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Stefano Ricci arriva alle Serre dei Giardini. “Tecnica mista”, la serie di incontri sull’animazione

15-07-2020

Di Pietro Romozzi

Tecnica Mista è il festival tematico di Kilowatt Summer 2020 che esplora il mondo dell’animazione, con numerosi ospiti italiani ed internazionali, un ciclo di appuntamenti alla scoperta dei linguaggi dell’animazione, affrontati sia dal punto di vista artistico che tecnico. La rassegna si svolgerà con un doppio appuntamento settimanale, dando spazio a incontri con autori, proiezioni e performance live.

Cerchiamo di conoscerne uno dei più illustri: Stefano Ricci, bolognese classe ‘66, che oltre all’esibizione di live painting con Giacomo Piermatti (16 luglio), mostrerà un aspetto forse meno noto della sua arte, l’animazione, con alcuni lavori che presenterà il 15 luglio alle Serre dei Giardini Margherita. 

Partiamo proprio da qui, dalle Serre. Stefano ci racconta del particolare legame con questo luogo, dei pensieri rivolti al leone – fino agli anni ‘80 i Giardini Margherita hanno ospitato un piccolo zoo – chiuso in quella gabbia che tante volte si è trovato a disegnare e, con una certa ricorrenza, anche a sognare. 

“L’immagine di questo animale che guardavi dall’altezza delle zampe, questo singolare punto di vista ce l’ho impresso nella memoria, ci dice. Tornare a disegnare qui per me è molto importante: è come un incontro, un appuntamento magnifico”.

All’aspetto più emotivo della sua partecipazione a KW Summer si affianca l’aspetto artistico, l’occasione di tornare al live drawing con Giacomo Piermatti, con il quale collabora già da diversi anni. “Con Giacomo abbiamo sviluppato numerose linee di ricerca ed esplorato luoghi del disegno e dell’atto improvvisativo, dove non ero mai stato. Dopo gli ultimi progetti teatrali mi fa piacere ritrovare il flusso impulsivo, flessibile, nervoso della performance dal vivo”.

Tecnica Mista è per Stefano anche l’occasione di fare qualcosa di nuovo con l’animazione: “ho rimontato filmati che avevo già proiettato, cambiato alcuni testi e musiche, manipolato e fatto piccoli esperimenti per portare alle Serre materiale fresco, vivo.  Non ho alcun interesse per l’archivio”, ammette candidamente.

Svelato il programma, conosciamo meglio l’artista e il suo percorso. Da 18 anni Stefano ha lasciato l’Italia, trasferendosi prima ad Amburgo, poi vicino al Mar Baltico, lontano da tutto ma non dai castori che minacciano costantemente i salici che lui stesso ha piantato al suo arrivo (true story).

Ennesimo caso di fuga di talenti ? Non stavolta Stefano ha scelto la Germania per amore di quella che poi è diventata sua moglie, anche lei illustratrice. Negli anni poi, anche se da lontano, ha lavorato molto con l’Italia, soprattutto con la stampa e l’editoria.

“Generalizzando possiamo dire che nel nostro paese ci sono forse condizioni un pò più dure, ma la scena italiana e bolognese  contano su una comunità artistica significativa, che si rinnova, cambia continuamente e ad alza l’asticella creativa in maniera straordinariamente coraggiosa e apparentemente naturale. A volte mi dico che bello sarebbe avere un editore italiano e una maggiore tranquillità, ma l’esistenza di questa comunità ed il confronto con essa è più significativo della facilità lavorativa. Lasciare l’Italia e la sua lingua è stato un po’ come morire e rinascere artisticamente”.

Stefano utilizza proprio questa metafora rifacendosi a una tradizione giapponese del ‘500 per cui il disegnatore del mandarinato – assimilabile alle nostre signorie – che avesse raggiunto la notorietà nel proprio territorio veniva “scambiato” con quello di un mandarinato geograficamente distantissimo. Era come se i disegnatori morissero e rinascessero. Per i grandi maestri significava vivere addirittura sette vite diverse. “L’atto creativo comporta questo – mi dice. Attraversare fasi cicliche. Inizi ma anche conclusioni. E a volte è difficile mandarli giù perché una parte di noi muore”.

Giornali e riviste sono state una palestra quotidiana importantissima. Disegnare a partire da una domanda porta talvolta a confrontarsi con temi che altrimenti non si sarebbero affrontati.

“La domanda è uno stimolo ma anche un ostacolo. Alcune di esse mi erano estranee o erano problematiche. Inizialmente sembrava una bella sfida, ma dopo un po’ ho iniziato a chiedermi: “cosa faccio se devo essere io stesso a produrmi la necessità e l’ostacolo?”, e ho iniziato a muovermi in questo senso, disegnando più tavole di quelle richieste e poi selezionandole, o anche inviandole tutte e dicendo di scegliere quelle più in linea con la domanda. In questo modo ho smesso di concentrarmi sulla singola immagine, sull’icona o sulla copertina, a favore del flusso narrativo e della sua apertura in diverse direzioni: semplicemente mi divertivo di più. Avere molto materiale poi, può creare combinazioni inaspettate con un certo testo o richiesta, combinazioni che con un lavoro ad hoc non sarei stato capace di produrre”.

 

Disegnare “senza la domanda” lo ha indirizzato verso nuove forme e strutture narrative che non aveva mai percorso con il disegno. Nasce così una lunga graphic novel, La Storia dell’Orso.

Saltando qualche tappa, arriviamo all’animazione che è stata una soluzione per molto tempo inesplorata. Il motivo è l’autocensura: “preferivo che le persone potessero costruirsi il loro tempo di lettura di un’opera, come accade nel disegno; imporre un tempo, che è alla base dell’animazione, non mi andava a genio. Poi un amico – Leonardo Quaresima – mi ha chiesto una sigla per il FilmForum (festival del cinema di Udine e Gorizia) e con una certa diffidenza ho accettato”. L’ispirazione per il soggetto è stata di natura molto personale.

“Ho immaginato di disegnare mio nonno Enea, al quale ero molto affezionato. Era un artigiano, con una fisicità e un umorismo fisico appunto, tipici di un uomo dell ’800. Ripensando a queste cose ho desiderato vederlo muoversi di nuovo. Non sapevo nulla di animazione, ho iniziato a disegnare una serie di disegni e ad attaccarli alla parete come una pellicola. L’animazione durava qualcosa come 2 minuti e mezzo: un tempo impossibile per una sigla! Ma alla fine l’ho mandata lo stesso. Questo ha fatto crollare le mie convinzioni sul tempo indotto dell’animazione e cambiato il mio rapporto con essa. Ho scoperto che in realtà mi piaceva”.

Della distanza tra fumetto e animazione, Stefano sottolinea un aspetto interessante: la regolarità di certe “anomalie autoriali”. Ci parla di Emil Ferris che a 60 anni ha scritto e disegnato “La mia cosa preferita sono i mostri”, un’opera prima di 800 pagine disegnata con le penne colorate: un’opera rischiosissima da distribuire per qualsiasi editore, ma presto divenuta un caso editoriale. “Nel fumetto, rispetto all’animazione o al cinema, bastano economie limitate: alcune penne e lui costretto a letto per molto tempo. E naturalmente una forte volontà di raccontare. Con l’animazione occorre una produzione ed un impegno economico maggiori, e non è detto che poi si ottenga la visibilità sperata. Quello di Emil Ferris è un caso particolare”.

Tanto parlare di disegno, fumetti, casi editoriali porta dritti ad una domanda che non possiamo evitare di porgli: si giudica o no un libro dalla copertina?

Sarà deformazione professionale, ma la sua risposta è un sì deciso, al punto che in cantiere ha un progetto per il nuovo corso all’Accademia di Bologna che si chiama 30 Copertine Per Dirlo. “Fare un libro attraverso la moltiplicazione delle copertine, ma anche delle quarte di copertine, dei testi delle bandelle: un libro di copertine è anche una concatenazione di testi che rimbalzano da una copertina all’altra, da una quarta all’altra. Progetti a parte, l’innamoramento con una copertina fa a volte accadere incontri imprevisti: non è qualcosa di superficiale, l’oggetto del libro inizia da lì, dal rapporto, per me importantissimo, tra titolo ed immagine”.

Torniamo seri per chiedergli, in quanto artista bolognese, del suo rapporto con la città.

“Una cosa che amo e che accomuna Bologna ad Amburgo è la ‘bellezza dell’asino’, espressione un po’ archeologica che si usa ad esempio per una adolescente che nel giro di un’estate si fa bellissima, e l’estate successiva quella bellezza è già cambiata, si è evoluta. È una bellezza cha ha una stagione, anche breve. Ritrovo questo nella grazia improvvisa, abbacinante, di alcune individualità del disegno e sono felice di poterne essere testimone.

Una cosa che mi piace poco e a volte mi fa arrabbiare è quando la città traduce in economia questa bellezza dell’asino. Lo vedi quando una studentessa disegna un manifesto in cui descrive cosa significa cercare un affitto a Bologna e le viene proposto il settimo posto da inquilina in un corridoio di un appartamento di 60 mq”.

Qui si apre ad una serie di considerazioni sul rapporto tra cultura e società. Stefano fa l’esempio di Berlino; appena iniziato il lockdown, è stato presentato un disegno di legge con cui l’artista, impossibilitato a lavorare, riceveva in 3 giorni un bonifico sul proprio conto corrente, a dimostrazione che il dialogo tra arte ed economia è possibile, laddove una realtà è consapevole dell’altra e sa di poter esistere anche in funzione dell’altra.

“In Italia- prosegue- il Presidente del Consiglio parla degli artisti come di coloro che ci fanno tanto divertire; e lo fa leggendo un discorso scritto, non parlando in Riviera con un bicchiere in mano. 

Molte delle idee di fine ’800 o inizio 900 sono diventate economie, con onde lunghe che arrivano fino ad oggi, alle file chilometriche fuori dal Louvre. Alla fine dell’800 è successo a Parigi, nel dopoguerra a New York, oggi sta succedendo a Berlino. Dove queste due anime di una città – culturale ed economica – dialogano, ecco che si sviluppa un circolo virtuoso dove le idee trovano condizioni ideali per prendere vita e hanno diritto al loro spazio nella città. Ricordo quando andai a Berlino appena dopo la caduta del muro e mi stupì questa sensazione di avere diritto ad una parte della città per quello che eri e per quello che facevi: disegnare nel mio caso.

Per l’Italia e per Bologna non c’è nostalgia, c’è piuttosto l’entusiasmo di tornare a contatto con questa scena: “tornare a Bologna, significa confrontarsi con persone che non si accontentano, che certe soluzioni le hanno già viste: un confronto anche rischioso, ma che aspetto con grande impazienza”.