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“Produci e consuma. Giovani sempre!”. Tre compagnie teatrali portano in scena “Giovinezza obbligatoria”

20-10-2020

Di Luca Vanelli
Foto di Roberto Ceré

Che cos’è la vecchiaia? Quand’è che una persona può essere dichiarata “vecchia”? È una questione anagrafica? Biologica o sociale? È una questione psicologica?

Cosa fa di una persona anziana, una persona anziana? È una questione fisica? Di prestazioni? Di capacità o incapacità a svolgere determinate mansioni?

Sono tante le domande che rimbalzano nella testa durante la visione di Giovinezza Obbligatoria, lo spettacolo teatrale che ha riaperto le porte del Teatro Calcara di Valsamoggia e ha inaugurato la nuova stagione teatrale del Teatro delle Temperie.

Il progetto nasce dalla collaborazione di tre compagnie: Teatro delle Temperie di Valsamoggia (BO), Tedacà di Torino e Arti e Spettacolo dell’Aquila, che per la prima volta hanno lavorato insieme a una coproduzione.

Giovinezza Obbligatoria verrà replicato al Teatro Calcara ancora il 23, 24 e 25 ottobre, per poi andare in scena a Torino e a L’Aquila.

Altre informazioni le trovate nella nostra guida agli eventi della settimana.

Luca (interpretato da Andrea Lupo) e Franca (interpretata da Tiziana Irti), vivono in un mondo futuristico e distopico in cui è vietato invecchiare, in cui tutta la vita ruota attorno alla giovinezza e dovranno affrontare il momento in cui, senza rendersi conto in pieno di come ci si è arrivati, ci si trova costretti a lasciarla andare.

Dopo pochi minuti di spettacolo, diretto da Simone Schinocca, la sensazione però non è affatto quella di osservare un mondo distopico, ma quella di aver aperto la finestra su una casa qualsiasi di due coniugi nel pieno delle loro carriere.

“Produci e consuma. Giovani sempre!”. È il mantra che Luca e Franca si ripetono ossessivamente, ogni mattina, durante i loro esercizi, nella loro pressante routine quotidiana. Una routine che diventa una danza isterica, frenetica, sempre uguale a sé stessa e accompagnata dai suoni elettronici e dalle musiche futuristiche prodotte da 3K.

Nel giro di un’ora lo spettacolo accompagna gli spettatori in un vortice emotivo turbolento. Un percorso in cui si affrontano tutti gli stati d’animo che ci accompagnano dalla giovinezza obbligatoria alla vecchiaia inevitabile.

Così, nel giro di pochi minuti tutto muta. Si passa prima dall’euforia del sentirsi invincibili, come se la vecchiaia e la morte non potessero mai presentarsi alla porta. E qui gli specchi allestiti dallo scenografo Giancarlo Gentilucci giocano un ruolo dominante: il guardarsi allo specchio diventa una delle azioni principali, per convincersi di essere produttivi, di essere belli e vincenti sempre. E si manifesta così la massima presunzione dell’essere umano: qui ci sono io, giovane immortale che cavalco l’onda del mondo, e là ci sono le persone inutili, morte, non vitali, lontane da me. Quelle che verranno portate via dagli agenti Anti-Età e dovranno scegliere se “Auto-Annullarsi” o vivere nella “Città dei vecchi” il resto dei loro giorni.

Poi però la tragedia si palesa: una mattina all’improvviso Luca viene considerato vecchio. E il tono dello spettacolo, fin lì gioioso e divertente ed euforico, si ribalta completamente. Disperazione e paura travolgono i due protagonisti.

Franca vive il dilemma etico se denunciare il marito alla polizia. Teme per la sua reputazione e i suoi preziosi “Punti Leppard”, i punti giovinezza che stabiliscono se puoi continuare a consumare e produrre o se devi avviarti alla fine dei tuoi giorni.

Luca vive un momento di rifiuto estremo: si sente perso e non riesce ad accettare di essere visto come vecchio. Lui continua a sentirsi giovane, ad essere il “Dirigente del mese” come sempre, nonostante il suo corpo dia evidenti segni di cedimento.

Ed è da questo momento che lo spettacolo mette in scena la critica più dura verso la società che ci ritroviamo a vivere: “Ho sempre vissuto come bisognava vivere, ma quando mai abbiamo immaginato qualcosa di diverso?”, si ripete Luca.

Ogni scena, ogni dialogo, stimola continuamente lo spettatore a mettere in discussioni il ritmo di vita in cui ci troviamo. Fino al finale, di cui non anticiperò nulla.

La sensazione è quella che l’opera faccia un lavoro molto importante, ossia concedere allo spettatore un momento di riflessione verso i grandi temi rimossi di questi tempi: la vecchiaia, il rallentamento del nostro corpo, l’accettazione dei nostri lati più oscuri, brutti e non mostrabili. E ci avvicini alla nostra paura più grande: quella della fine eterna, della morte.

Alla fine dello spettacolo, dopo uno stimolante dibattito con caste e spettatori ho fatto una rapida chiacchierata con Andrea Lupo, che è anche l’autore del testo. Abbiamo provato ad andare più a fondo, per capire quali tasti volesse andare a toccare lo spettacolo.

 

Qual è l’aspetto più degradante della nostra società che lo spettacolo cerca di mettere in evidenza?

“Quello che mi sembra si sia sviluppato con più violenza negli ultimi decenni è l’aspettativa che le prestazioni delle persone, dal punto di vista lavorativo ma anche relazionale, non possano mai invecchiare. Come se tutti gli aspetti che accompagnano l’avanzare dell’età fossero per forza negativi. Come se andare più lenti fosse una colpa. Come se un corpo che funziona in modo diverso e che ha necessità diverse fosse una cosa di cui vergognarsi. Quando invece la realtà è che si tratta soltanto di un modo diverso di agire lo spazio, il tempo, le relazioni”.

 

La vecchiaia oggi quindi potrebbe essere letta come una sorta di condanna a morte.

“In questa società futuristica che abbiamo immaginato, in cui abbiamo esasperato tutte le dinamiche che secondo noi già sono in funzione nella nostra società, essere certificati ‘vecchi’ è in tutto e per tutto una condanna a morte, perché si viene allontanati dalla comunità, come se si fosse infetti e si potessero contagiare gli altri con la propria lentezza e la propria vecchiaia”.

 

Ma c’è qualcuno che a un certo punto ci certifica come ufficialmente “vecchi”?

“Ufficialmente no, però è interessante come a volte accadano cose banali che ci etichettano così. Ad esempio ricevere pubblicità diverse nella nostra casella mail, stabilite in base ad algoritmi che decidono per noi il momento in cui dobbiamo essere considerati anziani e in base a questo le proposte che è giusto farci. Non più vacanze a Ibiza o auto sportive, ma magari il montascale o il nuovo adesivo per le dentiere. Qualcuno decide per noi che non siamo più un certo tipo di consumatori. A quel punto, l’algoritmo di stampo commerciale che governa gran parte degli aspetti delle nostre vite, ci certifica ufficialmente in qualche modo come vecchi”.

 

Esistono delle narrazioni che possono aiutarci a ribaltare questa concezione negativa della vecchiaia?

“Penso che in realtà alcuni degli esempi migliori ci arrivino da chi decide di abbandonare, se può, questi stili di vita super veloce e giovanilistico in cui da qualche tempo siamo immersi. Ci sono molti esempi di ragazzi che scelgono altre vie, ridanno un senso alla lentezza, al contatto con la natura. Un approccio alla vita in cui le prestazioni non vengono valutate allo stesso modo, in cui ci si può prendere il tempo e lo spazio per avere cura: cura delle cose, cura delle persone, cura di se stessi e dell’ambiente in cui si vive”.

 

C’è modo di fare pace con la vecchiaia?

“Non credo ci sia una risposta univoca, generalizzare è sempre una cazzata. Io ultimamente mi sto affezionando agli esempi che ci arrivano dalla natura, ad esempio dagli alberi. Gli alberi sono sempre fermi lì, eppure sono estremamente vitali, comunicano con le piante vicino a loro e addirittura pare che prima di morire abbandonino le loro ultime risorse alle piante vicine, con un’estrema consapevolezza quindi dell’importanza del sistema nel suo insieme. Senza l’ansia di doversi continuamente muovere, spostare, fare chissà quali conquiste. Senza dover cacciare o danneggiare altri per sopravvivere, come i carnivori che stanno all’apice di una catena alimentare che invece forse dovremmo ribaltare.

Accettare cosa si è e la fase di vita in cui ci si trova, trarre il meglio dal posto in cui si sta, come gli alberi. Questa è l’immagine che mi ha aiutato di più nell’ultimo periodo. E ognuno probabilmente deve trovare la sua, prendendosi il tempo di pensare anche a questo”.

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