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Ritrovare se stessi nella provincia. Nowhere Emilia, il primo album di Ibisco

23-03-2022

Di Luca Vanelli
Foto di Silvia Violante Rouge

È un giorno qualunque e sono in un bar di provincia qualunque. La televisione trasmette una partita di calcio mentre illumina i volti delle persone che sorseggiano birre, parlano, si toccano. Il barista mi saluta come se mi conoscesse da sempre, anche se non è così. Una classica deformazione professionale provinciale, che ti fa sentire subito a casa.

Entra un ragazzo e il barista gli dice: «Grande Fillo!». Fillo è il nome con cui anch’io l’ho sempre chiamato.

È Filippo Giglio, in arte IBISCO, che da diverso tempo ormai ha preso la rincorsa per lanciarsi nelle rapide del mondo musicale.

Qualche mese fa ha pubblicato il suo primo album Nowhere Emilia e questo giovedì 24 marzo, alle 22, salirà sul palco del Covo Club. Ho voluto incontrarlo per parlare del suo debutto.

Foto di Silvia Violante Rouge

Il bar è vicino ad un fiume che dà forma alla valle in cui viviamo da una ventina di anni. Una valle che entrambi possiamo chiamare casa senza il timore di sentirci esclusi dal mondo. Mi sembrava giusto trovarci nel nostro habitat naturale per parlare del suo primo figlio musicale, e soprattutto per perderci parlandone.

In questo periodo sto leggendo Gianni Celati, che negli anni ottanta scorrazzava per le campagne padane raccontando la vita tra gli argini del Po. La sensazione che ho avuto ascoltando il suo album è che IBISCO abbia tracciato un paesaggio, un po’ geografico e un po’ generazionale, attraverso la musica anche delle terre in cui vivo. Nonostante l’ambientazione cupa, i suoni del disco sembrano non rinunciare a ballare sulla fatica, il malessere e il disagio.

Provo a partire da qui, per farmi raccontare cosa c’è sotto Nowhere Emilia.

«Il discorso sul paesaggio sento di condividerlo: è un concept album che indaga proprio lo spazio, i luoghi e i non-luoghi. I luoghi hanno la duplice capacità di essere sia fuori che dentro. Non conosco Celati, ma conosco quell’immaginario. Come Ghirri che racconta la desolazione e la bastardissima inquietudine che caratterizza la Pianura Padana e l’Emilia.

È esattamente l’immagine mentale che avevo in mente quando sono arrivato alla fine del disco. Volevo essere aderente a questo pensiero estetico e trasversale a tante forme d’arte: da Sironi alla musica dei CCCP, da Ghirri a Basilico».

Foto di Silvia Violante Rouge

Raccontami qualcosa in più sul titolo. Perché la scelta dell’inglese?

«Inizialmente non volevo l’inglese. Un giorno però il prof. di semiotica degli spazi urbani ci ha mostrato l’opera no-w-here di Giacomo Costa che mi ha fulminato. Mi sembrava una parola ricca, più di “non-luogo” che va a circoscrivere un solo ambito e a me questo non interessava. Volevo trovare soprattutto una parola che mi permettesse di sconfinare e tenere un significato largo. E anche che fosse un ossimoro».

 

Quindi possiamo tradurlo in una sorta di “Da nessuna parte in Emilia”?

«Diciamo di sì. Nel mio caso è l’Emilia, anche perché volevo un disco emiliano. Ma volevo un termine che potesse far sentire il disco accolto anche da chi abita fuori dall’Emilia, fuori in generale. Nel mio caso è Nowhere Emilia, nel tuo caso è nowhere dove vuoi».

 

Ora che me lo dici, penso che questa sensazione sia anche ben espressa dal lavoro di Valerio Bulla in copertina…

«Bulla mi ha mandato diverse proposte con un cerchio, ma ho capito solo diverso tempo dopo la scelta, perché mi ero fatto attirare da quell’immagine. Il disegno è in perenne ambiguità tra bi e tridimensionalità. In bidimensionalità ti dà uno spazio aperto, mentre in tridimensionalità ti dà uno spazio chiuso. Quindi cosa meglio di quell’elemento lì poteva confinare qualcosa che non esiste e descrivere un non-luogo. E così ho capito che era perfetto».

Nowhere Emilia

Ecco, a proposito di spazi e definizioni, quando ho proposto alla redazione di intervistarti cercavo di descrivere il tuo stile, ma non riuscivo a incasellarti in un genere esatto. È un genere tutto tuo, uno stile altro. Un po’ etereo, un po’ dark, però c’è anche speranza: tante cose che si legano, in un mood unico.

«Penso sia la mia croce e delizia, perché se non sei incasellabile fai più fatica a raccontarti o a convincere qualcuno che sei degno di essere ascoltato».

 

Questa cosa che la musica dobbiamo venderla è un problema?

«Non lo so. Quel che so è che non basta più essere solo artisti: bisogna essere anche comunicatori e tanto altro. E questo mi affascina perché ti costringe ad uno sforzo in contesti in cui non sei a tuo agio. Se da un lato è un gap difficile da colmare, dall’altro è formativo. La mia formazione in scienze della comunicazione mi sta tornando utile in tantissimi momenti, anche per capire se un messaggio che voglio trasmettere ha senso. Mi è arrivato tanto dall’università».

 

E dalla musica invece cosa ti è arrivato? Da dove nasce musicalmente IBISCO?

«Il mio punto di svolta come ascoltatore e realizzatore di musica sono stati i Baustelle nel 2008, con l’album Amen. Con grande stupore di coetanei e genitori perché quella musica non si addiceva ad un ragazzino di 14 anni. Mio padre mi ha influenzato molto con gli Smiths, i Cure, i Joy Division. Poi sono stato risucchiato dalla scena italiana degli anni ’10: Cani, Luci della Centrale, l’Orso, Stato Sociale».

Foto di Silvia Violante Rouge

Bene, le origini musicali le abbiamo individuate. Ma invece umanamente dove nasce IBISCO? In una delle tue bio scrivi: «I pezzi nascono nella noia dei cessi del lavoro dipendente, dove per soldi si rinuncia a se stessi».

«Forse la mia formazione esistenziale nasce proprio dall’avere iniziato a lavorare abbastanza presto. E mi sono ritrovato ad approcciare questioni oltre che economiche reali, anche umane e sociologiche vedendo i miei colleghi. Questo ha plasmato la mia sensibilità e alimentato quel classico risentimento che nasce dall’essere lavoratori dipendenti. E da quel nucleo nascono tante altre necessità: evasione, slancio reazionario, trovare un modo per esorcizzare».

 

Ma quindi fisicamente dove ti sei ritrovato a scrivere i tuoi testi?

«Praticamente tutti i testi sono nati nei ritagli di tempo a lavoro, quando avevo meno da fare. Ero a pieno contatto con la mia banalità da dipendente: un lavoro dove nessuno sa fare un cazzo e fan tutti le stesse cose. E ho sfruttato questi momenti a mio vantaggio, in maniera poetica. Quell’ambiente lì è il magma perfetto per plasmare le mie cose: il silenzio, l’avere intorno delle persone nella tua stessa condizione».

 

La musica come ti aiuta in questo processo di allontanamento dal lavoro?

«Credo che chi fa musica abbia due anime dentro di sé. Da un lato c’è il bisogno di esprimere certi sentimenti e argomenti. Dall’altro c’è una gran voglia di dimostrare di essere qualcuno, di porre se stessi su un podio della vita. Penso che l’essere umano sia così: vuole primeggiare, vuole mostrare che ha un valore. E la musica è un ottimo mezzo per farlo».

Foto di Silvia Violante Rouge

Continuando questa esplorazione caotica, vorrei parlare con te di una condizione che ci accomuna: quella di partire nella vita da una periferia qualsiasi del mondo. Molto spesso mi ritrovo a discutere con persone che mi suggeriscono di andare a Milano, perché qui non succede niente. E io lotto per dire che in parte non è vero.

«Io detesto la mitizzazione ossessiva del partire e allontanarsi dal proprio territorio d’origine. Questa sorta di arrivismo geografico per andare dove accadono le cose. Una sorta di mito di Marco Polo, dell’esperienza del viaggio che per aver qualcosa da dire devi vedere tanto per forza e andar via da dove sei. Sono ragionamenti che mi stanno un po’ sul cazzo. Chi stabilisce che partire sia un’esperienza che dà di più del restare? Come si misura questo divario?».

 

A volte però partendo dalla provincia mi sembra di dover fare più fatica emotiva, temporale e sociale per poter partecipare a qualcosa a cui vorrei partecipare anche a livello culturale.

«Probabilmente sul livello del fare rete, vivere in provincia è penalizzante. Abitando a Bologna sai che puoi uscire tutte le sere e hai sempre qualcosa da fare. Non è scontato.

Allo stesso tempo però è proprio questo quello che mi spaventa: se vivessi a Bologna sarei perso. Non riuscirei a tenere le distanze da un certo tipo di vita che è inevitabile ti sovrasti. Perché è troppo bella e le cose troppo belle sono una droga. C’è una socialità sempre a portata di mano, come avere sempre la droga nel cassetto. Crea assuefazione».

 

Vasco Brondi ha più volte parlato di questa citazione dei CCCP: “Non a Berlino, ma a Carpi” e di come i posti insignificanti diventavano leggendari. Capendo che il punto del mondo dove si è di solito, se si è fortunati ovviamente, va benissimo per fare quello che si deve fare. Quindi la provincia ti ha salvato, alla fine.

«La provincia mi ha permesso di prendere le distanze da meccanismi potenzialmente tossici. Puoi selezionare, decidi di vivere certi contesti quando veramente li vuoi. Sai che per arrivarci devi fare un sacrificio e credo che il sacrificio si stia ingiustamente perdendo. È tutto così tremendamente a portata di mano, tant’è che si fa fatica poi a scegliere cosa fare. Avere tutto alla propria portata rischia di farti smarrire. Non sei più quello che vuoi essere davvero».

Foto di Silvia Violante Rouge

Siamo una delle prime generazioni che non sono proprio certissime di esistere ancora nel futuro. Tu come ti rapporti al concetto di futuro?

«Il principale sentimento è la paura, che in me però si incarna in maniera doppia: la paura di non poter far niente che mi dia un senso e la paura di andare incontro a un mondo che sia tremendamente lontano da come sono fatto io».

 

Aspetta, proviamo a separare queste due paure. Partiamo dalla prima.

«Siamo un po’ tutti vittime di questa mancanza di scopo e nichilismo. Io ho la fortuna di avere un antidoto per ora nella musica. Senza la musica però non saprei realizzare dove potrei o vorrei essere fra cinque anni. Se non avessi l’obiettivo della musica mi chiederei continuamente: “Perché devo fare quello che sto facendo?”».

 

E invece la seconda come ti spaventa?

«In quel caso temo i miei limiti. Mi sembra di sentire che più di così, in certi aspetti della vita, non riesco a dare. Un esempio banale: a me la roba di META fa paura, non so se riuscirei a vivere nel metaverso. Quell’idea lì mi distrugge. Finché si tratta di usare Instagram posso anche starci, ma già TikTok faccio fatica…»

Foto di Silvia Violante Rouge

Bene, abbiamo ufficialmente sfondato la porta delle paure. Tema che nel tuo album oltretutto è toccato in maniera molto particolare, infatti in una canzone canti che “le tue paure sono logiche per combattere il mondo”. Mi sembra che stiamo vivendo un grosso trauma nell’evitare le paure in questo periodo, soprattutto quelle degli altri. Abbiamo un modo per riavvicinarci alle paure degli altri?

«In maniera banale ti direi l’empatia, ma mi vien da dire anche grande sicurezza di sé. Vedo molta insicurezza nelle persone, quindi per dimostrare che siamo migliori andiamo a competere sulle paure degli altri.

Penso che se uno possiede una propria sicurezza di fondo, una buona e autentica considerazione di sé, è molto più facile manifestare tutti quei sentimenti come l’amore per il prossimo, l’empatia, il perdono».

 

Aggiungo una postilla: forse abbiamo anche perso la capacità di considerare la complessità delle persone?

«Mi sembra di vedere una sorta di pubblicità di sé e la pubblicità prevede anche lo schema della semplificazione. Oggi siamo tutti ipermediati e iperpubblicizzati, cosa che non esisteva fino a poco tempo fa. Ognuno attraverso i suoi social ha il sito web di se stesso, come se fosse un’azienda. Siamo arrivati quindi a fondere l’azienda con la persona e a usare gli stessi metodi di vendita e comunicazione».

 

Per chiudere ho una domanda più leggera: perché il titolo della canzone houtunno è scritto così?

«L’autunno è la stagione che meglio incarna il mio sentimento musicale: gli alberi spogli, secchi e senza foglie, la pioggia, la nebbia. Quindi volevo una parola che unisse il concetto del sentirsi a casa in autunno. Ognuno si sente a suo agio nei propri luoghi e nessuno stabilisce qual è meglio o peggio. Volevo dare una dignità nuova all’autunno e alla provincia».

 

Nonostante avessi ancora tante domande in testa, ci lasciamo con una frase: scrivere fa schifo. Perché è faticoso, perché fa star male, perché ti porta a conclusioni che non vorresti. Scrivere è tremendo, non esiste il mito che scrivere fa star bene.

Ma scrivere, forse, è l’ultima e l’unica cosa che ci è rimasta.

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