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“Dovremmo imparare a tenerci i ca**i nostri un po’ per noi”. Dodici Mesi, l’ultimo album di Fosco17

09-01-2020

Di Luca Vanelli

La sciatrice Sofia Goggia, a poco meno di dieci anni compiuti, aveva scritto in una scheda della scuola di sci che il suo obiettivo era vincere la medaglia olimpica di discesa libera: quindici anni dopo ci sarebbe riuscita. Un po’ come lei, Luca Jacoboni, classe ’95 e in arte Fosco17, racconta che alle medie non sapeva suonare nessuno strumento e girava per la scuola dicendo che avrebbe voluto fare “il musico fallito”: diversi anni dopo ci sarebbe riuscito.

Fosco17, dopo la partecipazione nel 2018 a Sanremo Giovani con il singolo Dicembre è uscito a marzo 2019 con il suo primo Ep, Prima Stagione. A novembre, anticipato dall’uscita del singolo Una canzone da falò, ha pubblicato il suo primo album, Dodici Mesi.

Un anno intero in un disco fra amori, quotidianità, silenzi, vita propria e vite degli altri: dodici capitoli di un romanzo dal finale aperto, un’unica trama fatta di momenti diversi. Canzoni che parlano in prima persona delle storie di tutti, delle cose degli altri. Un disco che parla di sé parlando per tutti, dove non esiste uno spazio o un luogo, ma si compone di voci diverse che gli danno aria.

Luca nelle canzoni ha la voce da playboy, ma mentre mi racconta di questo disco si sente ancora la voce del ragazzino che scalpita dentro, quello innamorato del Bologna Fc e che sogna il goal al Dall’Ara ma con la maglia giallonera del Collettivo Hmcf, la “polisportiva culturale” di Bologna che l’ha lanciato nel 2018 e con cui condivide ancora oggi il suo percorso. Ve l’abbiamo raccontata qui.

Quel ragazzino scalpitante continua a farsi spazio, ha cominciato un tour che passerà anche da Bologna questo sabato, 11 gennaio, al Covo Club e pare abbia già pronto il prossimo disco.

Sei salito sul palco diverse volte con la maglia giallonera del Collettivo Hmcf e hai pubblicato anche alcune foto con te da bambino e la maglia del Bologna. Quali sono i tuoi ricordi legati al Bologna?

“La maglia giallonera è la maglia di rappresentanza del Collettivo Hmcf che utilizziamo per il Tutto Molto Bello: poi a me tengono spesso in panchina perché non hanno capito ancora il mio potenziale inespresso; Lo dico ad alta voce perché di fianco a me c’è il mister quindi sto lanciando delle frecciatine.

Sono diventato un vero appassionato del Bologna più avanti rispetto a quelle foto, quando ho iniziato ad andare allo stadio, verso i 12/13 anni. Sto ancora esultando per il rigore di Marazzina a Pisa”.

 

In realtà anche io sono legato a quegli anni, quelli del ritorno in A. Non un gran Bologna eh, ma ognuno forse ha il Bologna che si merita e anche quello ci ha regalato grandi emozioni.

(ride n.d.r) Ecco sì, non è il Bologna storico di Signori e Baggio. Ho ricordi bellissimi di un Bologna probabilmente meno affascinante ma molto più sofferente e intenso; un Bologna che soffre tutto l’anno e poi si salva con il gol di Volpi contro il Lecce all’ultimo minuto.

Anche se ripensandoci il mio privo vero ricordo calcistico è lo spareggio contro il Parma: son partito con un Bologna sfigato”.

 

Ecco sì, abbiamo vissuto momenti complicati sulla fede calcistica. Oltretutto contro il Lecce vincemmo con un goal di Di Vaio in fuorigioco: ho amici salentini che non hanno ancora digerito quella partita.

“No dai, non ci credo. Non puoi rovinarmi l’infanzia in questo modo”.

E invece quali sono i tuoi fenomeni della musica, quelli che proprio non molli mai?

“In realtà ho un ricambio musicale abbastanza ampio, quindi difficilmente non mollo. Soprattutto negli ultimi anni fagocito le nuove uscite e poi me ne disinnamoro abbastanza in fretta. Quando esce un album corro ad ascoltarlo, però poi mi stomaca subito.

Sono partito, credo come buona parte delle persone, dai Beatles ma ero molto piccolo. Poi da lì c’è stato un grande caos: mia mamma ascoltava cantautorato italiano, mentre a scuola mi bombardavano con i Green Day prima e con i Tarm dopo. Poi mi sono avvicinato da solo al mondo del rap, ma ultimamente sono molto volubile e vado più per canzoni”.

 

Parliamo un po’ del disco. C’è molta vita quotidiana, molte piccole scene che spesso passano inosservate che mi hanno ricordato i “momenti clinici” di Dutch Nazari. Ti capita spesso di rimanere come folgorato da piccoli istanti che illuminano tutto?

“In realtà è una cosa molto inconscia. Soprattutto per questo disco è difficile che mi sia mai segnato durante la giornata delle cose che sarebbero poi diventate dei testi o delle melodie. Anzi, nei momenti in cui non stavo facendo musica cercavo di non pensarci affatto.

Quando mi metto a scrivere esce quel che esce e dopo analizzo cos’è uscito, non me ne accorgo subito. Le canzoni sono il risultato di quello che veniva fuori esattamente in quel momento”.

Quindi c’è una separazione netta fra il momento in cui scrivi e il momento in cui “vivi”?

“Quando ho voglia scrivo, però cerco di strumentalizzare al massimo il momento in cui lo faccio. Ho proprio voglia di maltrattare le canzoni che scrivo, sono oggetti che devo malmenare finché non escono. Quando comincio le devo finire, non possono rimanere in sospeso. Se mi piace vive e sarà da qualche parte prima o poi, se non mi piace muore, la dimentico e faccio del nuovo”.

 

Nel disco si parla tanto di amore. Ecco la domanda da un milione di dollari: pensi di averci capito qualcosa dell’amore e delle relazioni?

“Assolutamente no, non ci ho capito niente. Anzi, è diverso: ho smesso di cercare di capire. E questo penso sia un passo fondamentale.

C’è da dire che mi sento molto empatico quindi nelle relazioni a due, con un amico o una ragazza, sento di cavarmela bene e di saper ascoltare. Ovviamente quando entra in gioco l’emotività non c’è nessuna logica che tenga: forse non c’è davvero niente da capire”.

 

È un sentimentalismo amoroso che però va molto forte in questo periodo a livello musicale.

“Penso che nel disco si possano individuare due tipi di momenti distinti: quelli in cui volutamente ho voluto raccontare un cliché amoroso e che mi servivano per parlare con tutti. Altri momenti invece ho la presunzione di pensare che la gioia e il dolore siano descritti in maniera assolutamente personale.

Con le parole a volte cerco di cambiare peso, prospettiva e direzione del messaggio, disallineando dagli altri e dal sentire comune una cosa che sto cantando solo per me”.

C’è spazio anche per le fragilità: l’ansia, le debolezze, i silenzi, i pianti. Viviamo in un periodo però in cui si tende a nascondere i nostri malesseri, a favore della forma migliore di noi (soprattutto sui social, ma anche prima); La musica può aiutarci a liberarci di questa paura di mostrarci per come siamo e come stiamo davvero?

“Investire di questa responsabilità la musica è sempre potenzialmente sbagliato. È lo stesso concetto per cui un rapper non dovrebbe parlare di canne perché se no è diseducativo.

Citando Galimberti, credo che nascondere i nostri malesseri sia uno degli aspetti che non reputo così negativi. Forse dobbiamo imparare a tenerci i cazzi nostri un po’ per noi: non c’è bisogno di essere in grado di esternare tutte le cose che ci fanno star male. Anzi ogni tanto star zitti ci potrebbe far bene e me lo dico anche a me, perché spesso non ci riesco”.

 

Ma tutte queste storie attingono alla tua vita?

“Cinquanta e cinquanta. A me piace raccontare delle storie, non è detto che debbano essere solo le mie. Mi dà fastidio relegare la mia voglia di scrivere musica alla mia necessità di esprimermi a parole. Se ho finito le cose che devo raccontare in parole di me, non ho finito quelle che devo raccontare degli altri. La voglia di scrivere canzoni rimane e allora mi piace attingere dalle storie degli altri e raccontarle con le mie parole”.

Ma tu da piccolo avevi calcolato tutto questo? Era il tuo sogno?

“Ricordo che alle scuole medie non suonavo nessuno strumento e dicevo ai miei amici che sognavo di diventare un musico fallito. E alla fine eccomi qui, forse sono riuscito a raggiungere il mio obiettivo”.

 

Incredibile, è la storia che si compie! Come la Goggia che scriveva alle elementari che avrebbe vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi.

“Quindi diciamo che se avessi avuto aspettative più alte da bambino forse sarei arrivato più in alto! Magari ora sarei ancora più su pensa te e invece mi sono accontentato di essere un musico fallito! (ride n.d.r)”.

 

Quindi è da qui che nasce la scelta delle foto da bambino per presentare le tracce?

“In realtà è nato tutto casualmente. Mi sono sparato un viaggio molto strano in cui le canzoni se le guardi sembrano in fila, come una crescita. Cronologicamente nel booklet il bambino cresce, proprio come le canzoni.

Anche se questa cosa del bambino ormai mi ha rotto le balle: è dal 2017 che ho in mano queste foto, mi hanno stomacato, come anche il mio disco. Infatti ho già sentito il bisogno di scriverne un altro che è praticamente finito e se fosse per me uscirebbe dopo domani. Credo di aver trovato il titolo l’altra sera, ma non cederei a dirtelo mai”.

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