Un film che documenta senza essere un documentario, che emoziona senza essere fiction, che mescola realtà, finzione e sogno.
Amanda sta per uscire dal carcere, Denise ci è appena entrata, Betty riceve lettere d’amore dalla sezione maschile: storie di donne, di vite interrotte, di rimpianti e di speranze, di sofferenze passate e presenti, di trasformazioni e di possibili riscatti.
Sezione femminile è stato realizzato dal regista e sceneggiatore bolognese Eugenio Melloni durante il laboratorio di cinema nella sezione femminile della Dozza, la Casa Circondariale di Bologna. Il film, prodotto da R2 Production, è uscito in sala lo scorso novembre. La prossima proiezione è prevista per l’11 aprile, al cinema Don Zucchini a Cento (Ferrara).
Abbiamo intervistato Melloni per approfondire un argomento delicato come quello della carcerazione e per farci raccontare la sua esperienza artistica nella realizzazione di un docu-film che mette al centro le storie e la condizione di un gruppo di donne detenute.
Da un laboratorio ad un film, come nasce l’idea di realizzare Sezione femminile?
“Il laboratorio di cinema che ho tenuto alla Dozza è stato un lavoro di riflessione che ha coinvolto le detenute singolarmente e collettivamente. Durante il percorso mi sono accorto che c’era lo spazio per trasfigurare le loro esperienze personali in qualcosa di universale. Le detenute non sapevano come sarebbe stato il film finito, ho voluto che fosse la conclusione del loro percorso rieducativo iniziato con il laboratorio”.
Per la maggior parte delle persone è più facile immaginare il carcere come un mondo tipicamente maschile. L’aspetto di forte originalità del tuo film è invece quello di raccontare la detenzione dal punto di vista femminile.
“Questa è la ragione principale per cui ho deciso di fare il film: la carcerazione femminile è poco trattata dal punto di vista cinematografico. Il motivo è in primis una questione numerica: alla Dozza le detenute sono circa il 10% del totale, un dato simile a quello nazionale. Una conseguenza spesso sottovalutata di questo dato è che le carceri italiane sono strutturate per una detenzione al maschile, così è concreto il rischio che le donne scontino un supplemento di pena”.
A quali problematiche di genere fai riferimento?
“Per esempio alla questione dell’igiene e della cura dell’aspetto fisico, che sono fonte di disagio palpabile, fino ai rapporti con i familiari e in particolare con i figli: ho scoperto che molte detenute non dicono ai figli di essere in prigione o di esserci state”.
Forse non è un caso che uno dei momenti più toccanti del film sia la lettera che un’ex detenuta scrive alla figlia adolescente per rivelarle di essere stata in carcere.
“È stato un momento molto intenso dal punto di vista emotivo. Questa donna non sapeva se dirlo o no alla figlia: aveva paura della sua reazione, di perdere la sua fiducia. Per aiutarla, ho portato questa problematica all’interno del laboratorio e si è aperto il vaso di Pandora! Una parte cospicua delle detenute aveva seri problemi con i figli, così si è deciso di scrivere questa lettera collettivamente, anche con il contributo (penso sia la prima volta) delle agenti della polizia carceraria sensibili all’argomento (autorizzate dal dipartimento, ovviamente)”.
La sfida più grande per i film che trattano di argomenti così delicati e complessi è quella di andare oltre la specificità delle esperienze personali, pur necessarie nel dare realismo al racconto, per trovare una dimensione che possa catturare un pubblico più ampio, sto pensando ad esempio a film come Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Ritieni di aver raggiunto quest’obiettivo?
“Ovviamente ogni partecipante ha portato nel laboratorio la sua esperienza di vita e di detenzione. Ognuna era ancorata alla sua vicenda personale e così, in questa auto-narrazione, si trovava a rivivere il processo, una sorta di quarto grado di giudizio. Allora le abbiamo aiutate a uscire da questa dimensione e a trasfigurare la propria sofferenza, i propri problemi e le proprie valutazioni, utilizzando la scrittura e il cinema“.
Il cinema come una doppia svolta: una possibile chiave d’interpretazione del reale e allo stesso tempo un’occasione di evasione dalla realtà contingente?
“Sì, le detenute si sono misurate con la forza che può avere a livello conoscitivo e di autocoscienza lo scrivere dal punto di vista narrativo, senza essere ancorati per forza a criteri realistici. Attraverso il film sono emerse condizioni, esperienze e sensibilità che erano sopite e aspettavano solo di essere espresse”.
Quindi possiamo dire che Sezione femminile è sia un documentario sia un film di finzione?
“Certo, ma soprattutto mi piace considerarlo un lavoro aperto, che invita alla riflessione senza pregiudizi e che si inserisce all’interno di un percorso rieducativo. Il mio film ha come obiettivo anche quello di abbassare la recidiva e penso che il cinema in generale possa dare un contributo in questo senso. L’ho toccato con mano attraverso riflessioni profonde e autentiche scaturite durante il lavoro e per questo mi piacerebbe che il percorso intrapreso con ‘Sezione femminile’ possa essere ripetuto”.
Cinema, teatro e in generale ogni forma d’arte, sono importanti sia per far conoscere alle persone realtà come quella carceraria, che rimangono di fatto abbastanza insondabili, sia perché possono essere uno strumento di espressione e potenziale riscatto per chi è detenuto.
“Penso che l’arte possa essere un ottimo strumento rieducativo. Il film è un documento che resta, che non si esaurisce nella rappresentazione, e soprattutto può essere uno straordinario ponte tra il carcere e il mondo fuori”.
Nelle proiezioni di Sezione femminile che tipo di riscontro hai avuto dagli spettatori?
“In primis di sorpresa: nessuno si aspetta un film di questo genere, che abbia uno sguardo nuovo su questo tema. ‘Sezione femminile’ invita a una riflessione diversa intorno all’istituto della pena, che è qualcosa d’inevitabile, ma non d’immutabile. Esisterà sempre il carcere, ma i nostri costituzionalisti (che tra l’altro uscivano dall’esperienza terribile della guerra e del fascismo) hanno pensato all’istituto della pena come a un percorso rieducativo. Una visione che in molte realtà è lontana dal realizzarsi compiutamente, ma è ancora possibile. Sezione femminile va inserito in questa visione. Per questo mi piacerebbe che il film venisse proiettato non solo fuori, ma all’interno delle carceri, anche nelle sezioni maschili”.
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