«Rimane in sottofondo
Dentro ai supermercati
La cantano i soldati
I figli alcolizzati
I preti progressisti
La senti nei quartieri assolati
Che rimbomba leggera (Leggerissima)
Si annida nei pensieri
In palestra, tiene in piedi
Una festa anche di merda
Ripensi alla tua vita
Alle cose che hai lasciato
Cadere nello spazio
Della tua indifferenza animale»
L’abbiamo sentita ovunque ormai. Una canzone pesantissima, camuffata da leggerissima. E deve essere una specialità tutta siciliana quella di trattare il malessere con una nota di leggerezza, perché dopo Colapesce e Dimartino ho notato su Instagram un illustratore, anche lui siciliano, che con poche parole e qualche linea nera mette in scena tanti episodi di malessere quotidiano.
Sto parlando di Nicola Madonia e le sue vignette che lasciano un sorriso amaro sul viso. E ho scelto io di chiamarlo illustratore, perché lui per primo non sa come definirsi: «Ho anche basse pretese da questo punto di vista: non direi mai che sono un grafico perché non ho alcun tipo di competenza effettiva, non so nemmeno disegnare una cosa in prospettiva».
Nicola un giorno di tre anni fa ha deciso di giocare con sé stesso ed elaborare i suoi malumori attraverso il disegno. E da qui nascono il suo profilo Instagram, il sito, maglie, tazze, poster dove si raccontano malumori più o meno condivisi da tutti.
Il pesante che si fa leggero, senza perdere il suo peso specifico e la sua importanza. Senza togliere valore al disagio che non va sminuito, ma va elaborato.
C’è solo una precisazione da fare: pensavamo che avesse un legame con Bologna. E invece niente, nulla. Nicola non è mai stato a Bologna in vita sua, anzi ogni volta che ha provato ad avvicinarsi il mondo l’ha respinto (prima un viaggio a Parigi, poi una pandemia globale). Me per Nicola Bologna rimane un pallino fisso ed è sicuro che un giorno, prima o poi riuscirà a conoscere quella che per lui è una città incredibile. Speriamo di accoglierlo presto a braccia aperte.
Nicola, raccontami un pò, da dove nasce il tuo progetto?
«Ufficialmente è partito tre anni fa ormai. Considera che ho sempre avuto la passione per la comunicazione e la scrittura. Ad un certo punto della mia vita mi sono ritrovato senza più stimoli: non riuscivo più a scrivere, ero bloccato. Su suggerimento di un caro amico, Gianluca Militello, ho provato a cambiare campo: inizio a giocare con pennarelli, disegno quello che sento.
Ho notato che l’esperimento funzionava e mi dava soddisfazione, così ho pensato di condividere queste mie elaborazioni su Instagram. Se nessuno mi avesse considerato oggi non so cosa sarei o dove sarei, probabilmente a inventarmi un altro lavoro. Ho avuto parecchia fortuna».
Nei tuoi lavori spesso emerge una componente di, permettimi il termine, “disagio”. Ultimamente mi sembra un termine e un concetto abusato. Spesso si rischia di mescolare il vero malessere psicologico con un sentimento diverso, un malessere quasi per moda. Che ne pensi?
«Penso che quando si decide di affrontare un tema come questo, ognuno abbia delle responsabilità: io stesso ho paura che il malessere psicologico possa essere trattato in maniera troppo banale.
Da quando ho iniziato c’è stato un vero e proprio exploit di lavori su questo tema, dalle vignette alle frasi d’effetto. Si tende a considerare tutto come ansia, attacchi di panico, a volte anche in maniera molto frivola e superficiale, anche quando realmente non lo sono.
Parlare di malessere psicologico ha la sua utilità, perché può aiutare a portare a galla alcuni problemi. Dall’altro lato può essere pericoloso perché non si riesce a riconoscere quello che è realmente un attacco di panico o un problema legato all’ansia. Tutti, io compreso, dobbiamo farci un esame di coscienza ed essere vigili su questo».
Quindi come si fa ironia su un tema così complicato, senza cadere nel banale e senza depotenziare il vero disagio?
«Io ho avuto la fortuna, fin da quando ho scoperto di soffrire di attacchi di panico, di lavorare molto sulla comunicazione del mio disagio. Essere aperto e raccontare il mio malessere è un’impostazione che ho sempre avuto. So dove posso spingermi con me stesso, so fin dove posso affrontare un mio problema parlandone in modo ironico.
So anche, però, che in alcune situazioni l’ironia non la puoi utilizzare».
Quindi l’ironia forse non sempre funziona…
«Non so se in generale sia un bene affrontare il malessere con ironia, nel mio caso funziona. Per altri affrontarlo con ironia può essere soltanto devastante.
Questo è uno dei motivi per cui credo che quando qualcuno legge qualcosa deve cercare di capire che non sempre parla con loro. Non è detto sia la soluzione migliore e non serve trovare il guru di turno che ti dice: “Ah guarda un attacco di panico, sconfiggilo così”. Esistono persone che lo fanno di professione, come gli psicologi, a cui uno deve realmente rivolgersi e chiedere aiuto».
Di recente due siciliani come te hanno parlato di disagio e malessere in una canzone ascoltatissima alla radio: sto parlando di Colapesce e Dimartino. Ascoltando il loro podcast da Sanremo, ad un certo punto si sente Dimartino che è preoccupato perché ha paura di essere frainteso, di diventare solo un balletto e un gioco. Che rapporto hai con il fraintendimento?
«La paura di essere frainteso è realmente la cosa con cui mi confronto ogni giorno. So bene che una battuta espressa male può ferire qualcuno. Un argomento affrontato con leggerezza lì per lì può farmi sorridere, ma prima di farci una vignetta ci penso settemila volte perché potrei toccare la sensibilità e la vita di qualche persona.
Quello che vorrei provare a fare è proprio quello che hanno fatto loro, ossia riuscire a parlare di cose pesanti e dare mazzate psicologiche, ma con leggerezza, in modo di lasciarti anche una sensazione positiva, una risata o un sorriso».
Ecco sì, forse con questi mezzi così rapidi e veloci come la canzone o il disegno, la possibilità di essere fraintesi sale in maniera esponenziale.. ma la difficoltà forse sta proprio nella capacità di tenere tutto insieme.
«Rimane il discorso di saper scegliere di cosa parlare e come farlo. Questa paura però ti aiuta a fare chiarezza nel momento in cui fai qualcosa. A elevare il livello. Ti sfida a rendere meglio il concetto.
È indispensabile rendersi conto di una cosa: se, quando finisci un lavoro, inizi a porti il dubbio che quella vignetta potrebbe essere travisata, allora quasi sempre in quel momento sai che hai creato una cazzata. Sai che c’è qualcosa di sconveniente di aver inserito un elemento che potrebbe essere un problema. E allora devi anche saper fermarti».
Molto spesso gli stimoli migliori per creare qualcosa ci arrivano dagli avvenimenti casuali che accadono attorno a noi. La mancanza di contatto con il reale ha influenzato le tue vignette?
«Pensa che qualche giorno fa ho proprio pensato che questa mancanza di vita mi sta svuotando: non sto più vivendo e quindi non riesco più a raccontare nulla di nuovo.
All’inizio della pandemia c’era la sensazione di epicità dell’evento e trovavi elementi da raccontare. Ora è diventato impossibile: si è molto scazzati, nessuno riesce a trovare soluzioni, tutto continua ad essere terribilmente lento. Mancano le emozioni quotidiane, come anche solo incrociare uno sguardo in stazione o una birra con degli sconosciuti. Questo mi appesantisce molto».
La vignetta che ti rappresenta di più?
«Penso siano parecchie, ma quelle più legate a me ad oggi non le ha viste nessuno. Fanno parte di una storia che spero possa diventare una graphic novel il prima possibile. Ovvero quando supererò la paura di continuare a disegnare determinate cose. Ci sto lavorando. È una storia talmente tanto mia che ci devo proprio fare i conti nel momento in cui la vado a disegnare. E questo penso sia un bene: riesco ancora a emozionarmi mentre faccio quello che mi piace».
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