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Dal rap all’impegno sociale. Intervista a Wissal Houbabi, la poetessa che fa attivismo a suon di versi

21-07-2022

Di Noemi Adabbo
Foto di Malì Erotico

Comunione è il significato di Wissal in arabo e sposa la declinazione sia femminile che maschile. Curioso che sia il nome dell’attivista e poetessa Houbabi che a suon di versi ci ha fatto capire che la scelta delle parole non può mai essere casuale.

Classe 1994, nativa del Marocco, Wissal muove i propri passi nel femminismo intersezionale e nella lotta a patriarcato e razzismo grazie a rap e hip hop, passione trasformatasi ben presto in impegno politico e sociale.

È direttrice artistica della rassegna culturale estiva Plurali Femminili. Migrazioni e identità in trasformazione che si terrà fino al 3 agosto a Le Serre dei Giardini Margherita per esplorare l’universo donna e studiarne i passaggi identitari con libri, rap battle e slam poetry ma anche proiezioni cinematografiche, dibattiti e performance musicali.

Abbiamo incontrato Wissal per conoscere il cammino che l’ha portata fino a qui.

Wissal Houbabi | Foto di Malì Erotico

Come nasce la tua passione per la poesia? Cos’è per te e quando hai capito di amare la scrittura e perché questo genere in particolare?

«Nasce dal rap e da alcuni autori e autrici che hanno segnato qualcosa di molto profondo. Un misto di Langston Hughes e Tupac Shakur, una scoperta di Garcia Lorca e altrettanta folgorazione per Abu Nuwas. La forza di Audre Lorde e la stima per i/le mie contemporanee con cui condivido questa crescita quotidianamente.

La scrittura non l’ho mai scoperta, semplicemente è capitata. Sono sempre stata un po’ strana, per alleggerire tanta pesantezza del vivere sotto varie oppressioni strutturali, piano piano decisi di stemperare questo spleen e senso di impotenza. Ho un umorismo tutto mio che ormai si è plasmato alla mia personalità: mi piacciono le supercazzole, le gaffe, i doppi sensi, le ambiguità, le provocazioni, fare giri lunghissimi di parole o arrivare subito al punto in modo repentino.

Cosa faccio? Semplicemente riporto per iscritto esperimenti di linguaggio semplice, osservo la realtà di tutti i giorni, gli atteggiamenti delle persone, i tic, il modo di parlare, e questo è il mio principale stimolo, chiunque può essere portatrice di dettagli che nella mia testa prendono il volo divenendo dei gran trip in cui viaggiare. Decisamente grande ispiratori sono Raymond Queneau e Louis-Ferdinand Céline.

In relazione alla mia formazione purtroppo sono una grande delusione, ho semplicemente fatto l’istituto alberghiero. Ho sempre avuto un senso di inferiorità intellettuale abbastanza segnante soprattutto perché ho sentito vividamente che non potevo puntare a cose più in alto, un istituto professionale era abbastanza per una famiglia povera come la mia. Ammesso e concesso che poteva andarmi molto peggio, resta il fatto che le persone razzializzate riescono ad arrivare faticosamente al diploma di scuola superiore e forse le cause sono da interpretare, altrimenti continueremo a pensare che è colpa nostra, non lo è e ho fatto gran fatica a recuperare tutto, a decidere che mi meritavo di più. Ho deciso che la poesia orale, oltre che coinvolgere il mio corpo che si prende spazio, mi permette di legittimare le storie popolari, tornare orgogliosamente a scrivere con i piedi e la voce».

 

So che da Trieste ti sei spostata qui: perché proprio Bologna? È stato un buon campo per mettere a frutto il tuo percorso?

«Sono qui da due anni, ormai ho completamente disperso le tracce, le sto seminando ovunque oscillando tra dentro e fuori, un senso di assenza e appartenenza, tra il costruire e decostruire, il far parte e fare rete. Il mio rapporto con le circostanze è nomade e lo dimostra il mio accento che non viene da nessun luogo. Alle volte mi sembra di volare e tenere il mondo in mano, aver sconfitto il provincialismo che è in me e poter decidere che senso di casa è dove mi va anche solo per un giorno; alle volte crolla tutto e non ho nemmeno una certezza, un senso di familiarità che riscalda, sento il freddo sotto i piedi e sembra di camminare su una lastra di vetro appoggiata nel vuoto più assoluto. Devo essere molto brava a stare in questo filo sottile in cui corro, perché l’ho anche deciso io che sentirmi viva passa da questo. Bologna è semplicemente una città bellissima, moltiplica continuamente i miei stimoli ed è un circolo virtuoso meraviglioso».

 

Hai scelto manifestazioni e cortei come primo luogo concreto per far conoscere i tuoi versi. Raccontaci del ruolo dell’attivismo nella tua vita e nella tua arte, del tuo rapporto con i temi del razzismo e del femminismo e della loro declinazione nel rap e nell’hip hop.

«Ho iniziato casualmente come dicevo, la mia seconda famiglia è la cultura hip hop, nel senso che mi ha cresciuta dalla pubertà in poi ed è la relazione più lunga che ho. Sono molto grata a Tupac per essere stato l’inizio di questo viaggio lunghissimo, a bell hooks per aver colmato quello che una cultura maschile limita. Con Non una di meno ho fatto un pezzo di strada importante, scrivevo per le donne.

Nelle manifestazioni, in generale, mi infastidiva il suono degli interventi che suonano spesso come delle lagne pallosissime, non volevo suonare così, mi deludeva anche la retorica che poteva spingersi verso altro o costruirsi in modo diverso, ascoltare i manifestanti che intervengono è come sentire in loop lo stesso disco ma con parole leggermente diverse (a volte sono le stesse), chi lo dice che la piazza si fa solo così. L’obiettivo era portare un po’ di freschezza, non so se sono riuscita, sicuramente però è servito a me per dare un senso a ciò che facevo, fino a che non è diventato parte integrante della mia vita».

 

Quali erano e quali sono le tematiche che hai voluto affrontare? Sono cambiate nel tempo?

«Ma tutto quello che mi riguarda come soggetto politico. A un certo punto mi dissi che volevo essere la sorella maggiore di cui avrei avuto bisogno, non abbiamo avuto il lusso di poter contare su qualcuna, come si fa ad imparare ad andare in bici senza che nessuna stia lì a dirti come poggiare i piedi e guardare la strada. Come si fa ad imparare a nuotare, come si impara a camminare legittimando spazio per sé se nessuna te lo ha mai insegnato. Ad andare in bici comunque ho imparato l’anno scorso, a nuotare ancora non so, a camminare ho iniziato a prendere abitudine pedalando come una schiava nei vari ristoranti da 14h al giorno. Perché uso queste metafore? Perché sono una donna razzializzata e la prima cosa che mi è stata sottratta nell’intersezione tra queste oppressioni è stata la possibilità di muovermi, il mio corpo è cresciuto imbalsamato oltre che silenziato.

Quello che mi interessa è aprire le celle della cultura omertosa, di ciò che ci fa vergognare, sentire umiliate. Soprattutto le donne, ma anche tutte le persone oppresse che hanno vissuto in condizione strutturalmente violente e limitanti sentono di doversi vergognare di sé stess* per le più svariate ragioni, il mio obiettivo è ribaltare quel senso di vergogna riconoscendo che è uno strumento che il potere agisce».

Wissal Houbabi | Foto di Malì Erotico

 

Come si instaura il rapporto tra musica e poesia e per cosa si differenzia dalla poesia così come la conosciamo?

«Consiglio di sintonizzarsi con il Premio di Poesia con Musica Alberto Dubito e ZPL_Zoopalco. Ho imparato moltissimo da loro e continua a moltiplicarsi lo spazio di condivisione. La poesia performata che possa dare maggior risalto al corpo, la voce, la sperimentazione, lo spazio scenico, il fondersi con la musica, quale tipo di musica, magari può essere anche solo una selezione di suoni o la manipolazione della propria stessa voce. Si differenzia perché non ci sono regole o protocolli, c’è libertà di costruire qualcosa che sia artigianale, nel senso di forgiato piano piano e che alla base si muove attorno all’asse portante che è la Parola».

 

Parlaci dei tuoi progetti, partendo dal primo che ha dato vita a tutti gli altri. Scrivere con i piedi è l’ultimo, basato sulla poesia orale, metafora quanto mai tradizionale del vissuto diasporico di migliaia di migranti.

«Ho scritto varie cose, le prime cose sono l’inizio e come ogni inizio, riguardare mi fa un po’ di imbarazzo e tenerezza allo stesso momento, per quanto non io non stia parlando di secoli fa. Ho imparato strada facendo, capisco sempre più chiaramente cosa mi piace fare e come mi sento a mio agio, ragiono sui miei limiti e come provare a metterli in discussione, sento di essere ancora profondamente in una fase di studio, una fase in cui ancora cerco degli elementi che non ho. Di fatto l’insoddisfazione perenne, la sindrome dell’impostore, la percezione che ho di me è fortemente iper critica, tra le cose che devo imparare c’è sicuramente anche la capacità di sapermi fermare nel presente e non vivere il presente sempre come un momento già passato, obsoleto, inadeguato…

Scrivere con i piedi è un progetto che mi dà gratificazione, forse perché è stato bellissimo il processo, è un lavoro totalmente indipendente, ho avuto piacere di collaborare con professionist* meraviglios*: Ofelia, Toi e Daniele. Ci ha permesso di sperimentare veramente in libertà, capita raramente di poter lavorare con una serenità così; è l’unico mio lavoro che può parlare a tutta la mia comunità e paese di origine, utilizzo la darija marocchina e per quanto non sia necessario sapere di cosa parlo, il mio suono è la rivendicazione della mia lingua madre, di corpi invisibilizzati, di un pubblico dell’arte non contemplato, di una cultura diasporica, di connettersi con luoghi lontani, di esercizio di memoria collettiva, di fare cura e ironia, di raccogliere dalle cose semplici e continuare a trarre ispirazione dalle persone che ci circonda. Io ho semplicemente dato voce al vociferare quotidiano che nei ricordi vive, tornando a osservare da uno spioncino luoghi che sono nell’anima.

È stato un esercizio per alleviare la mia mancanza, durante il lockdown ho sentito forte mancanza del Marocco e riportare a galla quei suoni utilizzando la mia stessa voce è stato un modo per dire: ok, ci sono ancora. Sapere che altre persone si sono riconosciute in quei suoni, non trovando ridicolo o macchiettistico il mio tentativo, mi ha permesso di temporeggiare la carenza e il senso di assenza. Chi come me vive la cultura diasporica vive principalmente un bisogno costante di capire come posizionarsi non solo qui, ma anche e soprattutto lì, ovunque sia l’origine del ricordo (diretto o acquisito)».

 

Quanto c’è delle tue origini nella tua poesia e cosa cerchi di apportare o far conoscere a chi la ascolta? E qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

«Quello che ho potuto imparare dalla mia cultura di base è troppo poco e comunque si muove attorno e attraverso la vita di tutti i giorni. Io amo essere ciò che sono soprattutto perché sono scomoda in qualsiasi contesto, in qualsiasi paese. Ma riesco a trovare del bello in mezzo a contesti oppressivi, soffocanti, marci. Non esistono luoghi in cui potrò dire di essere davvero me stessa o libera, esistono solo contesti in cui senti il petto gonfiarsi.

Io del Marocco adoro incontrare gli anziani al mercato e la loro cortesia ed eleganza, adoro gli odori delle medine che sembra di nuotare dentro un tajine o un hammam, la libertà dei bambini e le bambine (indubbiamente superiore alla libertà concessa qui, quantomeno non controllati come dei pacchi Amazon), adoro stare seduta ore nell’uscio di casa a mangiare frutta secca e parlare dei massimi sistemi, adoro l’atmosfera che si crea durante il periodo del ramadan, stare in hammam per tre ore buone e uscire accorgersi che è notte, adoro i salotti e i pisolini pomeridiani di massa che costi quel che costi il negozio si chiude, adoro le contrattazioni, adoro ricercare tutti i gusti di quando ero bambina e riattivarli: cibo delle bancarelle, merendine confezionate, bibite che credevo fossero di lì invece sono importazione francese, farcito di miti e leggende e il pour pourri di tutto questo».

 

Hai affermato «concedersi l’arte da immigrati talvolta è un lusso»…

«Ovviamente è già un ambiente estremamente precario, estremamente competitivo, estremamente faticoso, immersivo, soprattutto non riconosciuto come lavoro. È un ambiente molto elitario e chi viene da percorsi fuori dall’accademia ovviamente non ha la stessa legittimità, così come chiedersi quanti sono gli artisti e le artiste razzializzate che hanno la possibilità di investire anni in accademia potrebbe essere una buona domanda da farsi. A tutta una serie di premessa basta aggiungere i ricatti dei documenti che non sono dietro l’angolo, sono dietro le proprie spalle».

 

Ci sono altre forme d’arte che ami sperimentare?

«Vorrei avere un team di me, io amavo disegnare, dipingere, creare qualsiasi cosa con le mani, le mie mani amano stare a contatto con qualsiasi materiale».

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