Design & Moda

Tubi industriali, catarifrangenti, oggetti trovati. I gioielli-scultura di Mara Garbin

14-05-2019

Di Beatrice Belletti
Foto di Beatrice Belletti

“Mio padre aveva una fabbrica di tapparelle. Non giocavo con le bambole, mi costruivo i giocattoli con i materiali di scarto… il camper della Barbie con uno scatolone”.

Sono andata a trovare Mara Garbin, designer di gioielli alquanto fuori dall’ordinario, nella sua casa e laboratorio di Bologna.

Diplomata con lode in pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha studiato design del gioiello presso la Scuola d’Arte e Mestieri di Vicenza. Per anni ha collaborato come designer ad Arezzo in un’importante azienda orafa e, successivamente, come stilista nel settore accessori moda.

Mi accoglie con caffè e cioccolatini, e mi sono già persa ad osservare opere d’arte contemporanea sparse nel salotto: lampade, quadri e oggettistica riconfigurata dalla stessa Mara negli anni di sperimentazione e ricerca artistica. Infatti Mara ha un background multiforme di fotografia, installazione, pittura, mi racconta ridendo: “avevo bisogno di altri supporti quindi scultura, fotografie… non ho avuto sempre lo stesso percorso. Facendo tante collezioni diverse a volte credo di essere pazza!”.

La sua ricerca è ora rivolta al gioiello artistico contemporaneo.

Tubi, guarnizioni in gomma, materiale elettrico, catarifrangenti recuperati per strada. E ancora alluminio, acciaio, scarti di lavorazione e perfino oggetti trovati. In un mare di omologazione visiva, dettata da un mercato che pare offrire in maggior parte un’estetica piatta, il lavoro di Mara si distanzia e si addentra nell’immaginario della trasformazione: con i suoi gioielli rivoluziona lo scopo primario dei singoli pezzi a composizione del bijoux creando una nuova vita dell’oggetto attraverso una sorta di riciclo di intenti.

“Ci sono molti artisti che si specializzano, mentre io ho mille ricerche aperte. A livello commerciale Alumina è la linea che va nei negozi, poi se mi va di creare un gioiello da esposizione che finisce in un museo, ben venga”. Mara vanta collaborazioni di rilievo, con la curatrice Alba Cappellieri, agli editoriali della fashion stylist e art director Manuela Mezzetti, per citarne due.

Il tuo focus rimane più nell’area commerciale o artistica?

“Vorrei riuscire a produrre sempre delle piccole serie, per la parte commerciale dove c’è sempre l’ironia come chiave concettuale e poi continuare la ricerca per oggetti meno convenzionali per eventuali mostre o altri canali”.

“Tutto è fatto a mano, spesso su misura – continua Mara, addentrandoci nel suo laboratorio – Volt è l’unica collezione che ho fatto in modo fosse replicabile, come una piccola serie. Questi pezzi sono tagliati a laser, in diverse varianti di colori e sono connettori, materiali elettrici”.

Tra oggetti di fortuna e “forme in estinzione”, percorsi insoliti che ti portano nei “luoghi del ritrovamento. Il materiale è fondamentale nella tua ricerca artistica. Dove li prendi?

“Vado in posti assurdi, negozi di forniture per elettricisti ed idraulici, per chimici. Mi piace ricercare materiale anche attraverso internet, materiali riciclati, tubi di irrigazione, neoprene. La mia fonte di ispirazione sono i luoghi che non hanno a che vedere con il gioiello, con il mio lavoro”.

Qual è il processo e lo studio dietro al design?

“Il tema è fondamentale. Ad esempio per la mostra Naturalia, ho creato dei fiori, qualcosa che mi ricordi boccioli e pistilli con i miei materiali che non hanno nulla di romantico! – ride – Determino il tema, comincio a prendere in mano i materiali, studio gli incastri, faccio piccole prove e all’ultimo faccio un disegno”.

La creatività di Mara si spinge oltre e ripropone la realtà in una forma differente, mantenendo come unico comune denominatore un tema, come il pezzo Fiore della pioggia realizzato con dei tubi per uso industriale, guarnizioni per mobili e materiali per industria chimica. “Una volta che hai fatto il campione poi si produce in qualche ora, ma ogni pezzo è unico, come una vera opera d’arte” dice.

Cambia il modo in cui lavori i materiali?

“Sì. Lavoro molto con l’assemblaggio. Nero Come è una collezione nata dall’idea del colore, dai modi di dire che si legano a quella sfumatura precisa.

Asfalto, carta carbone, carbone triturato, pece, polvere d’ebano (ho costruito la griffe con dei reggi-mensola), cartucce della stampante, una penna bic, pietre dure, tutti pezzi unici, ha affumicato l’interno… mi ha fatto impazzire! Ho pensato: come sarebbe raccontare tutti questi materiali?”.

Il packaging è fatto a mano, gli anelli che non sono fatti al tornio, sono come una scultura, partendo da una forma industriale lo lavora, dice: “cerco di stare lontana dai materiali semi-lavorati, perderei il concetto. Nel lavorato a mano c’è qualche piccola imperfezione che mi scalda l’oggetto”.

Decontestualizzazione, gioco, ironia, materiali poveri sono le parole chiavi per decifrare le opere firmate Garbin. Il mondo ironico di Mara che si esalta con la linea primavera/estate Cata-Crash composta da pezzi di catarifrangente recuperati per strada, di cui racconta “mi sono detta: hey guarda che belli brillano! Però che schifo sono sporchi… vabbè li lavo! Non contenta andavo dai carrozzieri e meccanici. In quell’ambiente tutto maschile poi, immaginati come mi guardavano!”.

Cosa vuoi vedere nel tuo prodotto finito?

“Che generi un’emozione, mi piace il concetto di creare un senso di destabilizzazione che chieda ‘che cos’è? Ma con con cosa è fatto? Ma dai!’. Queste reazioni sono quelle che preferisco, voglio strappare un sorriso”.

Che rapporto hai con il lusso?

“Indubbiamente c’è qualcosa che mi piace ma non lo sento molto mio, se parliamo di oreficeria, tutti i materiali preziosi mi piacciono ma non mi danno molto stimolo… non c’è del vissuto nel lusso pulito.

La sfida è tra il funzionale e l’estetico, guardo ad un gusto nordico-tedesco. Sto allontanando da me con il tempo tutto ciò che non sento funzionale, che non gira bene. E’ sempre una sfida mantenere l’oggetto.

Prosegue: “mentre facevo l’inventario ho ritrovato i pezzi degli anni ’90. Ero totalmente libera, era l’oggetto pulito, senza sovrastrutture. Poi è un po’ come se ti corrompessi, perché cominci a pensare a ciò che dovresti fare invece che a ciò che vorresti fare. Riguardandomi indietro ho ritrovato quelle forme assurde su cui lavoravo durante gli anni in accademia. Vorrei tornare alla pulizia di esecuzione, contaminare il meno possibile il materiale per nobilitare l’oggetto”.

Come ti sei approcciata al design?

“Sono partita dal costruire oggetti, da bambina, chiedendo agli operai che lavoravano nella fabbrica di mio padre di insegnarmi. Il mio primo gioiello era realizzato con un agglomerato di plastica con un retro-spilla colorato d’oro, super minimal, ero alle medie.

Nel 2005 ho cominciato a creare oggetti con materiali di recupero, quella è stata la mia nascita. Ho fatto qualche mostra, non mi attirava la moda mi attirava l’oggetto d’arte forse perché venivo dall’accademia, era il momento in cui si mescolavano materiali poveri con l’argento, così ho realizzato gioielli da pentole, stampi per budino, mestoli, scarti di fibbie”.

Qual è la parte che ti da più soddisfazione?

“Vedere la gente che indossa i miei gioielli e anche li ‘maltratta’ – ride – La gente va in piscina con gli orecchini!”.

In quale direzione ti vedi andare?

“Ho voglia di dedicarmi al colore adesso, sperimentare strade diverse. Vorrei riuscire a fare qualche evento dove portare le ultime cose che sto facendo, adatto al mio tipo di prodotto, magari all’estero, per un discorso di scambio con altri designer… Ma pensa se ci fosse a Bologna una vetrina per designer bolognesi.. come sarebbe bello avere un punto di visibilità, un punto di esposizione per artigiani locali!”.

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