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2BHappy e la Scienza della Felicità

28-12-2020

Di Giulia Fini

La felicità non è solo materia per gli artisti.

Per rispondere alla domanda Che fine ha fatto la felicità? abbiamo ascoltato anche chi la studia con un approccio scientifico, ribaltando il nostro punto di vista: da emozione fugace e a volte irraggiungibile, può essere considerata una vera e propria competenza da allenare giorno dopo giorno.

Sono Daniela Di Ciaccio, sociologa, imprenditrice, insegnante yoga e ricercatrice, e Veruscka Gennari, filosofa, divulgatrice, trainer e studiosa, fondatrici di 2BHappy, la prima agenzia italiana nata per divulgare la Scienza della Felicità.

Lavorano principalmente con sistemi, aziende e organizzazioni, sfidando il modello organizzativo convenzionale, il sistema di valori, i principi e le credenze su cui oggi la maggior parte dei leader fonda il proprio approccio al lavoro. Perché, come dicono loro, “basterebbe anche solo un 10% in più di positività e bellezza ogni giorno per cambiare i comportamenti, le scelte e la vita di tutti noi”.

 

Parlate di “Scienza della Felicità”, ma esiste una definizione di felicità? 

“La scienza della felicità è una disciplina giovane, nata dalla convergenza e dall’integrazione dei contributi provenienti da scienze consolidate (psicologia positiva, biologia, neuroscienza, fisica quantistica ed economia), ricerche di frontiera (come quelle nei campi della medicina integrata o condotte da team multidisciplinari di neuroscienziati e ricercatori in campo spirituale), filosofia e discipline orientali.

Tutte queste scienze ci offrono i principi che ci consentono di comprendere come funzioniamo e dunque di coltivare le condizioni più favorevoli allo sviluppo e al mantenimento di un duraturo stato di felicità. Ecco perché possiamo dire che è possibile essere felici e che ognuno, avendo compreso quali sono i principi che consentono di coltivare la felicità, può avere la propria personale ricetta o definizione“.

Ho sempre pensato che la felicità fosse solo un’emozione, in che senso è anche una competenza? Si può imparare a essere felici?

“La parola ‘felicità’ viene soprattutto associata all’emozione della felicità che per ciascuno di noi ha sapori, sfumature, cause e motivazioni differenti. Se costringiamo però la felicità nella sola categoria delle emozioni, ci appare difficile da identificare: è qui che nascono resistenze del tipo ‘non hai il diritto di dirmi che cosa mi rende felice”; e difficile da raggiungere e mantenere nel tempo: da qui deriva l’aspettativa, puntualmente disattesa, della possibilità di poter essere sempre felici, che una vita felice equivalga a una vita senza problemi, delusioni, dolori. Da qui deriva inoltre la ricerca compulsiva di quello che è fuori di noi, i beni materiali a cui crediamo di dover accedere e possedere per essere felici nel tempo.

In merito alla felicità come competenza e dunque alla possibilità di allenarla, lo studio più importante che è stato condotto in questa direzione è a firma di Sonja Lyubomirsky, Professoressa della California University e Ph.D. della Stanford University che attraverso uno studio molto corposo ha dimostrato che la felicità dipende per il 50% dai geni, per il 10% dalle circostanze di vita (ad esempio l’area geografica o la famiglia in cui si nasce, il livello economico, l’ambiente sociale, il livello di salute) e per circa il 40% dalle nostre scelte intenzionali, ovvero dai comportamenti consapevoli con cui scegliamo di agire e vivere la nostra vita, da quanto cioè ci alleniamo a praticare quelle azioni che si è visto essere più̀ efficaci nell’allenare la felicità come competenza”.

 

Guru, santoni… ultimamente ci troviamo di fronte a operazioni di marketing che puntano tutto sul “motivational”, voi invece vi basate su studi scientifici. Che cosa dicono?

“Quattro sono i cosiddetti ‘pilastri’ della scienza della felicità:

Più chimica positiva e meno chimica negativa. Ogni volta che i nostri bisogni di sicurezza, stabilità, apprezzamento, riconoscimento, appartenenza e connessione sociale sono soddisfatti, il nostro corpo produce una chimica positiva. Ossitocina, dopamina, serotonina, endorfina vanno generati in abbondanza! I comportamenti che attivano questo tipo di chimica sono: rispetto, gentilezza, gratitudine, coerenza, compassione, ascolto, empatia, amore, cooperazione, accoglienza, supporto.

Più Noi e meno Io. La scienza ha dimostrato che siamo cablati per la socialità e che non è sopravvissuta la specie più forte ma quella che ha saputo cooperare meglio. Si chiama capitale sociale ed è la nostra capacità di costruire relazioni solide e di fiducia nel tempo. Coltiviamo il nostro capitale sociale quando: cooperiamo, ci sentiamo coinvolti e coinvolgiamo, diamo supporto e ci sentiamo supportati, ascoltiamo, comunichiamo in modo non violento, mettiamo a disposizione informazioni, siamo gentili, dedichiamo tempo agli altri, condividiamo, ci divertiamo insieme

Più essere e meno fare e avere. In Italia, prima di frequentare l’università, dedichiamo circa 20 mila ore allo studio e di queste nemmeno una è impegnata a conoscere, capire e gestire il nostro essere. Se non impariamo a intercettare i nostri bisogni e valori, cogliere che cosa ci appassiona e può essere coltivato per far fiorire i nostri talenti, se non impariamo a lavorare con la nostra intelligenza emotiva, se non riusciamo a rispondere alla domanda: qual è il mio perché, il mio proposito di vita? allora sarà difficile fare scelte sagge, coerenti ed efficaci.

Più disciplina, meno caos. La felicità è un ‘muscolo volontario’ e si allena attraverso pratiche che devono avere qualità specifiche, cioè essere: intenzionali (dobbiamo sceglierle), ancorate a uno scopo forte (devono avere senso per noi), personali (quello che funziona per me non funziona per tutti), costanti e durature nel tempo (ci vuole disciplina, una routine del benessere da coltivare con costanza ogni giorno) e coinvolgenti (dobbiamo ascoltarci, se sentiamo di perdere interesse dobbiamo aggiornarle)”.

Con la crisi dell’ultimo anno abbiamo perso la bussola. Che fine ha fatto la felicità, secondo voi?

“La crisi ha messo a dura prova le nostre capacità di affrontare sfide, gestire stress e cambiamenti repentini senza perdere il controllo di noi stessi e della nostra vita. Ha portato alla luce le false idee sulla felicità, quella legata al soddisfacimento di piaceri temporanei, alla rincorsa di desideri effimeri e fatto emergere invece il bisogno che abbiamo di costruire capacità di fluire con gli eventi della vita e rimanere saldamente connessi agli altri per moltiplicare le idee e le risorse per gestire la complessità.

Le persone come le aziende che hanno investito sul proprio capitale sociale, sulla costruzione della fiducia e di sane relazioni in tempi ‘non sospetti’ hanno infatti reagito meglio, innovando nelle strategie, nei servizi e adottando comportamenti responsabili e di supporto agli altri”.

 

Voi come l’avete “allenata” in questo periodo? Ci potete suggerire delle strategie pratiche?

“Noi abbiamo continuato a divulgare e praticare ciò che sappiamo essere più funzionale alla salute individuale e alla resilienza collettiva. Tutte le pratiche che trasformano in azioni e comportamenti i principi sopra elencati sono valide, dunque, tutte le azioni che aumentano la produzione di chimica positiva e riducono il cortisolo (ormone dello stress), quelle che alimentano il nostro capitale sociale (il Noi); quelle che aumentano la nostra consapevolezza e lavorano sull’essere come ad esempio: la coerenza cardiaca, la respirazione consapevole, la meditazione o mindfulness, ma anche il gioco, il divertimento, lo yoga e in generale l’esercizio fisico e infine la gratitudine, la gentilezza, il riposo, fare esperienze nuove e il contatto con la natura”.

 

Nella società individualista in cui siamo, spesso si tende a far ricadere tutta la responsabilità sul singolo. Voi invece lavorate principalmente con “sistemi” di persone: aziende e organizzazioni (ospedali, scuole, enti pubblici e associazioni), pensate che la felicità sia una questione collettiva/culturale più che individuale? Raccontateci questa scelta.

“La felicità è una scelta individuale e quindi parte sempre tutto dalla nostra responsabilità. Poiché siamo animali sociali, è inevitabile che il contesto più allargato conta e spesso influenza pesantemente l’individuo. Ecco perché lavoriamo con le organizzazioni, affinché chi le guida possa mettere in atto le condizioni ambientali, culturali e di processo (regole, leggi, procedure) che facilitano invece che ostacolare la felicità e il benessere individuale.

Un esempio per tutti: se l’autonomia decisionale e la possibilità di coniugare i tempi di lavoro con le altre attività che mi interessano sono tra i fattori determinanti per il mio livello di felicità e soddisfazione generale di vita, lavorare in un’organizzazione che prevede lo smartworking sia come possibilità di lavorare da remoto quando e come si vuole, sia come visione del lavoro guidata dalla fiducia nei confronti dei collaboratori e non da stili di leadership tipo ‘comanda e controlla’, fa la differenza”.

Com’è nato il progetto? In un momento di crisi o di felicità?

“2BHappy Agency è nata nel 2015, dopo periodi di ‘sfighe’ personali sulle quali entrambe abbiamo iniziato a ragionare per trarne insegnamenti utili alla nostra evoluzione umana e che abbiamo ri-elaborato e trasformato in un progetto professionale alla luce delle informazioni e delle ricerche che abbiamo iniziato a studiare sull’argomento e che poi abbiamo iniziato a mettere a sistema attraverso il modello culturale dell’Organizzazione Positiva che abbiamo iniziato a divulgare in Italia per onorare il nostro proposito della felicità prima di tutto e per tutti”.

 

Guardando i social, la felicità sembra essere diventata un imperativo: una felicità più mostrata che vissuta. Davvero non ci possiamo concedere di essere, e mostrarci, infelici?

“La felicità non è solo un’emozione e non è il circolo vizioso dei like sui social o della dopamina a tutti i costi, che è lo stesso meccanismo di ogni tipo di dipendenze. Nel concetto di felicità come competenza rientra a pieno titolo l’accoglienza della vita in tutta la sua pienezza e verità, dunque polarità, complessità, emozioni spiacevoli che possiamo osservare e provare traendone le informazioni e le lezioni utili alla nostra crescita senza soccombere o farci travolgere da queste.

Non si tratta di negare, rifiutare o escludere il dolore e la sofferenza ma imparare ad accettarle come parte del gioco del vita e trasformarle in qualcosa di utile e produttivo per noi e gli altri”.

 

Che ruolo hanno le emozioni “negative” nelle vostre organizzazioni positive?

“Sono segnali di qualcosa che richiede attenzione, cura e lavoro per fare un salto di livello verso un nuovo stadio evolutivo”.

Una società felice è un’utopia? Qual è l’obiettivo del vostro lavoro?

“Oltre al fondamento scientifico del nostro lavoro che ci consegna la possibilità teorica ed empirica di potere costruire una società felice, siamo anche persone molto pratiche e che amano vedere i risultati concreti di questo lavoro. Non inseguiamo quindi utopie ma costruiamo piuttosto ‘protopie’: stiamo certificando in Italia i Chief Happiness Officer, professionisti che nelle organizzazioni sono in grado di facilitare questa transizione culturale verso società ecosistemiche.

Siamo alla terza edizione già conclusa in appena un anno e con una comunità che conta già 140 persone. Ognuna di queste persone ogni giorno porta avanti progetti concreti.

Oltre ai CHO abbiamo anche una comunità di Geni Positivi, un altro centinaio di professionisti nel mondo della formazione, del counseling, del coaching specializzati in Scienza della Felicità che, come i CHO, stanno realizzando progetti concreti di divulgazione e sviluppo di queste competenze nelle scuole, negli ospedali, nelle organizzazioni non profit, nello sport e nelle famiglie in tutto il territorio nazionale.

Sono il nostro moltiplicatore d’impatto ed è attraverso queste iniziative che portano avanti come singoli, gruppi e come network che stiamo già realizzando una società più felice, cinque anni fa quando abbiamo iniziato a sdoganare la parola ‘felicità’ in Italia, poteva sembrare una folle utopia ma che oggi invece costituisce il servizio che rendiamo per la costruzione del futuro positivo che desideriamo lasciare in eredità a chi verrà dopo di noi”.

 


Che fine ha fatto la felicità?

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