Un estratto preso da un rapporto della Cia degli anni sessanta a proposito della Sardegna e dei sardi diceva: “una sorta di ponte libero, ettari ed ettari non cari, quasi spopolati ma abitati da gente, i sardi, tenaci e coriacei, ma comunque, risaputo, incapaci di costituire movimenti collettivi o iniziative comuni. L’isola è povera e per questo facilmente comprabile con poche centinaia di posti di lavoro nelle basi militari, da offrire come mangime a qualche compiacente politico nazionale e regionale” (dal libro Lo sa il vento di Carlo Porcedda e Maddalena Brunetti).
Il film di Mario Piredda, L’Agnello, racconta una Sardegna dai paesaggi ruvidi e selvaggi, autentici come la gente che li abita. Lontana dai luoghi turistici, l’acqua color smeraldo e le spiagge adamantine. Sullo sfondo le tante, troppe servitù militari che emergono, a tratti, con prepotenza. Centro della storia è un rapporto intenso, complice e complicato, tra un padre e una figlia, Jacopo e Anita. Con tutta l’energia e la ribellione dei suoi 17 anni la ragazza non si vuole e non si può arrendere alla malattia del padre e della sua terra. Jacopo ha la leucemia ed è in attesa di un trapianto. Solo Gaetano potrebbe essere compatibile e salvargli la vita, ma i due fratelli non si rivolgono la parola ormai da anni.
Il regista conosce bene la sua regione e la sa raccontare con quello sguardo disincantato di chi si è trasferito altrove. “Ho sviluppato una capacità di osservazione diversa da chi ci vive. Credo che sia normale quando ti allontani. Lo diceva anche Billy Wilder nei suoi film: quando fai due passi indietro e guardi le cose da lontano tutto ti appare più chiaro”. Intrecciando legami profondi tra i suoi personaggi fa emergere realtà scomode, ma non pensate di uscire dal cinema piangendo perché L’Agnello vi toccherà tante corde. Vi strapperà sorrisi, vi darà speranza, vi regalerà attimi di poesia. E vi farà anche arrabbiare.
Questa sera ci sarà l’anteprima bolognese alle 21.30 all’Arena Puccini in via Sebastiano Serlio, 25/2.
Saranno presenti il regista Mario Piredda, nato in Sardegna, vive a Bologna da diversi anni ed è già vincitore di un David di Donatello con il corto A casa mia. Sarà insieme ai due attori protagonisti, Luciano Curreli e Nora Stassi, e ai due produttori, Chiara Galloni e Ivan Olgiati, Articolture. Le prenotazioni sono on line sul sito della Cineteca fino alle 20.30 o direttamente in biglietteria dalle 20.45. Sarà anche possibile vederlo dal 18 al 20 settembre al Cinema Lumière.
Nora ha 21 anni, una cascata di riccioli rossi e occhi neri che ti scavano dentro. Parla con un fortissimo accento sardo. È seduta al bar con degli amici. Sta bevendo e chiacchierando ma si accorge che una donna la sta fissando da un pò.
Ma questa cosa vuole da me?
Lei si avvicina e le dice: “ti stavo guardando”.
“Mi sono accorta. Cosa vuoi?”
“Stiamo cercando l’attrice per un film. Ti va di fare un provino?”
La ragazza si alza e l’abbraccia. Sembra l’inizio di una sceneggiatura ma è così che, dopo mesi di provini andati male, Mario troverà finalmente Anita, la sua protagonista.
“Dopo aver visto tantissime ragazze, non so quante, quasi 300, ero molto scoraggiato”, mi dice.
Quando gli chiedo cosa stesse cercando esattamente, mi risponde: “non lo so”.
Ha tante suggestioni che non può tradurre a priori in una sola persona ma che sa riconoscere quando la incontra. Lei, che non ha mai recitato in vita sua, non è una di quelle che si aspettano ai casting. Si cerca per le strade, tra la gente, nei bar. Lei è Anita. È fuori dagli schemi, testarda, un pò punk e un pò ribelle, dalla femminilità inconsueta.
“Molti dicono che il personaggio è venuto bene perché Nora ha messo in scena se stessa. Io dico che mettere in scena sé stessi è una della cose più difficili. Io non ci riuscirei mai. Hai una camera a 20 cm dalla faccia e una troupe di persone che si muovono intorno a te mentre reciti una storia che comunque non è la tua. Anche se molte cose coincidono con la protagonista questo non significa che Anita sia Nora”.
Io credo che Nora dovesse portare a casa un lavoro, non se stessa. E credo che l’abbia fatto egregiamente.
C’è quell’equilibrio tra finzione e realtà che accade quando gli attori entrano dentro i loro personaggi, e li vivono. Quando si creano dei rapporti veri come quello che hanno costruito i due protagonisti dentro e fuori dal set.
“Sono stato aiutato da Nora e Luciano perché mi hanno dato quello che non era stato scritto nella sceneggiatura. Ho lasciato spazio all’improvvisazione e le cose sono venute fuori un pò da sole. Luciano non ha figli. Si preoccupava per Nora anche lontano dalle scene. Lei ha trovato in lui quel padre che non ha mai avuto nella vita reale e l’ha regalato ad Anita. Il loro rapporto fuori dal film è ancora così”.
Ma tutti gli attori che Mario porta in scena sono estremamente reali, spessi, autentici. Si potrebbe dire che ogni personaggio è una storia e sé. Li segui fin dove ti portano e ti chiedi quello che non ti dicono. Perché Jacopo e Gaetano, hanno litigato? Com’era Gaetano a 17 anni? Perché è andato in prigione? E com’è cambiato dopo che è uscito? Cos’è successo a Jacopo dopo la morte della moglie? Tante sono le domande che ci facciamo noi e che si è fatto anche il regista per dare vita a ogni personaggio.
“Ognuno si porta addosso un vissuto che percepisci. Devi caratterizzarlo, cercando di immaginarne un passato e un futuro. Abbiamo scritto tutto in sceneggiatura. Sembra un lavoro inutile perché non uscirà nel film ma è utilissimo. In un’opera prima indipendente non ti puoi permettere di lavorare tanto con un attore. Arrivare preparati ti fa risparmiare un sacco di tempo sul set”.
Un’altra storia, tutt’altro che secondaria, è quella che il regista non vuole raccontare direttamente. 35000 ettari di territorio sardo sotto le servitù militari, circa il 60% della servitù italiane. Altrettanta superficie marina grande quasi quanto l’intera isola. I sardi invece sono solo il 2% della popolazione italiana. Una sproporzione.
Poligoni, aeroporti, caserme, depositi, fabbriche a servizio dell’Italia, della Nato e di privati che sfruttano questi luoghi per sperimentare le armi per le prossime guerre. Sconcerta che a pochi metri di distanza convivano una vita agropastorale senza tempo e la tecnologia di un futuro troppo vicino. Perché permettiamo tutto questo? Forse, in primo luogo, perché non se ne parla o non si riesce a parlarne. Ci hanno provato in tanti. Con inchieste e documentari. Come Piccola Pesca o Materia Oscura, un racconto visivo ad alto impatto emotivo che non ha trovato distribuzione nel nostro Paese. Ma il cinema è arte. Si mescolano realtà e finzione. L’Agnello mette in scena drammi universali, poco importa che i personaggi siano inventati, perché il loro dolore lo ritroviamo nella vita reale.
Mario mi racconta che all’inizio aveva paura di raccontare questa storia.
Lui e la produzione hanno tenuto la massima riservatezza durante tutta la preparazione. La mattina del primo giorno di set si reca in Supramonte per le riprese. Ad aspettarli c’è un posto di blocco. Cresce la tensione, passa un’ora. Nessuno gli dice niente. Poi la rivelazione: si tratta di una battuta di caccia contro la peste suina. “Una volta appurato che non eravamo pastori camuffati che nascondevano maiali e che non gli avremmo dato problemi, ci hanno lasciato passare”.
Ridiamo.
Poi si fa serio e precisa: “questa della Sardegna è una storia che è successa anche a Taranto e in tanti altri posti. Succede un pò ovunque dove c’è uno sfruttamento del territorio. A certo punto si deve rinunciare a qualcosa e si rinuncia alla propria terra, alla propria salute, alla propria cultura. A uno sviluppo sostenibile che per noi era la pastorizia. Ettari di terra sottratti ai pastori e destinati ai poligoni. Un processo che è iniziato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le prime avvisaglie di malattie, le prime leucemie sono arrivate all’inizio degli anni ’90. E a quel punto anche la popolazione ha iniziato a capirlo. Molti si sono svegliati. Ci sono state manifestazioni, comitati, battaglie ma è sempre Davide contro Golia. Da qualche parte li abbiamo mandati via, o forse se ne sono andati. Da un lato capisco chi dice: io ho un ristorante a Perdas, è tutta la vita che ci lavoro. I miei clienti sono militari e ufficiali. Come fai a dire non li vorrei più? Poi crolla il mercato. Ma un altro mercato può esistere. Il problema è la riconversione, che in Italia ha sempre spaventato tutti. Riconvertire è paura. E poi non c’è la volontà da parte dello Stato”.
È quasi finito il tempo della mia intervista. Mario deve lasciare la camera dell’hotel. Un’altra presentazione, un altro treno.
Gli faccio l’ultima domanda. Il film inizia con il parto di due agnellini, uno deformato e l’altro che non riesce a mangiare, e si chiude con la tosatura di una pecora. Perché L’Agnello? Qual è il significato simbolico?
“Beh gli agnelli in realtà erano sette. Abbiamo cercato prima una pecora incinta, poi un agnellino di pochi giorni, poi di qualche mese. Insomma di tutte le fasi. Il problema è che quando cambiava il piano di lavorazione, cambiavano le esigenze. Ce ne portavano uno che poi non serviva perché magari dovevamo girare altro. E spesso non potevano venire a riprenderselo. Quindi ci siamo riempiti di agnelli. A ognuno abbiamo dato un nome e dormivano con noi in hotel. Sono degli animali molto mansueti e si sono affezionati a noi, e noi a loro.
Mi sono chiesto se un titolo con questo suono un pò cacofonico, potesse attirare lo spettatore. Ma gli si è appiccicato addosso ed è rimasto in fase di preparazione e produzione. Poi è stato difficile cancellarlo. Per tutto il tempo è stato L’Agnello titolo provvisorio. E poi è diventato L’Agnello titolo definitivo.
E poi pensando a questo animale, già così carico di significati simbolici, pensiamo alla religione cattolica e ebraica, mi sono chiesto: perché un solo significato? Mi piace l’idea che ognuno possa dare la propria interpretazione. Come un signore che stamattina scritto: alla fine ho capito il perché del titolo. Per entrare nella realtà occorre crescere, accettare di farsi tosare come quell’agnello ormai cresciuto e quella ragazza ormai tosata di ogni affetto”.
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