A febbraio 2020 è arrivato a Bologna in cerca di un lavoro, con alle spalle colori, pennelli e un passato ingombrante. La grinta e l’entusiasmo che spesso animano i nuovi inizi sono stati contenuti da distanziamento sociale, diffidenza e spruzzi di amuchina. Una settimana dopo, infatti, il Covid ha fatto abbassare repentinamente le serrande e il volume della città.
La reclusione forzata non ha bloccato il progetto urbano di Christian, in arte e per strada CHRPRN che, durante una serata di lockdown, esattamente il 24 aprile, ha affisso la sua prima opera sui muri di Bologna sotto la sua ex casa in via Broccaindosso. È una donna di spalle che offre un fiore a chi la guarda: un esplicito tributo all’anniversario della Liberazione e a una famosa canzone di Guccini. Gli altri suoi interventi, circa una trentina – uno più uno meno – colorano le vie della città e spesso narrano un disagio emotivo attraverso un racconto sempre aperto, che si dispiega in tanti volti.
Christian si è formato all’Accademia Albertina di Torino in pittura, ma si è ritirato a un solo esame dalla laurea, palesando, con questa decisione, la sua grande difficoltà di scegliere, filo tematico che percorre la sua vita e la sua produzione artistica. Dopo un’esperienza in USA come art director in una casa cinematografica, torna in Italia ed è allora che germoglia la sua crisi, già latente.
Accetta un lavoro “normale”, a tempo indeterminato, nel settore del marketing ma questa scelta – come ogni altra – lo turba, provocandogli uno stato di forte ansia. «L’unica volta in cui ho visto mio padre soddisfatto di me è stato quando ho firmato quel contratto, ma era la vita che voleva lui, non io. Avevo la mentalità del paesino di provincia, per la quale un contratto stabile vuol dire che sei sistemato a vita. Mi sembrava che tutti attorno a me avessero una direzione e sapessero dove andare. Io non lo sapevo e mi sentivo perso».
Non a caso nomino Kierkegaard e mi risponde citando l’Aut-Aut, il noto testo del filosofo danese, alludendo allo smarrimento che si prova davanti alla scelta, essendo la scelta in sé ciò che manda in crisi, perché come sottolinea lui «ogni scelta che facciamo ci chiude delle porte, e io avevo il terrore che scegliendo una cosa, avrei rinunciato all’altra».
L’acquisto di una macchina, presa a rate, sancisce un ulteriore passo verso una vita omologata, che non sente sua, decretando l’abbandono delle proprie aspirazioni, a testimonianza che anche le certezze possono causare incertezze. Ingabbiato in un percorso che sembrava già scritto, comincia a fumare DMT, a darsi a una vita sregolata e ad avvertire forti attacchi di angoscia, come in seguito saranno diagnosticati.
«Mio padre era un diacono ed era una figura che tutti stimavano. La gente mi identificava in base a lui e, agli occhi degli altri, ero un bravo ragazzo perché figlio suo, ma io volevo dimostrare il contrario: mi piaceva che si sapesse che frequentavo brutta gente, che ero il figlio sbagliato, perché mio padre non era quello che gli altri vedevano. L’ho sempre un po’ punito nella vita».
Divorato dall’angoscia, ha tentato il suicidio: «era premeditato anche se ero in uno stadio perennemente annebbiato. Ho provato ad addormentarmi assumendo una quantità eccessiva di EN. Sapevo che i miei avrebbero sofferto molto e quindi ho cercato di sistemare tutto il resto: non volevo lasciare debiti, né nulla di irrisolto».
Scampato al peggio, si è svegliato in un ospedale psichiatrico dove è rimasto ricoverato per due settimane. «Quel periodo non so raccontarlo perché è nebbia, ma è solo da lì in poi che ricordo la mia vita. L’ospedale è stato per me come un cuscino: un posto dove mi sentivo al sicuro dall’esterno ma soprattutto da me stesso. Mi hanno obbligato a fare una terapia sia farmacologica che psicologica, da cui è uscito fuori di tutto, problemi che non sapevo nemmeno di avere».
Grazie a quel percorso ha trasformato il dolore in rinascita.
«La pittura è stata una terapia e la mia ancora: mi permetteva di non occupare troppo la mente, di pensare ma concentrandomi su ciò che stavo facendo. È come se sentissi le onde del mare, ma hai un’ancora che ti tiene lì e ti permette di non andare a largo. Riuscivo a pensare ma non mi lasciavo travolgere dai pensieri».
Reduce dalla sua esperienza che lo ha portato a una nuova consapevolezza di se stesso e una maggiore sensibilità verso gli altri, ha dato vita a un progetto artistico che allude al dolore che non si vede, reso invisibile e nascosto perché privo di strumenti che lo diagnostichino.
I suoi lavori sono un ponte tra passato e presente, tra lo stigma della malattia invisibile avvertito sulla propria pelle e la volontà di emanciparsene e sublimarla attraverso la pittura e in loro aleggia un silenzio di fondo che sta al fruitore, svelare, cogliendo quella luce di dolore che brilla nei suoi volti.
Dipinge corpi ed esistenze percepite come minori, sbagliate, inferiori, alcune ai margini dell’accettazione sociale. Tratteggia la transizione, le dipendenze, l’anoressia, la depressione, le parti fragili, intime e nascoste che ci si guarda bene dall’esporre in pubblico ma che lui mette in strada, perché è proprio lì che possono vivere nel quotidiano innescando un dialogo con i passanti e con l’ambiente stesso.
Riproduce su carta le foto di volti in un momento di dolore, spesso percepibile inconsciamete ma non sempre decodificabile.
La prima persona che ha dipinto? Il suo spacciatore. Come ho fatto a non pensarci! E io non riesco a non ridere, ovviamente con lui e bonariamente.
L’ultima, invece, sono io e dalla scorsa notte il mio volto e il mio ventre sono affissi in un vicolo di Bologna a testimonianza di un disturbo invisibile agli occhi altrui, agli esami diagnostici e allo Stato e per il quale combatto, a modo mio e con la penna.
I suoi ritratti urbani, realizzati con la tecnica del Paste Up, oltre alla sua firma criptata, riportano sempre un’impercettibile lacrima che riga il volto ma, ciononostante, «bisogna immaginare Sisifo felice».
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