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Bologna Estate. Il nostro viaggio tra le “Botteghe Artigiane Viaggianti” dei Cantieri Meticci

16-07-2020

Di Luca Vanelli
Foto di Stefano Laddomada

È un pomeriggio afoso al Parco della Montagnola. Sono le 18.30 e alcune sedie rosse sono disposte in cerchio attorno a due microfoni e due casse molto grandi.

Qui si svolgerà uno dei laboratori delle Botteghe Artigiane Viaggianti, l’iniziativa ideata da Cantieri Meticci che sta attraversando molti quartieri di Bologna.

Noto subito Pietro Floridia, il direttore artistico di Cantieri Meticci. Riconosco la sua voce: ci siamo sentiti al telefono qualche giorno prima. Era una voce pacata, molto distesa. Qui sembra un’altra persona: è scattante, si muove, gesticola, ti penetra con lo sguardo.

Mi tornano alla mente le sue parole mentre mi spiegava il progetto delle Botteghe e quello che diventeranno: “Il progetto è articolato in tre fasi. La prima fase, quella delle Botteghe Artigiane Viaggianti, continuerà fino al 24 Luglio e vede nove percorsi laboratoriali svolgersi in tanti punti della città e contraddistinti da temi diversi: migrazioni, razzismo, diseguaglianze di genere, infanzia etc. In questi laboratori, a cui possono partecipare tutte le persone che passano di lì, ci si interroga su cosa non vogliamo dimenticare, chi non vogliamo più lasciare indietro, di che cosa vogliamo prenderci cura in futuro. Si scrive, si improvvisa, si discute su che cosa è importante in questo momento del ‘Ricomincio’”.

Sì, avete letto bene, il “Ricomincio”. Tutti i materiali che verranno raccolti negli incontri delle Botteghe Artigiane Viaggianti (collages, piccole sculture, disegni, scritti, registrazioni audio, video, piccole piantine etc) verranno collocati in tante valigie che andranno a costruire i tre vagoni del “Treno del Ricomincio”.

Poco dopo essermi seduto, ricevo dei fogli con alcune poesie raccolte da Pietro. Sono poesie scritte da autrici afroamericane: Claudia Rankine e Audre Lorde. Sono tutte su temi particolari: il rapporto con madre e padre, il femminile in lotta, il concetto di prendere spazio, i corpi di queste donne di colore nei luoghi e nei mezzi pubblici.

Iniziamo a leggerle tutti insieme: uno alla volta ci diamo al cambio al microfono, ognuno leggendone un pezzettino. È una lettura collettiva. Pietro intanto ci invita a segnarci con la penna le parti che ci colpiscono di più, i frammenti che ci toccano da più vicino.

E continuano a tornarmi alla mente le sue parole di qualche giorno prima: “Durante i laboratori le persone possono e devono utilizzare ogni tipo di linguaggio. Possono narrare, disegnare, fare collage, muoversi nello spazio e utilizzare il proprio corpo. Così le valigie si trasformeranno in un messaggio artistico che potrà essere visto da tante persone. Le valigie diventeranno i mattoni del treno. Il primo vagone è stato portato nel Parco Giardini Europa Unita (nel quartiere Savena). Il vagone è nudo, spoglio, fatto in rete elettrosaldata, poi ogni vagone verrà allestito con le valigie che arrivano dai laboratori dalle persone che vivono il parco e il quartiere”.

Qualcuno mi prende contro, riprendo attenzione. Ci stiamo muovendo. Dopo aver letto, trasformiamo lo scenario: spostiamo le sedie a formare gli scompartimenti di un treno. Ci disponiamo come se fossimo dei vacanzieri ed iniziamo a parlare, a discutere, a confrontarci con gli altri “viaggiatori”.

Pietro ci ferma e ci illustra tutto ciò che dovremo fare da qui in avanti: dovremo costruire una azione collettiva. Qualcuno può alzarsi, andare al microfono e improvvisare su tanti beat di diverso genere. Gli altri intanto dovranno ascoltare e interagire con il proprio corpo e quello degli altri per rappresentare ciò di cui si sta parlando: muoversi nello spazio, a contatto con le sedie e con gli altri. Abbiamo anche dei fogli a disposizione: possiamo fare schizzi e disegni di ciò che accade. Il tutto, però, insieme. Come un tutt’uno.

Prima di iniziare, ci prendiamo alcuni minuti per buttare giù qualche appunto. Pietro infatti ci invita a utilizzare i frammenti che abbiamo segnato per costruire un canovaccio, un racconto, una poesia nuova. Unire e fondere pezzi originali delle poesie con pezzi inventati da noi per parlare di ciò che ci preme.

Si parte e dopo alcuni minuti una ragazza arriva al microfono e inizia a cantare i versi di alcune poesie. Mi trovo spiazzato, non so esattamente cosa fare. Un ragazzo di colore si alza, raggiunge l’altro microfono e inizia un lungo sfogo improvvisato: ha voglia di essere visto, che le persone lo vedano, che non sia invisibile. Io cerco ancora di prendere confidenza con la situazione, provo a muovermi, a sentire il mio corpo. Ma interagisco solo con me stesso. E così molti altri.

Pietro ci interrompe, quasi riprendendoci. Ci riprende perché non facciamo le cose insieme, perché non ascoltiamo quello che viene detto, perché non ci guardiamo negli occhi con gli altri.

E nella mia mente i pezzi di conversazione che ho avuto con Pietro iniziano ad incastrarsi come quelli di un puzzle. Ricordo quando mi ha spiegato il concetto di “AssemblEaggio Collettivo”:

“È l’unione tra l’assemblea e l’assemblaggio. È ciò che dovrebbe accadere nelle città. È ciò che dobbiamo imparare a fare di nuovo come esseri umani. Realmente il mondo viaggia velocissimo verso la separazione dei ricchi dai poveri, delle persone che hanno studiato da quelle che non l’hanno fatto, dei bianchi dai neri. E allora per me la cultura deve diventare quel campo in cui ci si inventa delle formule nuovo: uno spazio terzo che non è mio né tuo, ma è comune. Uno spazio in cui imparare a tenere insieme le differenze. Non è difficile far andare d’accordo i simili, ma è difficile fare andare d’accordo i diversi. La vera complicatezza sta nel trovare un campo comune per i dissimili, per i disparati, per chi è particolare. E la cultura deve prendersi la responsabilità di fare questo, lo può fare perché inventa dei mondi terzi”.

Si ricomincia e riproviamo. E qualcosa cambia. In un istante mi si è palesata davanti la differenza abissale fra il fare le cose da solo e il fare qualcosa insieme. E la seconda opzione implica tutta una serie di azioni e movimenti che si tende sottovalutare: c’è la necessità di guardarsi dritto negli occhi, di non aver paura di scambiarsi uno sguardo; c’è la necessità di ascoltare qualcosa che accade lontano da te; c’è la necessità di vedere dove stanno i corpi degli altri.

Pietro continua a girare intorno a noi mentre ci muoviamo all’unisono, sfiorandoci, cantando, gridando, muovendoci, ascoltandoci.

Pietro si trasforma in una sorta di guida, come ad insegnarci da zero l’arte della collettività, del trasformarsi da individuo a componente di una comunità. L’io era diventato un noi fra sconosciuti. Uno spettacolo improvvisato a cielo aperto.

E gli spettacoli saranno protagonisti della terza fase di questo enorme progetto, come mi ha spiegato sempre Pietro: “La terza fase inizierà il 24 Luglio. Il Treno del Ricomincio si trasformerà in un gigantesco palcoscenico e i tavolini delle Botteghe Artigiane diventeranno una platea con cui di volta in volta far succedere una ritualità diversa: spettacoli, letture, laboratori. Diventerà un luogo di cultura attivo, fatto di mostre, musica e tanto altro. Successivamente speriamo o che resti lì per tutta l’estate o che inizi a girare in altri territori, animando anche altri due o tre territori e continuare un’altra programmazione con un’altra comunità”.

Mi prendo una piccola pausa e mi rendo conto che il tempo è volato: sono le 20.30.

Mentre corro alla macchina cerco di assimilare e rielaborare ciò che ho vissuto. Rimango stupito di come non si sia più abituati a fare qualcosa insieme alle altre persone. È difficile che ci si guardi negli occhi, che si cerchi di seguire le parole di altri, di ascoltare.

Mi sembra che i territori comuni siano sempre meno e si venga spinti, in maniera molta subdola, a continuare a concepirsi come individui singoli. Ti trovi in una società che ti ripete, costantemente e sottovoce, di rimanere individuo isolato.

Faccio caso al fatto che se non si viene stimolati, si disimpara a fare le cose collettivamente: non si è più abituati a farlo. E allora capisco quanto siano importanti eventi come questi laboratori: momenti di rieducazione comunitaria; una scuola del “fare le cose insieme” per chi non sa più farlo; un esercizio attivo di creazione spontanee di comunità momentanee.

Tutte queste parole mi si arrovellano in testa e forse sta anche qui la potenze dei laboratori di Cantieri Meticci: il far sentire tutto vivo.

Mentre apro la macchina mi rendo conto di avere ancora in mano i miei fogli. In quell’istante mi rendo conto di non essermi preso il tempo per andare al microfono e lanciare i miei versi sparsi, la mia poesia improvvisata:

“Alcune donne tremano
seppellite in miti che non valgono niente

Alcune donne muoiono
e frugo tra le morti che hanno vissuto
oscillando sopra un ponte di domande

Alcune donne tacciono
e quando parlano
hanno paura che le loro parole
non vengano udite
o ben accolte

Alcune donne sognano
cercano un adesso che dia
vita a futuri migliori

Tutte le donne hanno un posto
stanno qui dove siamo tutti

E io siedo qui chiedendomi
quale me sopravvivrà
a tutte queste liberazioni

La versione migliore di me
per vivere insieme

Il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa”.

Accendo la macchina, parte un pezzo di Dutch Nazari come a chiudere il cerchio di tutto questo pomeriggio: “Nelle stazioni”. Provo ad inserire le mie parole sul suo ritmo, fino ad un punto in cui è lui stesso a dire le parole più precise e necessarie:

“E oggi che l’individualismo è un valore
che ti sussurra “ognuno per sé”
forse è tardi per farti notare
che da soli siamo solo anime dentro scatole
con la scritta “FRAGILE”.

(Questo è stato il laboratorio a cui ho partecipato io, ma ognuno sarà diverso e si svilupperà in forme inedite. Su Facebook si trova il programma completo degli eventi in giro per la città con orari e temi)

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