Chi non ha visto, almeno una volta, la copertina di gennaio 2024 del New Yorker e non si è un minimo immedesimato o riconosciuto in quella ragazza alla scrivania la notte di capodanno? Se non proprio l’ultimo dell’anno, stento a credere che la maggior parte di noi non si sia sentito come la protagonista dell’illustrazione di Bianca Bagnarelli: seduto, alla scrivania, illuminato dal laptop, fedele compagno della quotidianità, e con lo sguardo rivolto fuori, ai fuochi d’artificio.
Bianca Bagnarelli, classe 1988, di nascita milanese ma di adozione bolognese, disegna per il New York Times, Il Post, The Atlantic e Il Foglio e lo fa dal capoluogo emiliano dove ha mosso i primi passi come illustratrice frequentando l’Accademia delle Belle Arti, ai tempi la prima e unica in Italia dedita al mondo dell’illustrazione, e fondando in seguito Delebile, etichetta indipendente che per dieci anni ha curato la pubblicazione di fumetti italiani e stranieri, altra grande passione della Bagnarelli nonché fondamento e ispirazione dei suoi lavori.
L’abbiamo incontrata per farci raccontare il suo percorso.
Disegni per testate come il New York Times, Il Post, The Atlantic, Il Foglio dunque, a maggior ragione per la tipologia di lavoro che fai, non posso non chiederti come ci sei arrivata nel capoluogo emiliano ma soprattutto perché hai deciso di rimanerci. Qual è l’elemento maggiormente distintivo rispetto a Milano?
«Sono venuta a Bologna per studiare all’Accademia di Belle Arti, che all’epoca era l’unica in Italia ad avere un corso dedicato al fumetto e all’illustrazione. Qui ha preso forma il progetto di delebile fondato assieme a compagni di corso e che poi abbiamo portato avanti per quasi dieci anni.
Bologna è una città centrale al fumetto italiano, che è sempre stato il mio interesse principale, e rispetto a Milano è molto più piccola e vivibile…costa anche meno, che male non fa».
Tu che per prima sei artista come consideri Bologna dal punto di vista culturale, accademico, artistico e, non ultimo, di opportunità?
«Sicuramente dispiace che non ci sia più il festival BilBOlbul che era, secondo me, uno dei più belli in Italia. Per il resto, nel suo piccolo, ha tutto quello che serve».
Passiamo alla copertina del New Yorker: sicuramente domanda per te ridondante in questo periodo, ma ti chiedo da dove è nata l’idea e perché a tuo parere l’ha resa così emblematica? Qual era la rappresentazione che volevi dare?
«Quando si crea qualcosa, che sia un disegno, un libro, qualsiasi cosa, poi questo va per la sua strada e prende altre forme e significati attraverso gli occhi di chi lo guarda/legge.
La copertina è stata percepita sia come un’immagine serena, di ritiro e calma da un momento caotico, sia di denuncia delle storture del mondo del lavoro contemporaneo.
Io capisco entrambe le visioni e mi sono tutte e due estranee, nelle mie intenzioni non c’è un messaggio morale definito.
L’illustrazione viene da uno spunto assolutamente autobiografico, spesso gli anni passati mi è capitato di lavorare durante le feste, e la sensazione che provo è di stare sfruttando delle sacche di tempo in cui il mondo si ferma e io invece mi porto avanti, faccio più cose possibile. Come se stessi fregando il sistema.
Poi però ti ricordi che ti stai perdendo una festa, e viene un po’ di malinconia».
Quando realizzi uno dei tuoi lavori da dove parti, quali sono i passaggi che attraversi e quali gli esempi, le correnti, gli stili e gli altri artisti, illustratori come te, ai quali ti ispiri?
«Per i lavori di illustrazione parto solitamente sempre dal testo. Leggendolo si trovano immagini e metafore da cui poi si parte e si elaborano gli schizzi, solitamente almeno tre, dai quali se tutto va bene viene selezionato quello che poi diventerà definitivo.
Cerco di guardare molto alla realtà, ad altri medium, fotografia, pittura, e ci sono sempre molti riferimenti al fumetto».
Hai sempre pensato che saresti diventata un’illustratrice di talento e riconosciuta? Cosa è per te oggi il tuo lavoro?
«Un lavoro, che sono molto fortunata a fare e che spero di poter continuare a fare ancora a lungo. Non so se pensavo che il mio lavoro sarebbe stato riconosciuto, ma ho sempre saputo che volevo fare qualcosa che avesse a che fare con il disegno e con le storie».
Che ruolo pensi ricoprano gli illustratori nel panorama artistico e nel mondo dei social media oggi? Come ha cambiato la tecnologia questo campo e quali ritieni siano i benefits così come i lati negativi, se ce ne sono?
«Siamo costantemente circondati dalle immagini, tutto quello che abbiamo attorno, e con i social ancora di più, contiene le scelte grafiche/estetiche e narrative di qualcuno. Sicuramente mi piacerebbe che il lavoro che viene fatto dagli illustratori fosse meglio riconosciuto e pagato».
Quali sono le commissioni e le collaborazioni che ami ricordare di più, alle quali hai consegnato un significato per te più intimo e strettamente personale, magari non riconoscibile da parte dell’occhio esterno?
«Le storie brevi a fumetti che ho realizzato negli anni, che sono la parte più privata e personale del mio lavoro».
Progetti per il futuro? Possiamo avere qualche piccolo spoiler?
«A marzo uscirà “The Summer We Crossed Europe In The Rain” per Faber, di cui ho realizzato le illustrazioni a partire dai testi delle canzoni che negli anni lo scrittore Kazuo Ishiguro ha scritto per la musicista jazz Stacey Kent».
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