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Neri Marcorè, dagli anni a Bologna a Pupi Avati: “Non sempre essere vincenti e smart porta al successo”

15-07-2022

Di Silvia Santachiara

Dalla volta che sul set di Baciami Piccina ha finto di precipitare dietro a un parapetto e l’organizzatore non gli ha parlato per tre giorni, a quella in cui Pupi Avati, durante le riprese de Il cuore altrove, si è commosso. Dalla prima volta che a 12 anni è salito su un palco come cantante, alle imitazioni durante gli anni in cui ha studiato a Bologna.

Eclettico, poliedrico, versatile. È difficile trovare una definizione per Neri Marcorè: attore, imitatore, doppiatore, conduttore radiofonico e televisivo, musicista.

I primi passi mossi su un palco, molto prima di diventare attore e conduttore, sono legati alla musica.

L’abbiamo raggiunto per parlare dello spettacolo che sabato 16 luglio porterà sul palco del Sequoie Music Park: Le mie canzoni altrui, un concerto che spazia nel mondo dei cantautori italiani e stranieri. Con lui Domenico Mariorenzi alla chitarra acustica, al bouzouki e al pianoforte, Fabrizio Guarino alla chitarra elettrica, Alessandro Patti al basso e contrabbasso e Simone Talone alla batteria.

Ma non solo, siamo passati dagli anni in cui ha vissuto a Bologna al rapporto con Pupi Avati, dai punti deboli della nostra società ad aneddoti della sua carriera che ancora lo fanno sorridere. E in fondo, anche di come riesce a tenere insieme tutte le sue diverse parti.

Le mie canzoni altrui è lo spettacolo che porterai sul palco del Sequoie Music Park. Una selezione di brani dei tuoi cantautori preferiti. Come li hai scelti e qual è il filo rosso che li lega?

«Questo spettacolo lega tanti artisti, c’è Fabrizio De Andrè, De Gregori, Fossati, i Negrita, Ivan Graziani, Lucio Dalla, gli Eagles. Il filo rosso a volte è tematico come il tema delle migrazioni che lega alcuni canzoni iniziali come L’abbigliamento di un fuochista di De Gregori, oppure Ho sognato una strada di Ivano Fossati. Ma c’è anche un tema legato alle contingenze contemporanee come A che ora è la fine del mondo, visto che sembra davvero che il mondo si stia sfaldando sotto ai nostri piedi. A volte sono racconti legati alle mie esperienze personali come quando canto Simon & Garfunkel e racconto che mi preparavo all’esame di maturità ascoltando il concerto a Central Park. I fili rossi sono più di uno e rispondono a un bisogno: ovvero quello di cantare e suonare musica che mi piace, che ascolto e che condivido con i miei compagni di viaggio, e anche il fatto di non scegliere le canzoni primarie di ogni artista. Il tentativo è di far conoscere al pubblico anche qualcosa che non conosce e magari di avere la curiosità di andarlo a cercare quando torna a casa».

(N.d.R il concerto che cita fu un evento gratuito che si è svolto nel 1981 a New York. L’anno successivo ne è uscito un album live)

 

Qual è il primo ricordo che hai legato alla tua passione per la musica?

«Il primissimo ricordo è legato a quando ancora forse nemmeno camminavo, cantavo canzoni come Cosa hai messo nel caffè o Lontano dagli occhi. Le sentivo alla radio o nel mangiadischi. Mia madre mi raccontò che un giorno, mentre stava parlando con il prete della nostra parrocchia, mi chiese di cantare e lui le disse: “ma che voce argentina, perchè non lo mandate allo Zecchino d’Oro?”, In realtà non facemmo mai la domanda, alla base forse c’era anche un po’ timidezza da parte mia.

Poi negli anni successivi tantissimi dischi, gli stereo e la chitarra, e poi quello che mi ha portato a 12 anni a salire sul palco per la prima volta non come attore o imitatore ma come cantante, grazie a un quiz radiofonico a cui avevo partecipato e nel quale bisognava cantare. Il conduttore dell’epoca, Giancarlo Guardabassi, avendo in progetto uno spettacolo itinerante per le piazze marchigiane, mi chiamò e quindi salii per la prima volta sul un palco per cantare le canzoni dei Bee Gees quando avevo 12 anni».

 

Dei nuovi cantautori italiani, chi ascolti e chi, secondo te, ha qualcosa di interessante da dire?

«Sicuramente ce ne sono moltissimi che hanno cose interessante da dire. Ammesso che si possano definire nuovi cantautori italiani, i miei preferiti delle nuove generazioni sono Niccolò Fabi, Dario Brunori, Samuele Bersani, Daniele Silvestri. Sono quelli che ascolto con più frequenza e costanza. Noto l’ascesa di tanti fenomeni, di gruppi e di cantanti molto bravi. Citare i Måneskin è abbastanza ovvio in questo caso ma magari non è il tipo di musica che vado a cercare quando voglio ascoltare un disco tutto intero o più volte».

 

Quest’anno hai vinto la Targa Quelli che cantano Fabrizio al Premio Fabrizio De André. Cosa più ti affascina della sua poetica?

«La ricchezza musicale che si è evoluta mano a mano anche grazie alle collaborazioni, ma anche la ricercatezza dei testi, la profondità, il fatto di guardare il mondo da una prospettiva assolutamente originale e che non cercasse il consenso, ma invece di abbattere dei pregiudizi con i quali vediamo la realtà con una lente deformata. Questo credo sia un esercizio intellettuale da fare il più spesso possibile e quindi farlo attraverso le sue canzoni è una cosa che mi piace molto».

Bologna. Sappiamo che hai frequentato la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori Carlo Bo. C’è un aneddoto di quegli anni che vuoi raccontarci?

«Sono stati anni bellissimi. Essere a Bologna tra i 18 e i 23 anni è stato molto stimolante e affascinante. Un aneddoto che mi viene in mente è che alla fine di ciascuno dei due anni scolastici avevamo organizzato uno spettacolo durante il quale facevamo le parodie dei professori, eravamo in cinque o sei fare sketch e imitazioni. Sono state molto apprezzate, anche dagli stessi professori, tranne da qualcuno che magari si era risentito, ma c’è ancora chi ne parla ripensando a quegli anni, gli unici in cui qualcuno aveva fatto uno spettacolo. Mi fa sempre piacere quando qualcuno ricorda quelle due serate fatte in due anni consecutivi con grandissimo divertimento».

 

Rimanendo su Bologna non posso non citare Pupi Avati. Ne Il cuore altrove hai avuto il tuo primo ruolo da protagonista. Cosa, secondo te, l’ha colpito di te? E quale è stato il momento più bello?

«Chi è stato colpito da me in realtà è stato il fratello Antonio Avati, che vedendomi alla conduzione di Per un pugno di libri ha chiamato Pupi dicendogli “Abbiamo trovato il nostro protagonista“. Entrambi evidentemente hanno visto in me quell’impaccio oppure quella tenerezza o timidezza che si attagliava bene al personaggio di Nello. Non sempre essere vincenti e smart può portare a grandi successi, a volte anche essere o apparire imbranati può portare a un bellissimo traguardo come quello di essere scelti da Pupi Avati per uno dei suoi film. Una grande soddisfazione è stata quando Pupi ha dichiarato, dopo l’uscita del film, che aveva avuto bisogno di dirigermi solo per la prima settimana e che dalla seconda in poi andavo in autonomia perchè avevo colto perfettamente le caratteristiche di quel personaggio.

Momenti belli durante le riprese ce ne sono stati tanti. Uno tra questi è stato durante la scena in cui riparlo al personaggio di Vanessa Incontrada che se ne va dal Papa, sul finale del film, e le dico: “Candida me capiet, capiet me flava puella”. Lei si gira, mi riconosce, io la guardo. In quei due ciak Pupi si è commosso in entrambe le situazioni. Un bellissimo momento e una grande gratificazione per il mio lavoro di attore».

 

Quest’anno è uscita Il Santone – #lemigliorifrasidiOscio, serie comedy che vuole far ridere e sorridere dei mali della nostra società. Qual è, secondo te, il nostro più grande punto debole? E il tuo?

«Il più grande punto debole della società è che si sopravvaluta. Secondo me si tende a mettere la polvere sotto al tappeto pensando che qualcuno ci penserà o che si dissolverà da sola. E invece accumuliamo tossine, i problemi si ingrandiscono e quindi non ci prendiamo mai la nostra responsabilità. Siamo sempre pronti ad auto assolverci e a dare la colpa agli altri se le cose non vanno bene, non considerandoci mai noi parte del tutto ma come se noi fossimo più in alto degli altri. Più impegno e più autocritica farebbero bene. Quanto al mio…io lo so, ma non lo dico» (ride).

 

Ripercorrendo la tua carriera, c’è un aneddoto che ti fa ancora ridere quando ci ripensi?

«Ne avrei tantissimi. C’è n’è uno ad esempio di aneddoto che mi viene in mente adesso di quando giravo Baciami Piccina in cui c’era un muretto sotto al quale c’era un fiume che scorreva, ma non si vedeva da dietro che sotto a questo parapetto c’era un piccolo balconcino grazie al quale non si precipitava sotto. Allora avevo chiesto al regista di darmi una pacca sulla spalla e io ho finto di precipitare di sotto. All’organizzatore è preso un colpo, si è precipitato lì e poi mi ha visto invece ranicchiato sotto a questo parapetto. Si è preso talmente tanta paura che non mi ha parlato per tre giorni».

 

Attore, doppiatore, conduttore televisivo, imitatore e musicista. Hai trovato un tuo modo per tenere insieme tutte le tue diverse “parti”?

«Sono tutte parti di me, è un menu un pò più ricco rispetto a chi è uno specialista o un monotematico, quindi devo gestire più cose insieme ma questo non mi stressa, anzi mi stimola e mi piace perchè sono comunque tante parti me. Nessuno di noi è composto da una sola cosa, come un menu di un ristorante non è composto solo da un piatto ma ce ne stanno tanti insieme. Quindi è proprio la varietà a comporre il pasto ideale, che poi si diversifica e cambia di volta in volta, di stagione in stagione anche in base alle preferenze, alle proposte che mi arrivano, alle cose che voglio fare nelle cui direzioni voglio andare. Diciamo che la possibilità di annoiarsi non c’è e credo sia proprio questa la caratteristica che mi contraddistingue».

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