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Al di là delle parole degli esperti in tv, nella mente restano le immagini. Bologna ai tempi del Covid-19 in 100 scatti d’autore

16-03-2021

Di Laura Bessega

Il coronavirus colpisce l’apparato respiratorio. Se sono in grado di trattenere il respiro per almeno 10 secondi senza tossire, vuol dire che sono sano. Questa è una delle tante fake news che girano sui social media e smentite dal Ministero della Salute.

Io il respiro l’ho trattenuto per un anno, senza mai lasciarlo andare completamente, senza mai lasciarmi andare completamente. Nemmeno durante l’estate scorsa, quando il suddetto virus ha allentato la morsa e pareva averci regalato un’oasi di ossigeno nell’oceano pandemico che ci ha sopraffatti lo scorso inverno.

Un anno complesso, assolutamente inaspettato. Un anno su cui riflettere. E che per questo va raccontato. Al di là delle tante parole degli esperti in televisione e delle cronache sui giornali, nella mente ci restano impresse le immagini.

Foto di Gianni Schicchi

I carri di Bergamo, le piazze vuote di Bologna. I negozi chiusi, i reparti di terapia intensiva, i saluti dai balconi e “i portici senza ombre”, ombre umane di cui mi parla Gabriele Fiolo, curatore, insieme all’associazione Tempo e Diaframma, del progetto editoriale Il respiro trattenuto. Bologna ai tempi del Covid-19 in 100 scatti d’autore, edito Minerva, e della relativa mostra. Per l’esattezza 104 foto e 13 fotografi bolognesi che hanno documentato questi mesi per restituire a noi, inizialmente chiusi dentro casa, una visione di quello che stava succedendo fuori. Dopo alcuni rinvii dovuti alle restrizioni, la mostra composta da 118 pannelli sarà visibile dal 22 giugno al 10 luglio in Biblioteca Salaborsa.

Foto di Marika Puicher

Se gli ultimi anni con il digitale abbiamo assistito a una democratizzazione della fotografia grazie all’uso di smartphone super avanzati e un proliferare di fotocamere entry level, contribuendo a riempire le strade di fotoamatori intenti a scattare ovunque, è doveroso ricordare che quando il Covid dilagava nella città deserta e nessuno sapeva di cosa si trattasse, loro c’erano. Gianni Schicchi, Rossella Santosuosso, Paolo RighiMarika Puicher, Michele Nucci, Margherita Caprilli, Gianluca Perticoni, Mauro Montaquila, Alessandro Ruggeri, Massimo Paolone, Massimiliano Donati, Michele Lapini, Max Cavallari erano i fotografi in prima linea.

Alcuni di loro li avevamo già coinvolti nella nostra riflessione sulla “nuova normalità”.

Foto di Paolo Righi

«Anch’io sono un fotografo ma volutamente non ho inserito le mie foto. La scelta è stata fatta con cognizione di causa. Nel progetto ho coinvolto solo i fotografi professionisti attivi sul territorio e che lavorano per commissione. C’è il Carlino, Repubblica, Il Corriere, Ansa, Ghetty Images, Parallelo Zero» mi racconta Gabriele Fiolo.

Mi chiedo e gli chiedo che obiettivo e che valore ha questa mostra in un periodo in cui stiamo assistendo a una nuova impennata del virus a distanza di un anno. E si tratta dell’ondata peggiore da quando tutto questo è cominciato.

«Il progetto è ancora più attuale di quando l’avevo pensato, a marzo scorso. Si focalizza sulla memoria, che non può rimanere solo emozionale. Siamo persone diverse con background e sensibilità diverse perciò queste immagini non arrivano a tutti nello stesso modo. Testimoniare quello che abbiamo vissuto e che ahimè stiamo ancora vivendo, e riproporlo dopo un anno, è diventato quasi un dovere. Come diceva Roland Barthes, bisogna rendere presente il passato».

Foto di Rossella Santosuosso

E se una foto parla al presente di un contenuto passato, non modificabile, lasciandoci senza alcuna possibilità di agire su di esso, in questo caso non è così. Queste foto rappresentano un passato che si ripropone. Sono una ferita aperta sulla nostra pelle. Non sono ancora cicatrici sul nostro corpo.

 

«Fotografare è un atto bidirezionale:

in avanti e all’indietro.

Certo, si procede anche “all’indietro”.

[…] Una fotografia è sempre un’immagine duplice: mostra il suo oggetto

e – più o meno visibile –

“dietro”,

il “controscatto”:

l’immagine di colui che fotografa

al momento della ripresa».

Wim Wenders

Foto di Michele Lapini

«L’altro giorno ero in centro a consegnare le copie del libro ai fotografi. Eravamo in piena zona rossa ma non era assolutamente la zona rossa del primo lockdown. I numeri non ci danno ragione. Ci siamo già dimenticati cosa abbiamo vissuto nei primi mesi. In centro c’erano solo piccioni, niente persone. Erano in due o tre in piazza Maggiore e si domandavano: cosa fotografiamo?»

Un’immagine è sempre filtrata dalla cultura di chi scatta e di chi guarda. Costruisce un ponte con la società e la rende coscienza collettiva. Allora chiediamoci: cosa ci ha insegnato questa esperienza?

Foto di Massimiliano Donati

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