“Un fotografo è per sua natura individualista, ma in tre ti sfuggono meno cose”.Tre fotografi, tre caratteri, tre stili, un unico progetto.
Amici che si conoscono da diversi anni, uniscono le proprie forze e competenze per raccontarci cosa c’è dietro un’ Italia ferma, bloccata da un virus di cui si conosce ancora poco e si muore ancora troppo. E chi va in giro tutto il giorno con la macchina fotografica un pò di rischio lo sente scorrere sotto le dita mentre preme il pulsante dello scatto.
Alessandro Ruggeri e Rossella Santosuosso, fotoreporter del Resto del Carlino, e Massimo Paolone, fotografo sportivo per LaPresse, hanno “background professionali solidi”, molte esperienze all’attivo e un nome pressoché impronunciabile, Sizigia.
Rossella, che è una smanettona, come dice lei, mi racconta che l’ha trovato cercando nella rete e che inizialmente gli altri non lo volevano. Nella composizione alchemica indica la ricomposizione dei contrari. Secondo Jung, rappresenta invece la proiezione del superamento del conflitti tra l’anima, ovvero le qualità psicologiche femminili inconsce possedute da un uomo e l’animus, quelle maschili possedute da una donna. In astronomia rappresenta tre corpi celesti distribuiti lungo una linea retta.
In ogni caso, a me sembra che (gli) calzi a pennello.
Il primo lavoro nasce a quattro mani. A fine febbraio chiudono scuole e università, ci sono i primi contagiati a Piacenza, ma parchi, ristoranti e bar sono ancora aperti. Il pericolo inizia appena ad essere percepito e la gente si chiede perché gli studenti restino a casa. Alessandro e Rossella stanno lavorando per il Resto del Carlino. Si trovano nell’appartamento di un ragazzo che è rimasto a Bologna a studiare e non è partito, come molti suoi colleghi fuori sede, per tornare dalla propria famiglia. Terminato il lavoro per il giornale, restano e gli fanno un ritratto, il primo di una serie. Ogni foto è studiata. Il soggetto, la luce, la zona della casa. Gli studenti seguono le lezioni al computer, studiano sul letto, scrivono in cucina di fronte a una tazza di caffè. Sono sereni e un pò spiazzati da ciò che sta succedendo. Ma, onestamente, a chi di voi è capitato di poter seguire le lezioni comodamente da casa?
È l’inizio di una situazione che da lì a brevissimo tempo diventerà la norma ma nessuno ancora se lo immagina. “Gli unici studenti un pò scioccati erano quelli che si dovevano laureare. Non capivano se dovevano farlo a distanza. C’è perfino chi ha ricevuto la conferma della laurea su WhatsApp” mi racconta Alessandro. L’ultima foto che riescono a fare è in università, a un professore in un’aula vuota. Potrebbe essere la fine di una lezione, ma si percepisce già un senso di desolazione. Quell’immagine sarà pubblicata su Internazionale. È l’inizio di una collaborazione e l’inizio della quarantena.
Mentre noi rimaniamo incollati a tv, computer, radio ad ascoltare notizie, statistiche, e numeri, a conteggiare morti e guariti, sono pochi quelli che escono. Tra questi ci sono anche i fotografi. Certo il carico di lavoro è diminuito, ma è proprio in questo preciso momento, quando hai più tempo a disposizione e la storia ti attraversa la strada, che non puoi non essere su quella strada per raccontarla.
E così le mani diventano sei e il progetto diventa ritrarre la pandemia in tutte le sue sfaccettature. Non solo malati e corsie di ospedali. Lo sguardo si rivolge alle conseguenze di questo arresto forzato, alla crisi economica e del turismo.
“Per Pasqua siamo andati in Riviera. Era programmata l’apertura dell’Hana-Bi e degli altri locali, ma di aperto non c’era niente. È stata una strana sensazione vedere Rimini e Riccione chiuse, l’Acqua Fan deserta. Abbiamo iniziato da lì”, mi spiega Rossella.
Un molo con una fila di panchine vuote, due statue di leoni a guardia di un locale chiuso, una moltitudine di pedalò gialli recintati in un piazzale sgombro e dappertutto una luce bianca, potente come nelle immagini di Massimo Sicuracusa.
“Ogni foto ha un suo stile e un professionista sa adattarla in base a ciò che racconta. Il lavoro della Riviera – pubblicato anche questo su Internazionale – è il ritratto di un posto allegro in forte contrasto con l’assenza di persone. Si percepisce la desolazione ma con alcuni dettagli che riconducono all’elemento umano come la panchina vuota. Il mestiere è ancora mestiere”, chiarisce Massimo.
Questa non è più solo cronaca, diventa indagine. Non è la notizia, è l’approfondimento della notizia raccontato attraverso le immagini.
L’ultimo lavoro di cui si stanno occupando nasce da una riflessione che, credo, hanno fatto molti, me inclusa: dove finiscono tutte le mascherine e i guanti che indossiamo e cambiamo ogni giorno?
“Abbiamo fatto una ricerca e ora stiamo raccontando le aziende che si occupano dello smaltimento dei DPI, dispositivi di protezione individuale. È un progetto legato all’ecologia, un tema importante. Molta gente ancora non sa come gestire i rifiuti inquinanti e contaminati. Troppo spesso sono abbandonati per terra, nei parchi, vicino ai tombini. Oggi si iniziano a vedere le prime foto di pesci con dentro guanti o mascherine”, continua Massimo.
Mai come ora il nostro comportamento individuale può fare la differenza. È necessario agire responsabilmente ed essere informati. L’Istituto Superiore di Sanità, relativamente alla gestione dei rifiuti urbani, ha precisato che le persone positive al Covid, in isolamento e quarantena devono sospendere la raccolta differenziata. Coloro invece che non sono positivi devono continuare a fare la differenziata mettendo mascherine, guanti e fazzoletti monouso nell’indifferenziata e dovranno essere utilizzati almeno due sacchetti, uno dentro l’altro. E responsabilità è una parola pronunciata da molti lunedì 11 maggio con i primi allentamenti del Governo.
“La gente ha rotto gli argini. Anche se nel decreto le limitazioni sono ancora tante, le vie, le piazze, i bar si sono riempiti troppo velocemente. Ho visto tante persone vicine bere l’aperitivo. Sono preoccupato. Bisogna tenere a mente che la riapertura non è ancora la fase tre!” . Della stessa opinione di Alessandro è anche Rossella. “Paradossalmente da lunedì mi sento più preoccupata. Prima eravamo da soli per le strade. Se mi mettevo in situazioni rischiose sapevo che era colpa mia. Adesso c’è troppa gente in giro e il pericolo arriva anche dagli altri”. Mi dice che la cosa più scioccante è che in pochi giorni si sta già abituando a questa nuova situazione.
Sembra già lontano ora pensare a una Bologna vuota. Rossella la ricorda con una sensazione di bellezza e angoscia.
Alessandro con la mente ripercorre il tragitto che faceva ogni giorno. Camminava in via dei Carracci e attraversava il ponte. Davanti ai suoi occhi una città vuota, cosi vuota che riusciva a vedere la salita per entrare in Sala Borsa. “La sensazione era quella di avere un’ ipervisione – mi dice-. In tutti i lati vedevi Bologna nella sua interezza. Tutti noi abbiamo una visione limitata degli spazi in cui viviamo. Al massimo guardiamo ciò che succede fuori dalla finestra. Fuori invece eri in grado di osservare cose che prima non avevi mai visto. Spuntavano nuove architetture e angolazioni insolite”. Mi parla di un contesto quasi metafisico in una realtà deserta. Mi vengono in mente alcune opere di Dalì dove la presenza dell’uomo è assente o rarefatta e il tempo è sospeso.
E forse è proprio questo il filo rosso che ci accompagna in questo periodo, uno stato di attesa. E tanta incertezza.
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