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Kepler-452: “Non dobbiamo pensare che questo sia l’unico mondo possibile”. Lapsus Urbano porta il teatro fuori dal teatro e gli attori siamo (anche) noi

09-06-2020

Di Luca Vanelli

Quanto distano 1.400 anni luce? Una quantità sconfinata di chilometri che probabilmente non potremo mai colmare. Questi sono i chilometri che ci separano da Kepler-452 b, l’esopianeta più simile alla Terra finora conosciuto.

Aguzzando la vista, però, abbiamo molto più vicino a noi, all’altezza di Porta Castiglione, un altro Kepler-452. È un pianeta fatto di mondi alternativi, possibili, utopici e immaginati. Più precisamente una compagnia teatrale, nata nel 2015 da un’idea di Nicola Borghesi dopo l’esperienza nel 2014 del Festival 20 30. Nicola ha stretto intorno a sé Paola Aiello ed Enrico Baraldi insieme a tanti altri collaboratori nel corso del tempo, fra cui Lodovico Guenzi, Michela Buscema, Alberto Guidetti.

Prima del blocco totale delle attività, la compagnia avrebbe dovuto mettere in scena, nei giorni della ricorrenza del 25 aprilelo spettacolo “Lapsus Urbano // Resistenza”  nel comune di Castel Maggiore, con la volontà di tenere accesa una riflessione sulla memoria e sul senso del ricordare. Le cose ovviamente si sono fermate, ma le riflessioni dei ragazzi di Kepler no.

“Ci sembrava ancora più urgente fare una memoria del presente, mettendo a fuoco quali sono le grandi domande che ci stanno attraversando in questo momento”, mi ha spiegato Enrico al telefono. Così il primo giorno in cui sarà possibile tornare a fruire di uno spettacolo dal vivo all’aperto, quindi il 15 giugno (e fino a venerdì 19), sarà presentato alle ore 18, sempre nella piazza di Castel Maggiore, Lapsus Urbano // Il primo giorno possibile,  lavoro teatrale con audioguida. E ancora sabato 20 giugno e domenica 21 giugno sarà in piazza Maggiore con tre repliche al giorno: alle 19, alle 21 e alle 23

Con Enrico abbiamo parlato anche di molto altro: “experts of everyday life”, sogni, utopie e miracoli per un mondo culturale che sembra sempre più sofferente.

Prima di tutto, perché Kepler-452?

“Stavamo preparando uno spettacolo incentrato sulla “Rivoluzione” e studiando il termine siamo partiti dal significato della Treccani dove si leggevano definizioni come: “moto di un corpo celeste attorno ad un altro”, inteso come moto di rivoluzione dei pianeti.

Un giorno è arrivata Letizia, una delle nostre scenografe, raccontandoci di questo articolo che parlava della scoperta di un nuovo gruppo di pianeti il cui nome nasceva dal composto fra il telescopio che li aveva scoperti (Kepler) e un numero. Kepler-452 è il pianeta considerato più simile alla Terra, dove sarebbe possibile replicare la vita, ma troppo lontano per essere raggiunto.

Ci piaceva questa idea di un mondo possibile che può essere visto soltanto attraverso una lente. Un mondo molto simile al nostro, ma anche irraggiungibile e distante. Ci sembrava una buona metafora del nostro modo di fare teatro: guardare dei mondi possibili e potenziali che però si possono raggiungere solo con una lente, che è quella della fantasia, dell’immaginazione e del teatro”.

Parlate di mondi possibili e potenziali, ma c’è molta realtà nei vostri lavori…

“Visto che Kepler-452 non potremo mai raggiungerlo, cerchiamo nuovi mondi in ciò che ci resta a disposizione: la realtà.

La scelta che abbiamo fatto quando ci siamo incontrati è stata quella di rivolgerci alla realtà per interrogarla e renderla oggetto di un’indagine artistica che poi potesse essere tradotta in un oggetto scenico. Nella convinzione che la realtà abbia già di per sé dei tratti molto forti che possono diventare drammaturgia, al punto da poterla portare direttamente sulla scena”.

Come avviene questo processo di accompagnamento della realtà sul palco?

“Per farti un esempio, nello spettacolo sulla “Rivoluzione” c’erano 15 ragazzi, ognuno dei quali aveva il compito di portare sul palco la persona che riteneva più rivoluzionaria fra quelle che conosceva. Qualcuno che secondo lui aveva fatto qualcosa di rivoluzionario nella vita e in pochi minuti doveva raccontare una storia di rivoluzione personale.

Questo è stato il nostro primo tentativo di quello che tecnicamente viene indicato con il termine “Teatro partecipato”, ossia quando partecipano allo spettacolo anche dei “non attori” o dei “non professionisti”. Sono definizioni che non ci piacciono perché è pessimo definire qualcuno per qualcosa che non è. Per questo abbiamo poi deciso di utilizzare “experts of everyday life”, degli esperti della vita quotidiana. Una definizione presa in prestito da una compagnia tedesca che si chiama “Rimini Protokoll””.

Con il format “Lapsus Urbano” avete portato il teatro fuori dal teatro prima del lockdown e della chiusura dei locali. Quasi un premonizione. Qual è l’intento di uscire dallo spazio canonico del teatro?

“Lapsus Urbano è un format in cui lo spettacolo si svolge per la città e ha un forte legame con i luoghi in cui viene presentato. Si utilizzano cuffie audio. Muta e si adatta in base ai diversi contesti e situazioni.

Nei territori urbani dove sono in atto processi di trasformazione, si trova sempre anche una narrazione comune del cambiamento. Capita però che si manifestino delle narrazioni alternative attraverso il racconto delle persone che abitano quel territorio. Emergono involontariamente delle discrepanze rispetto a queste narrazioni, come dei lapsus del linguaggio. Far emergere questi tratti identitari significa fissare le piccole emersioni inconsce della città.

Il “Lapsus urbano” è un lapsus freudiano della città: qualcosa che emerge involontariamente e rivela qualcosa che apparentemente non c’è e non si vede”. 

RiguardoLapsus Urbano // Il primo giorno possibile”, c’è stato un cambio di direzione rispetto ai vostri programmi originari, giusto?

“Dovevamo realizzare questo spettacolo per il 25 Aprile sul tema della Resistenza a Castel Maggiore,  all’interno della stagione di Agorà e del bando Memoria della Fondazione del Monte, ma a causa del lockdown ci siamo trovati nell’impossibilità di fare i sopralluoghi necessari. E poi ci siamo resi conto che questo format sembrava la risposta creativa ideale ad una situazione oggettiva in cui non era possibile realizzare spettacoli tradizionali. Essendo all’aperto e a una distanza di due metri, e ascoltando tutti lo stesso audio di buona qualità, senza il problema di montare impianti, abbiamo deciso di andare avanti, ma in una direzione diversa.

Ci è sembrato vitale mantenere viva una riflessione artistica sul presente e su quello che ci stava accadendo. Il fatto che c’è una pandemia globale in corso, che le nostre vite sono cambiate e stanno cambiando in modo profondo e che questo probabilmente è il risultato di tutta una serie di atteggiamenti, individuali e collettivi, che hanno fatto sì che si arrivasse ad una situazione di crisi era una riflessione che non poteva mancare. Ad un tratto non ci è sembrato più così urgente parlare della memoria e della Resistenza, ma fare una memoria del presente mettendo a fuoco le grandi domande che ci stanno attraversando in questo momento storico”.

Come si svolgerà effettivamente lo spettacolo?

“Come ci è sempre piaciuto fare. Lapsus Urbano ti pone delle domande. Alcune sono più aperte e non prevedono una risposta, altre invece si ed è proprio qui che arriva la parte interattiva. 

Non sarà un percorso a piedi, ma si svolgerà tutto in uno spazio circoscritto, come una piazza. Gli spettatori saranno invitati ad interagire con il testo. Risponderanno ad alcune domande posizionandosi in determinati luoghi della piazza.

I temi andranno dalla percezione del pericolo alla percezione del proprio ambiente domestico come realtà vivibile. Parleremo anche dell’aspetto economico e dell’ impatto che c’è stato nella vita delle persone. Chiederemo loro come si immaginano il futuro e cercheremo di tracciare insieme l’immagine di un’utopia.

Rappresenteranno una microsocietà che si muove e interagisce. Sarà come avere una raccolta statistica che ci permetterà di capire come le persone hanno affrontato questo periodo. Cos’hanno pensato? Cos’hanno fatto? Che emozioni hanno provato? Chiunque sarà portato a riflettere, allo stesso tempo, sia sulla sua percezione personale che sulla quella collettiva.

Inizieremo dalla piazza di Castel Maggiore, ma speriamo di portarlo in tanti altri spazi pubblici aperti perché si adatta perfettamente”.

Pensi che questa enorme esperienza collettiva potrà aiutarci a costruire una nuova immagine di mondo possibile, tutti insieme?

“Probabilmente sì. Questa situazione è una delle poche esperienze davvero collettive degli ultimi decenni. Ha messo in crisi tutta una serie di questioni e ha messo in evidenza tutti i limiti della normalità precedente.

Se veramente questo evento ci ha fatto capire che non vogliamo più tornare alla normalità di prima, perché era il problema, allora come immaginiamo un futuro che possa essere una nuova normalità o una alternativa al sistema attuale? Esiste un’alternativa possibile al Capitalismo?”.

A tutte queste domande voi darete una risposta?

“Siamo dell’idea che uno spettacolo fa un buon servizio quando sono più le domande che ti fa porre rispetto alle risposte che ti fornisce.

Ognuno di noi ha dato risposte peculiari, perché ognuno si è fatto un’idea diversa della situazione, però c’è un filo conduttore ed è l’idea che immaginare un’alternativa al sistema dato sia possibile e più necessario più che mai. In fondo è quello che diciamo in tutti i nostri spettacoli. Non dobbiamo pensare che questo sia l’unico mondo possibile”.

Siamo entrati nella fase 2 in cui tutto sembra essere ripartito. Io però sto soffrendo più della fase precedente, perché mi costringe a produrre come prima ma non mi concede gli spazi per rigenerare la mente. Mi sembra che stiamo ripartendo dal peggio. Come si torna ad esercitare la leggerezza?

“Condivido le tue impressioni, ma è una domandona a cui non so se sono titolato a rispondere. Noi di mestiere facciamo il teatro e crediamo molto che fare comunità e riflettere su cosa significhi sia fondamentale per fondare il nostro essere umani.

È chiaro che ci sono dei problemi oggettivi ma è altrettanto importante tenere alto il livello del confronto su cosa voglia dire essere cittadini, persone, avere dei rapporti e relazionarsi con gli altri.

Mi sembra che il dibattito pubblico in questi giorni sia decisamente fuori fuoco, perché sento parlare solo di movida, come se fosse il vero problema. Anche solo se usi il termine “movida” in modo serio, io ho un problema a considerarti credibile”.

Ti chiedo uno sforzo di immaginazione: tutto questo come modificherà la fruizione culturale?

“Sinceramente? Non ne ho idea. Posso darti qualche spunto che ho raccolto in questo periodo, ma io stesso non so dove si andrà.

A breve termine temo non si creeranno delle soluzioni davvero alternative e creative, ma si cercherà di fare quello che si faceva prima, con posti ridotti e meno spettatori. Questo sarà un problema per molti del settore. Quello che mi auguro è che si eviti una seconda ondata e si riveda un barlume di normalità il prima possibile. 

A lungo termine ho ancora più dubbi. I costi di quello che stiamo affrontando adesso li andremo a pagare nei prossimi anni. La cultura è uno dei settori che soffre di più e ho tante domande. Quali saranno i criteri con cui si terrà in vita il mondo culturale? Ma soprattutto, lo si vorrà tenere in vita?

Ciò che mi preoccupa è che, al momento, mi sembra si vada nella direzione di un’industrializzazione che possa andare a braccetto con il turismo, seguendo un ragionamento incentrato solo su un ritorno economico. Mi domando se certe esperienze potranno continuare ad esistere e ad esprimersi”.

Ce lo chiediamo anche noi. Per ora, in mezzo a tante incertezze abbiamo finalmente una data certa.

Lapsus Urbano // Il primo giorno possibile ci aspetta il 15 giugno nella piazza di Castel Maggiore.

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