padre e uno dei fratelli, ma lontano dalla madre, sono anni durissimi, che lo hanno messo faccia a faccia con la brutalità dell’oppressione. Ma per l’artista, la condizione di sradicamento diventa allo stesso tempo una fonte di dolore e di arricchimento.

Con il ritorno a Pechino dopo la fine della Rivoluzione Culturale, Ai Weiwei inizia un percorso di riscatto e sperimentazione che lo porta lontano.

l’artista cinese Ai Weiwei durante l’allestimento della sua mostra personale “Who Am I?” a Palazzo Fava sede delle esposizioneìi di Genus Bononiae (Roberto Serra / Opera Laboratori Fiorentini)

La vita dell’artista è segnata dal movimento e negli anni ’80 riparte, questa volta per scelta. Si trasferisce in California e poi a New York. Inizia a lavorare di notte in una tipografia e una sera, curiosando in uno bookstore, si imbatte nel primo libro che leggerà in inglese, La filosofia di Andy Warhol. Da A a B e viceversa. In dieci anni cambia continuamente casa e lavoro e fa incontri straordinari come quello con il poeta della Beat Generation Allen Ginsberg. Dopo una sua lettura di poesie, vanno al Kiev, una trattoria ucraina. “Quando gli dissi che non bevevo caffè, mi ordinò uno zabaione”. O come quello in cui  lui e il fratello, scelti dallo stesso Franco Zeffirelli, interpretano gli assistenti del boia nella Turandot.

l’artista cinese Ai Weiwei durante l’allestimento della sua mostra personale “Who Am I?” a Palazzo Fava sede delle esposizioneìi di Genus Bononiae (Roberto Serra / Opera Laboratori Fiorentini)

La vita di Ai Weiwei nella Grande Mela è un tuffo nel mondo arte. Si avvicina alla fotografia e ai readymade di Duchamp, oggetti quotidiani, prodotti in serie dall’industria ma sottratti al loro contesto abituale. Dirà: ”Per me la sua enfasi sull’arte come esperienza intellettuale e non semplicemente visiva è stata una fonte di ispirazione per tutta la vita”.

Organizza la sua prima mostra Old Shoes, Safe Sex  e vede pubblicata la sua prima foto. In piccolo i credits: “New York Times, Ai Weiwei”. Scriverà: “era una foto normalissima, solo una foglia tra le innumerevoli foglie che cadono in autunno eppure mi dava una sensazione speciale. Per la prima volta avevo un vero legame con la mia città d’adozione. Non ero più un semplice spettatore”.

È il momento in cui inizia a sviluppare il suo stile unico, capace di fondere tradizione e modernità.

Qualche anno dopo però, alcuni fatti tra cui l’assassinio di un giovane artista di Shangai lo hanno reso “più sensibile alla follia della società in cui viveva. La violenza, tanto intimamente radicata nella vita americana che non potevi sfuggirle, rifletteva i profondi difetti del tessuto sociale del paese”.

Ai Weiwei torna in una Cina che ha fatto passi da gigante nella crescita dell’economia, ma non ha mosso un dito nelle cose più strutturali che dovevano cambiare. Parallelamente alla sua carriera artistica, si cimenta nell’architettura progettando il suo studio. Inizia svariate collaborazioni tra cui con Herzog & de Meuron. Insieme realizzano il celebre “Nido d’uccello”, lo stadio simbolo delle Olimpiadi di Pechino 2008. Tuttavia, il suo rapporto con il regime cinese diventa sempre più conflittuale.

Utilizzando la sua arte come un potente strumento di denuncia, affronta temi come la censura, le demolizioni forzate e le ingiustizie sociali. Le sue opere diventano un grido contro le violazioni dei diritti umani, rendendolo una figura di riferimento per la dissidenza globale. Per lui tutta l’arte è politica. E se l’arte non è politica, è politico anche affermare di non essere politico. Viceversa non è rilevante.

Quando dice: “mi sono reso conto che l’arte non è nient’altro che un’identità” ci si rende conto che per capire davvero le sue opere è necessario conoscere la sua vita. Il lavoro di Ai Weiwei, semplice e apparentemente diretto, è intrinsecamente complesso e concettuale, spesso carico di riferimenti culturali e politici. La mostra site-specific a Palazzo Fava è stata pensata appositamente per dialogare con l’ambiente circostante e gli affreschi dei Carracci.

l’artista cinese Ai Weiwei durante l’allestimento della sua mostra personale “Who Am I?” a Palazzo Fava sede delle esposizioneìi di Genus Bononiae (Roberto Serra / Opera Laboratori Fiorentini)

All’entrata, le pareti del corridoio e del salone centrale sono ricoperte da un’eccentrica carta da parati dallo sfondo verde e dal titolo quantomeno stravagante: l’animale che assomiglia a un lama ma in realtà è un alpaca. Al soffitto sono appese leggere sculture di carta con le fattezze di animali fantastici, tratte da un antico bestiario cinese risalente al III secolo ac e lunghe 2,3 metri. Accompagnano lo spettatore da un piano all’altro dell’edificio. Sono simili a pesci alati con la testa di bue e la coda di serpente, pesci volanti simili a maiali o a uccelli o altre creature bizzarre.

L’artista è solito spaziare tra una vasta gamma di materiali, a volte anche insoliti: porcellana, legno, acciaio, vetro, carta di riso, carta da parati e…i lego!

Nella prima sala, la grande riproduzione del Cenacolo di Leonardo da Vinci è interamente composta di lego.

l’artista cinese Ai Weiwei durante l’allestimento della sua mostra personale “Who Am I?” a Palazzo Fava sede delle esposizioneìi di Genus Bononiae (Roberto Serra / Opera Laboratori Fiorentini)

Mi sono chiesta il perché di questa scelta. “I pixel, la digitalizzazione, la segmentazione, la frammentazione e la disconnessione offrono una libertà unica per la riproduzione. Uso il lego come materiale di creazione dal 2014”.

La grande immagine pixelata di quasi 3,5  x 7 metri replica fedelmente quella dell’inventore e pittore fiorentino, a eccezione di due particolari: i colori brillanti e vagamente pop dei vestiti dei personaggi e

il volto di Ai Weiwei al posto di quello di Giuda.

Perché l’autore si è voluto mettere proprio al posto del traditore? Qualcuno suggerisce per umiltà, altri pensano sia un riferimento al destino del padre, vittima di delazione ed esiliato ma è probabile che voglia comunicarci di non fare troppo affidamento sulla presunta correttezza degli uomini. “Magari anche io potrei vendervi come lapostolo ha fatto con Gesù” pare abbia detto in un’intervista.

l’artista cinese Ai Weiwei durante l’allestimento della sua mostra personale “Who Am I?” a Palazzo Fava sede delle esposizioneìi di Genus Bononiae (Roberto Serra / Opera Laboratori Fiorentini)

L’ultimo piano della mostra accoglie lo spettatore con un dito medio poi ripetuto in tutte le foto appese alle pareti della stanza. La prima immagine di quel tipo risale al 1995 ed è stata scattata di fronte a piazza Tienanmen. Un gesto, come lo definisce lui stesso, inequivocabilmente sprezzante ma anche un modo per riaffermare la sua esistenza e riaffrontare le sensazioni di impotenza e umiliazione dell’infanzia. L’esposizione chiude con un lungo documentario sulla vita dell’artista grazie al quale le opere della mostra acquistano nuovi e più profondi significati.

E quindi abbiamo risposto alla domanda iniziale: chi è Ai Weiwei?

Non proprio. Sicuramente possiamo aggiungere che è stato tra i primi artisti a sfruttare il potenziale dei nuovi media per comunicare e diffondere idee, utilizzando blog e social network per interagire con il pubblico e documentare le sue azioni. Tuttavia, la sua figura è complessa e controversa. È stato accusato di autoreferenzialità, sfruttamento mediatico e occidentalizzazione, allontanandosi, secondo alcuni, dalle sue radici culturali.

In Cina, dove la censura e il controllo di internet sono stringenti, Ai Weiwei ha dimostrato come i nuovi media possono diventare strumenti di resistenza, ma gli è costato caro.

Il 3 aprile 2011 viene arrestato all’aeroporto internazionale di Pechino per la sua attività di opposizione al governo. Per 81 giorni viene detenuto illegalmente in un luogo segreto. Nessuno ha notizia di lui. 81 è anche il numero di domande che l’artista ha posto all’intelligenza artificiale, a se stesso e alla società, quindi a noi.

La domanda “Who am I?”, nata durante la sua prigionia e titolo alla mostra, è l’ultima di 81 domande a cui lui stesso risponde in un video presente alla mostra. Tra queste:

Può un governo essere onesto?

Riesci a mantenere i segreti?

Che cos’è la libertà?

Il capitalismo finirà?

Qual è stata l’origine del Covid 19?

Le piante hanno dei sentimenti?

Qual è la vera natura della realtà?

Chi sono io?

“Non saprò mai chi sono perché ogni giorno sono una persona nuova. E se non fossi una nuova persona, non dovrei vivere così lungo. Per ora sono soddisfatto, perché non riesco ancora a rispondere a questa domanda”.

Ai Weiwei non è solo un artista, ma una lente attraverso cui osservare le contraddizioni del nostro tempo. Con le sue opere, che fondono bellezza e denuncia, ci sfida a porci domande scomode e a guardare oltre le superfici. Non importa quanti confini abbia attraversato: ci ricorda che “la vita consiste nell’utilizzare il tempo, niente di più. Sta a noi scegliere come usarlo”.

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